Fontolan: ‘Il rischio educativo’ e la passione di don Giussani per i giovani
Opera fondamentale e tra le più originali della produzione di Luigi Giussani, ‘Il rischio educativo’ esprime la preoccupazione che è al centro dell’intera sua proposta: “Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione”. Tre i fattori costitutivi della proposta dell’autore: la comunicazione di una tradizione, dentro una esperienza presente, per liberare i giovani e metterli nelle condizioni migliori per valutare criticamente ogni aspetto della realtà.
Dal ‘rischio’ del confronto con l’ambiente circostante si genera la personalità di chi è educato: la sua libertà, cioè, ‘diviene’. Il saggio, edito nel 1978, è uno dei testi più importanti della produzione di Giussani e uno di quelli a cui era più legato e che più spesso citava.
Infatti nel libro scriveva: “Solo un’epoca di discepoli può dare un’epoca di geni, poiché solo chi è prima capace di ascoltare e di comprendere si alimenta una maturità personale che lo rende poi capace di giudicare e di affrontare, fino –eventualmente– ad abbandonare ciò che lo ha alimentato… La vera educazione deve essere un’educazione alla critica”.
Per comprendere, a distanza di 40 anni, il valore del saggio abbiamo chiesto al dott. Roberto Fontolan, docente in master di giornalismo all’Università Cattolica di Milano e responsabile del Centro Internazionale di Comunione e Liberazione, di spiegarci in quale modo educare i giovani al ‘senso religioso’?
“Direi, molto semplicemente: vivendolo. Tutti noi cerchiamo la felicità. Nei giovani in particolare si vede un bisogno viscerale di trovare una strada verso qualcosa che li soddisfi. Il Papa ce lo ha ricordato più volte parlandoci dei loro ‘sogni’. Cercano una grandezza di vita e lo fanno in tutti i modi, magari abbandonandosi a esperienze che non potranno mai soddisfare pienamente le loro attese, o che potrebbero fare loro del male.
In ogni caso: cercano. Educare i giovani al ‘senso religioso’ significa innanzitutto aiutarli a riconoscere lo straordinario valore di questa loro ricerca. Si tratta di un paziente coinvolgimento con le domande e i desideri che hanno, per mostrare loro a poco a poco che sono proprio queste aspirazioni l’espressione più bella della loro umanità.
Per don Giussani questo lavoro era un compito fondamentale, tanto da arrivare ad affermare che ‘lo scopo per cui Dio è diventato uomo è quello di educare l’uomo al senso religioso’. Come accennavo, per adempiere a questo compito occorre una ‘presenza del senso religioso vissuto’.
Un giovane può iniziare ad amare le proprie aspirazioni solo se incontra persone che gliele svelano, stimandole e condividendole. E possono farlo perché sono impegnate con le proprie, le conoscono e le amano. In questo senso, il problema dei giovani è lo stesso degli adulti: siamo sulla stessa strada”.
Oggi quale può essere il ‘rischio educativo’ per la Chiesa?
“Le circostanze storiche variano, ma la Chiesa continua a proporsi a tutti come la possibilità di incontrare Gesù oggi. Da questo punto di vista, secondo me l’aspetto più affascinante del contesto in cui viviamo, soprattutto in Europa, è che questo messaggio che la Chiesa porta può essere ritenuto interessante solo se intercetta le aspirazioni di cui parlavamo prima.
Il ‘rischio educativo’ più grande per la Chiesa è quindi quello di affidarsi alla libertà e alle attese di ogni singola persona, lasciare che ognuno si chieda: la Chiesa è realmente una via per la mia felicità?”
Dopo l’esperienza del Sinodo dei vescovi sui giovani quale può essere il volto di una Chiesa attenta ai giovani?
“La Chiesa vive attraverso ognuno di noi che le apparteniamo. Il suo volto è il nostro volto. Dal Sinodo è più volte emersa la richiesta da parte dei giovani di una maggiore vicinanza della Chiesa, che è quindi una maggiore vicinanza di ognuno di noi. Che cosa vuol dire quindi essere loro vicini? Che tipo di attenzione abbiamo conosciuto noi nella Chiesa, al punto da voler essere attenti ai giovani?
Nella sua omelia a conclusione del Sinodo, Papa Francesco ha ricordato che spesso ‘la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù!’. Riconoscere questa ‘presenza amica’ e la sua attenzione verso di noi, lasciando che il volto di Gesù diventi il nostro, mi sembra la più grande fonte di attenzione anche verso i giovani, qualunque sia la loro condizione. Tutti gli eventuali cambiamenti di stile, di pastorale, di forma, mi sembrano conseguenti rispetto a questo punto”.
Don Carron ha scritto un libro, intitolato ‘La voce unica dell’ideale’. In quale modo accettare la sfida di un rapporto con le nuove generazioni?
“Un rapporto con le nuove generazioni è interessante e direi quasi entusiasmante perché ci obbliga a riscoprire continuamente il significato di ciò che vorremmo proporre loro. Non ci sarebbe comunicazione senza passare dalle loro domande, senza che quello che proponiamo le intercetti.
Come il libro menzionato testimonia, accettare la sfida delle nuove generazioni significa prendere sul serio le domande dei giovani, farle nostre, per iniziare un cammino che offre innanzitutto a noi una nuova possibilità di giovinezza. E’ qualcosa di ormai raro, oggi che i giovani sono visti principalmente come persone da compatire per le loro difficoltà e da assistere”.