«Nelle angosce, la speranza». 30 gennaio 2020: OMS dichiara COVID-19 emergenza sanitaria globale. 31 gennaio 2020: Consiglio dei ministri dichiara stato di emergenza nazionale
Il 12 gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha confermato la scoperta di un nuovo coronavirus denominato 2019-nCoV (poi SARS-CoV-2), che provoca un’infezione polmonare denominata COVID-19. Dopo aver colpito diversi abitanti della città di Wuhan, nella provincia dell’Hubei della Cina continentale, il caso era stato portato all’attenzione dell’OMS il 31 dicembre 2019.
Il 30 gennaio 2020, dopo la seconda riunione dell’International Health Regulations (IHR) Emergency Committee per il COVID-19 dell’OMS, il Direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che l’epidemia di COVID-19 costituiva un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, ha accettato il parere del Comitato e lo ha emesso come Raccomandazioni temporanee IHR. Il Comitato ha anche riconosciuto che c’erano ancora molte incognite, che i casi erano stati segnalati in cinque regioni dell’OMS in un mese e che la trasmissione da uomo a uomo si era verificata al di fuori di Wuhan e al di fuori della Cina. Il Comitato riteneva che fosse ancora possibile interrompere la diffusione del nuovo coronavirus, a condizione che i Paesi mettessero in atto misure forti per rilevare precocemente il contagio, isolare e trattare i casi, tracciare i contatti e promuovere misure di distanziamento sociale commisurate al rischio. Nel dichiarare la diffusione del nuovo coronavirus un’emergenza sanitaria globale, l’OMS ha riconosciuto il rischio che questo rappresenta per i Paesi, oltre la sua origine in Cina e la necessità di una risposta internazionale più coordinata all’epidemia. Nel fare l’annuncio, i dirigenti dell’OMS hanno esortato i Paesi a non limitare i viaggi o il commercio con la Cina, anche se alcuni Paesi hanno chiuso le frontiere e limitato i visti.
Nel pomeriggio dello stesso 30 gennaio sono stati confermati i primi due casi di contagio in Italia. A Roma, una coppia di turisti cinesi di 66 e 67 anni originari della provincia di Hubei e sbarcati la notte tra il 22 e 23 gennaio all’aeroporto di Milano-Malpensa e che avevano visitato la Capitale su un autobus turistico, sono risultati positivi per il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e sono stati ricoverati in ospedale presso l’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani in regime di isolamento. Il governo italiano, primo in Europa a prendere tale decisione, ha quindi sospeso tutti i voli da e per la Cina.
Il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri italiano ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria per l’epidemia da nuovo coronavirus. “Alla luce della dichiarazione di emergenza internazionale dell’OMS abbiamo attivato gli strumenti normativi precauzionali previsti nel nostro Paese in questi casi, come già avvenuto nel 2003 in occasione dell’infezione Sars”, ha dichiarato il Ministro della Salute, Roberto Speranza, al termine della seduta del Consiglio dei Ministri. “Sul nuovo coronavirus – ha sottolineato Speranza – vogliamo dare un messaggio di assoluta serenità. Il Servizio Sanitario Nazionale è molto forte, abbiamo scelto fin dall’inizio di avere un livello di attenzione che è il più alto in Europa. In questo momento siamo l’unico Paese che ha interrotto i collegamenti con la Cina, l’OMS ha riconosciuto pubblicamente che siamo quelli con il più alto livello di vigilanza e di salvaguardia delle persone”.
Il 1° febbraio, a poco meno di 48 ore dal ricovero dei due turisti cinesi, i virologi dell’Istituto Lazzaro Spallanzani sono riusciti ad isolare la sequenza genomica del nuovo coronavirus. Il 2 febbraio vengono rimpatriati dalla Cina con un volo speciale dell’Aeronautica militare italiana 56 cittadini italiani residenti a Wuhan, che vengono collocati in quarantena presso la cittadella militare della Cecchignola. Il 5 febbraio viene confermata la positività di uno degli italiani rimpatriati, dichiarato poi guarito il 21 febbraio.
Il 17 febbraio un uomo di 38 anni originario di Castiglione d’Adda, in provincia di Lodi, che non si era mai recato in Cina, si è presentato all’ospedale civico di Codogno accusando sintomi influenzali e gli viene diagnosticata una leggera polmonite. Ritornato per la seconda volta al pronto soccorso, al peggioramento delle sue condizioni, viene sottoposto al tampone diagnostico non ancora previsto dai protocolli sanitari. Il paziente – e in seguito anche la moglie incinta e un amico – sono risultati positivi. Altri tre casi sono stati confermati lo stesso giorno dopo che i pazienti hanno riportato sintomi di polmonite e il 20 febbraio sono stati confermati altri 16 casi (14 in Lombardia, 2 in Veneto).
È da poco passata la mezzanotte del 20 febbraio quando l’Assessore al Welfare della Regione Lombardia dà la notizia di un 38enne positivo al Covid-19 ricoverato all’ospedale di Codogno, il primo contagiato da Coronavirus in Italia, il cosiddetto Paziente zero. Il primo morto per Covid-19 in Italia viene registrato lo stesso 21 febbraio, Adriano Trevisan di 78 anni deceduto nell’ospedale di Monselice a Padova.
Nella Conferenza stampa dell’11 marzo il Direttore generale dell’OMS ha dichiarato: “Nelle ultime due settimane il numero di casi di COVID-19 al di fuori della Cina è aumentato di 13 volte e il numero di Paesi colpiti è triplicato. Nei giorni e nelle settimane a venire, prevediamo che il numero di casi, il numero di decessi e il numero di paesi colpiti aumenteranno ancora di più. L’OMS ha valutato questo focolaio 24 ore su 24 e siamo profondamente preoccupati sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Abbiamo quindi valutato che COVID-19 può essere caratterizzato come una pandemia. Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione. Descrivere la situazione come una pandemia non cambia la valutazione dell’OMS sulla minaccia rappresentata da questo virus. Non cambia ciò che l’OMS sta facendo e non cambia ciò che i Paesi dovrebbero fare. Siamo grati per le misure adottate in Iran, Italia e Repubblica di Corea per rallentare il virus e controllare le loro epidemie. Sappiamo che queste misure stanno mettendo a dura prova le società e le economie, proprio come hanno fatto in Cina”. Oggi sappiamo che le cose non sono andate bene. Sono andate malissimo.
Oggi, 30 gennaio 2020, nell’anniversario della dichiarazione di COVID-19 emergenza sanitaria globale dall’OMS (30 gennaio 2020) e della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale dal Consiglio dei Ministri (31 gennaio 2020) ritorniamo ai primi mesi della pandemia.
Lo facciamo con il libro Nelle angosce, la speranza. Il Ministero della parola al tempo del lockdown in cui il Mons. Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione d’Adda ha raccolto le sue riflessioni su questi mesi primi mesi della pandemia vissuti dalla sua comunità parrocchiale. Il libro ha inizio il 22 febbraio, il giorno dopo la dichiarazione del Paziente zero e dopo il primo morto per Covid-19. Quel 21 febbraio 2020 lo ricordiamo su questa rubrica “Blog dell’Editore” da 344 giorni, ogni sera. La data segna l’inizio di un conteggio [QUI], per non dimenticare, dal primo morto per Covid-19 quel giorno fino al numero 87.858 di ieri, con una media giornaliera di 255. Non si tratta di “numeri” ma di persone, che hanno lasciato i loro cari in modo angoscioso.
Castiglione d’Adda è stato uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia. Da qui il desiderio Mons. Gabriele Bernardelli di raccogliere l’esperienza della propria comunità parrocchiale in zona rossa durante il lockdown in un libro che rimarrà nel tempo. Il suo libro inizia il giorno dopo quel 21 febbraio 2020.
Mons. Gabriele Bernardelli ha sempre tenute aperte le quattro chiese parrocchiali nelle due parrocchie che cura per la preghiera personale, anche nei periodi di celebrazione della Santa Messa senza concorso di popolo. “In questo volumetto sono raccolti le omelie e i messaggi che ho rivolto ai fedeli di Castiglione, dove opero dall’agosto 2015, durante il periodo della pandemia: dal 22 febbraio e fino al momento della visita al Papa del 20 giugno”, spiega Mons. Bernardelli. Così da mantenere memoria di quei giorni e vive alcune piste di riflessione che possono essere di aiuto per il futuro. “Non so quanti saranno i lettori di questo volumetto. Resterà comunque nell’archivio della nostra parrocchia a testimonianza dei giorni angosciosi dei primi mesi di questo 2020”.
Dr. Mons. Gabriele Bernardelli è nato il 27 agosto 1961 a Codogno, provincia di Lodi. È stato ordinato sacerdote il 21 giugno 1986 per la Diocesi di Lodi. Da settembre 2015 è parroco di Assunzione della Beata Vergine Maria in Castiglione d’Adda (5.000 anime) e da luglio 2019 anche parroco di San Giacomo Maggiore Apostolo in Terranova dei Passerini (1.000 anime). Da ottobre 1996 è Responsabile del Servizio Cause dei Santi diocesano. Da febbraio 2001 è Vicario Giudiziale Aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo. Da marzo 2001 è Consulente Ecclesiastico dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (U.C.I.D.). Da settembre 2004 è Cancelliere, Segretario e Notaio di Curia della Diocesi di Lodi. Da maggio 2005 è Canonico onorario del Capitolo della basilica cattedrale della Vergine Assunta in Lodi. Da settembre 2009 è Docente di Diritto Canonico presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose delle Diocesi di Crema, Cremona e Lodi. In settembre 2016 è stato Convisitatore con il Vescovo Maurizio Malvestiti nella Visita Pastorale nella Diocesi di Lodi.
Questa introduzione per presentare la Lettera a Mons. Gabriele Bernardelli, pubblicato in un post del 28 gennaio 2021 sul diario Facebook dell’amico Mauro Visigalli, avvocato rotale di Codogno, che nella tragedia della pandemia ha perso ambedue i suoi genitori [suo ricordo QUI].
Sull’argomento trattato in questa Lettera, ho scritto – scegliendo di abbandonare l’angoscia e vedere al futuro con speranza – il 16 maggio 2020: “Una Chiesa patriottica impaurita, igienista, fobica, pessimista cosmica, lontana dalle famiglie e dall’Eucarestia, devota a Beato Cloro e Sant’Amuchina” [QUI] e cito:
«Sulla questione non mi sono espresso fino ad oggi (oltrettutto, come si sa, sono sempre molto parsimonioso nell’esprimere mia ipsissima verba). Però, ci ho riflettuto molto a lungo. In realtà, ci sto pensando da più di due mesi, dal giorno dopo il 9 marzo 2020 (che rimarrà per sempre impresso nella mia memoria), su dove mi trovo in questa Chiesa. Questa Madre Chiesa che mi ha visto nascere, che mi ha battezzato tre giorni dopo la mia nascita, che da allora mi ha educato alla Fede, che a otto anni mi ha dato la Prima Comunione e a dodici la Cresima… E sono arrivato ad una conclusione. In una Chiesa come è diventato oggi, mi trovo straniero. Quello che è certo, fino a quando questa follia (con la scusa del coronavirus) non terminerà, non metterò piedi in un tempio-post-18-maggio-2020. Per di più, perché nel frattempo non “rubo” neanche un posto ad un/a temerario/a. Inoltre, evito pure il rischio di essere contagiato (perché con tutte le misure e disposizioni, mi pare, si comunica l’estrema pericolosità dei luoghi in oggetto). Quindi, proseguirò con il mio #iorestoacasa, anche in ambito “ecclesiale” come avevo già deciso per quello “civile”, felice di poter prendere finalmente questa decisione in libertà, senza le vessazioni di un regime totalitario con il benestare di una gerarchia ecclesiastica servile.
Come consigliato dalla Diocesi di Brescia, ho deciso di “offrire a Dio il mio desiderio, che non si potrà concretizzare a causa di questa situazione”. Sono sicuro, anche senza le assicurazioni bresciane, che il Signore – Colui che È, che sa tutto e comprende tutto – mi perdonerà. Anche perché Lui mi conosce bene e sa che osando di andare in una chiesa sprofondata nella follia, sarei oggetto a rischio… di dare i numeri, in tutti i sensi e quindi commettere peccato. E dover andare a confessarmi oggi, mi pare essere peggio di entrare in un tempio sanificato (ma lontano dall’essere santificato, anche se manche solo una lettera) “gestita” come vuole un regime dittatoriale, da “una Chiesa patriottica impaurita, igienista, fobica, lontana dalle famiglie e dall’Eucarestia”.
Il dossier pubblicato oggi da La Bussola Quotidiana è impressionante ed è stato l’ultimo tassello per completare il puzzle. E non aggiungo altro. Amen».
Poi, seguono tre articoli al caso del parroco di Castiglione d’Adda:
– Due articoli a firma di Andrea Zambrano pubblicati su La Nuova Bussola quotidiana: Don Gabriele e la Messa che il Coronavirus non fermerà (24 febbraio 2020) e Don Gabriele, sfida al Coronavirus: «Niente può toglierci la Messa» (25 gennaio 2020).
– Un breve articolo su Il Giorno, a 4 mesi di distanza (5 maggio 2020): Fase 2, parroco di Castiglione d’Adda: “Preghiere in strada, attenzione apertura cimiteri”. Monsignor Gabriele Bernardelli riconosce che “c’è molta prudenza, le persone rigorosamente rispettando le norme di sicurezza e le distanze”.
Lettera a Mons. Gabriele Bernardelli
Rev.mo Mons. Gabriele,
ho terminato ieri di leggere il suo volumetto “Nelle angosce, la speranza”, di cui ancora la ringrazio e cui ho dedicato l’attenzione dovuta non solo alla cortesia del donante e all’antica stima per la sua dottrina, ma soprattutto a quel Parroco di cui conservo il video – inviatomi da una cara amica – mentre in tempo funesto esce, solo, dalla chiesa ed espone il tabernacolo a benedizione del gregge affidatogli.
Ho trovato, nelle sue pregiate pagine, numerose conferme e numerose assonanze con ciò che ho vissuto e pensato in questi ultimi mesi: mi sono però a lungo soffermato – non voglia vedere in questo una accusa di insincerità ma solo il personale sfogo di chi disperatamente vorrebbe aver letto il vero (e non dubito che per lei lo sia) – nel punto in cui commentando, nel giorno della Passione di Nostro Signore, “Il Crocifisso porta del Cielo” (p.48), lei ha ricordato il toccante sermone del Santo Papa Paolo VI in occasione dell’udienza generale tenutasi il 2 aprile dell’anno 1969.
“Voi desiderate – scriveva Sua Santità Giovanni Battista Montini – partecipare in qualche modo allo stato d’animo della Chiesa durante la Settimana Santa, che precede la celebrazione del massimo avvenimento della storia e dei destini umani, cioè la risurrezione del Signore Gesù, voi trovate la Chiesa non in festa, ma tutta assorta in una grave e dolorosa meditazione, quella della Passione di Cristo, delle sue ineffabili sofferenze, della sua Croce, della sua morte … La Chiesa, in questa misteriosa liturgia, è presa da immensa pena. Ricorda, ripete nei suoi riti, rivive nei suoi sentimenti la Passione di Cristo. Essa stessa ne prende coscienza, ne soffre, ne piange. Non disturbate il suo lutto, non distraete il suo pensiero, non irridete al suo rimorso, non crediate follia la sua angoscia”.
Orbene, il privilegio di una ultraventennale conoscenza mi rende superfluo tediarla con la mia storia, le mie aspirazioni e i miei pensieri, che in maggior parte già conosce: alla Chiesa ho offerto dedizione personale e professionale, con sacrifici che ho spesso colpevolmente esteso anche a chi mi sta a fianco e su di me conta. Ho sempre cercato di fare al meglio il mio dovere senza rammaricarmi se nessuno mi si rivolgeva dicendomi “Amico, passa più avanti” (Lc. 14,10) ed anzi ignorando i tanti che – usando della Chiesa e ricevendo abbondantemente dalle Sue mammelle – si sedevano ai primi posti indipendentemente dal loro rango.
Ho ignorato anche, ben consapevole di quanto l’imperfezione umana si rifletta financo sulle Istituzioni divine, gestite dagli uomini, chi – per vari motivi, a volte ideologici ma ancor più spesso personali – mi ha ostacolato e ostracizzato: non sono un saggio ma neppure sciocco al punto da non sapere che – soprattutto in certi ambienti – il costo dell’indipendenza è inversamente proporzionale al reddito dell’adulazione. Tutto questo ho ignorato perché lo ritenevo, tutto sommato, un buon prezzo a fronte delle certezze che la Chiesa mi offriva: in particolare la possibilità – Suo tramite – di alzare gli occhi alla Croce per comprendere e commiserare il mondo e amarne le persone indipendentemente dagli errori (miei e loro).
Ma torno ora al suo caro scritto e le spiego le mie perplessità. Non tutte: di alcune credo averle già fatto cenno e riguardo molte altre è inutile rammentarle ciò che lei conosce anche meglio di me, indipendentemente da come lei interpreti la dolorosa lacerazione che sta vivendo il Popolo di Dio. Il fatto è che io non ho visto – come ai tempi di Papa Paolo VI si aveva la fortuna di vedere – la Chiesa concentrata nel lutto della Passione. Non ho visto – come ho invece letto nelle sue righe – la sublimazione di tanti lutti nel lutto salvifico di quell’Uno cui apparteniamo e a cui anche i miei lutti ho offerto.
Nel mobile divario dei fusi orari ho saputo che mia madre stava morendo (e mio padre l’avrebbe seguita una settimana dopo) poco dopo avere ascoltato, nella Guardian Angel Cathedral, la bella liturgia della I domenica di Quaresima e quella è stata l’ultima Santa Messa non semplicemente commemorativa cui ho partecipato. Non sono tornato per il lutto ma perché mia moglie piangeva nell’annunciarmelo ed era giusto che io tornassi frettolosamente qui (anche se poi non sono più riuscito a ripartire). Ho trovato l’atmosfera surreale che conosciamo e su cui è inutile spendere ulteriori parole ma, soprattutto, ho trovato le porte delle chiese serrate e i Sacerdoti scomparsi.
Facevo fatica a crederlo: facevo soprattutto fatica a non reagire con rabbia a tutti quei suoi colleghi che non hanno trovato nulla di più edificante, in questo funesto periodo, che sostituire la santificazione con la sanificazione. Non rammenterò a lei – di cui, come le ho detto, ricordo l’uscita col tabernacolo – le mille offese al mio sentirmi cristiano che ho subito in questi ultimi mesi: non le dirò della mia delusione nel vedere – a chiese chiuse – il mio Parroco presenziare alla celebrazione del 25 aprile; non le dirò la nostalgia per la mia Parrocchia americana ove (complice il bel clima di Las Vegas) i Sacerdoti hanno proseguito a celebrare e benedire all’aperto quando si sconsigliavano le Messe in chiesa; non le dirò la rabbia che ho provato verso il nostro Vescovo (“Come faccio a dirmi in comunione con lui e con Francesco?” mi sono detto) quando – docili, ligi e proni a Cesare – le gerarchie ecclesiastiche hanno ottenuto di parzialmente riavviare il culto e Mons. Malvestiti ha raccomandato di utilizzare la Polizia Locale per domare i facinorosi che avrebbero voluto partecipare alla Messa senza prenotazione; non le dirò di quel giorno che, facendo uno sforzo, ho provato ad affacciarmi ad una funzione proprio mentre il Sacerdote spiegava l’effetto antibatterico delle lampade appena installate a lato dell’altare (sono subito e definitivamente uscito); non le dirò come mi abbia irritato vedere la Chiesa confidare, invocare, valorizzare governi amici e vaccini più che i propri Sacerdoti e l’unica vera Salvezza; non le dirò quanto mi ripugni l’idea di dover prenotare l’Eucarestia, accettare precauzioni folli, dare retta a giubbini catarifrangenti che salvano il pianeta irrorandomi di gel puzzolente invece che di acqua santa; non le dirò come ciò che mi viene dato da tenere in mano non può, per me, essere il Corpo di Cristo perché solo dalle mani del Sacerdote posso riceverlo.
Chiudo ora questa mia e le chiedo perdono per il lungo sfogo: sappia che comunque il suo libello ne è stato, pur lieve, balsamo. Mi ricordi nella preghiera come io faccio ogni giorno per tutti i Sacerdoti (anche e soprattutto per quelli che – a differenza di ciò che provo per lei – non stimo).
Un caro saluto
Mauro Visigalli
28 gennaio 2021
Don Gabriele e la Messa che il Coronavirus non fermerà
di Andrea Zambrano
La Nuova Bussola Quotidiana, 24 febbraio 2020
«Ieri, dinanzi al tabernacolo e alla statua dell’Assunta, anch’io ho pianto. Quando sentirete suonare le campane della Messa, unitevi al sacerdote che offrirà il Sacrificio del Signore per tutti. Uscirò sul sagrato della parrocchiale benedicendo con il Santissimo Sacramento tutta la parrocchia e tutto il paese». La toccante lettera del parroco di Castiglione d’Adda ai “fedeli nella prova”: continua a celebrare nonostante la sospensione e offre il sacrificio per la sua gente.
Dopo il lodigiano e il cremonese anche nella Diocesi di Milano il vescovo ha disposto la sospensione delle Messe con concorso di popolo a causa dell’epidemia di Coronavirus. Si tratta di misure gravi e clamorose alle quali i fedeli devono sottostare con pazienza e fede. Ma se le Messe pubbliche sono sospese e si è sollevati dal precetto (ma si tratta comunque di un provvedimento discutibile, leggi QUA), è bene ricordare che questo non significa che i preti non possano e non debbano comunque celebrare le Sante Messe anche senza fedeli.
In quest’ottica, sta facendo il giro delle chat di Whatsapp un messaggio audio di don Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione d’Adda, che ha scritto un messaggio ai suoi fedeli nel quale ha detto loro che continuerà a celebrare Messa e a benedirli sul sagrato della chiesa con il Santissimo. Si tratta di un gesto di grande fede che dà il valore della Messa, che non è un servizio da togliere a piacimento a seconda delle evenienze.
È un gesto commovente che richiama alla memoria una celebre scena del film “Don Camillo e Peppone” che rievoca l’alluvione del ’51 quando la Bassa reggiana e parmense, fino al Polesine, furono allagate. Nel corso del film, la popolazione fugge dalle case all’arrivo dell’acqua e si rifiugia oltre l’argine dove si accampa in attesa che le acque si ritirino. Con Brescello completamente allagata, la chiesa sottosopra invasa dalle acque e Peppone nella piazza del paese che va in barca, va in scena una delle immagini più commoventi della serie nata dalla penna di Giovannino Guareschi.
Don Camillo ha appena finito di celebrare Messa e dispone gli altoparlanti in modo che i suoi fedeli possano ascoltare al di là del fiume. E dice così: «Fratelli, sono addolorato di non poter celebrare l’ufficio divino con voi, ma sono vicino a voi per elevare una preghiera nell’alto dei Cieli. Non è la prima volta che il fiume invade le nostre case, un giorno però le acque si ritireranno ed il sole ritornerà a splendere. E allora con la fratellanza che ci ha unito in queste ore terribili, con la tenacia che Dio ci ha dato, ricominceremo a lottare perché il sole sia più splendente, perché i fiori siano più belli e perché la miseria sparisca dai nostri Paesi e dai nostri villaggi. Dimenticheremo le discordie e quando avremo voglia di morte cercheremo di sorridere così tutto sarà più facile e il nostro Paese diventerà un piccolo paradiso in terra. Andate fratelli, io rimango qui per salutare il primo sole che porterà a voi lontani, con la voce delle nostre campane, il lieto annuncio del risveglio».
Le parole di don Gabriele ci richiamano la stessa intensità e la stessa drammaticità. Ma anche la stessa certezza che il Signore della vita può portare il sole dove oggi c’è angoscia e timore.
E ci ricordano che la Messa si fa per Dio, quindi la presenza o meno dei fedeli è subordinata a questo. Sarebbe un dramma se i preti intendessero queste disposizioni come un tana liberi tutti, una vacanza inaspettata dai propri doveri che sono primariamente il culto di Dio.
Ecco le parole di don Gabriele, le pubblichiamo perché siano da sprone ad altri parroci colpiti dalle misure interdittive a fare altrettanto e a non spezzare la catena che ci lega al Cielo attraverso il Santo Sacrificio dell’altare per continuare a chiedere protezione e salvezza.
AI MIEI FEDELI NELLA PROVA
Cari fratelli e sorelle, nessuno di noi, forse, avrebbe mai pensato di trovarsi nella situazione nella quale, invece, siamo venuti a trovarci. Il nostro animo è frastornato, l’emergenza sembrava così lontana. Invece è qui, in casa nostra. Anche questo fatto ci porta a considerare come nel mondo siamo ormai un’unica grande famiglia. Ora ci dobbiamo attenere alle indicazioni che le autorità preposte hanno stabilito, tra cui la cessazione della celebrazione della Santa Messa. È facile, in questa situazione, lasciarsi andare spiritualmente, diventando apatici nei confronti della preghiera, ritenuta inutile.
Vi invito, invece, cari fratelli e sorelle, ad incrementare la preghiera, che sempre apre le situazioni a Dio. Ci rendiamo conto, in congiunture come la presente, della nostra impotenza, perciò gridiamo a Dio la nostra sorpresa, la nostra sofferenza, il nostro timore. Mi è venuto in mente, ieri, il brano che si legge il Mercoledì delle Ceneri, tratto dal profeta Gioele, laddove si dice: «Tra il vestibolo e l’altare, piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: “Perdona, Signore, al tuo popolo”». Non ho vergogna a dirvi che ieri, dinanzi al tabernacolo e alla statua dell’Assunta, anch’io ho pianto. E vi chiedo di innalzare con me al Signore il grido della nostra preghiera. Pregare significa già sperare. Vi ricordo tutti nell’Eucaristia quotidiana e con me don Manuel, don Gino e don Abele.
Quando sentirete suonare le campane della Messa, unitevi al sacerdote che offrirà il Sacrificio del Signore per tutti. Domani mattina, dopo la Messa che celebrerò alle 11.00, uscirò sul sagrato della parrocchiale benedicendo con il Santissimo Sacramento tutta la parrocchia e tutto il paese. Ricordiamo soprattutto quanti sono stati contagiati dal virus e i loro familiari, affinché non si scoraggino, ma anche tutti gli operatori sanitari che si stanno spendendo per far fronte al contagio.
Stiamo uniti nella preghiera. Il vostro parroco, don Gabriele.
L’INTERVISTA
Don Gabriele, sfida al Coronavirus: «Niente può toglierci la Messa»
di Andrea Zambrano
La Nuova Bussola Quotidiana, 25 febbraio 2020
Chi è don Gabriele Bernardelli, il parroco che ha commosso e dato speranza con il messaggio ai parrocchiani di Castiglione d’Adda, chiusi in casa per l’epidemia da Coronavirus? Ha benedetto sul sagrato, suonato le campane e non ha rinunciato alla Messa, «che niente può toglierci, perché è il bene più grande che abbiamo. E questa privazione ci aiuterà a desiderarla ancora di più». La Nuova Bussola Quotidiana lo ha incontrato.
«L’ho fatto perché l’Eucarestia è la cosa più importante che abbiamo nella vita». Si dice stupito per la improvvisa notorietà conquistata con un semplice audio di WhatsApp. Ma don Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione D’Adda, nel piccolo del suo gesto ha dato la testimonianza di fede più bella: la Messa ci salva e non saranno i dispacci prefettizi e gli adempimenti vescovili a cancellare con un colpo di spugna questo tesoro insostituibile.
Cronache dal Nord Italia che ha iniziato la settimana per la prima volta – da secoli? millenni? – senza Messe: da Torino a Udine, da Trieste a Modena, passando per Ivrea, Lodi, Verona, Milano, Bologna, Trento: siamo senza Messa. Il Coronavirus ha potuto fare ciò che invasioni islamiche, guerre e Massoneria non erano riuscite ad ottenere. E nel caos delle fredde comunicazioni vescovili, così arresesi facilmente alla Ragion di stato, sono davvero pochi i vescovi che si sono raccomandati con i preti di continuare a celebrare le Messe: Ivrea, Pavia e pochi altri. Per tutti gli altri la comunicazione ha il sapore del tana liberi tutti che ai preti sa tanto di rompete le righe.
Don Gabriele invece ha stupito tutti, perché ha ricordato che in questo clima di lassismo spirituale nel quale la Messa equivale né più né meno ad un servizio come il mercato rionale, da togliere quindi alla bisogna, è invece il centro della nostra vita. E il suo audio ha confortato tanti fedeli e dato coraggio a tanti sacerdoti di ricordare ai propri parrocchiani che al suono delle campane, la Messa sarà lì per loro, rimedio anche all’epidemia in corso. In poche ore il suo audio è diventato virale e don Gabriele si è trovato a dover fare i conti con il plauso di tantissimi cattolici sparsi per il Paese che lo hanno lodato. La Nuova Bussola Quotidiana lo ha trovato a Castiglione, pieno focolaio lodigiano dell’epidemia, nello studio della sua abitazione dove vive blindato da venerdì. «Non ho fatto niente di eclatante…», dice.
Eppure, non abbiamo sentito tanti vescovi dire che le Messe dovevano continuare…
Forse perché implicitamente ritengono che i loro preti siano consapevoli che la Messa la devono celebrare.
Ma il fatto è che non siamo abituati a sentire un prete parlare con così tanto ardore e trasporto della Santa Messa. E a fare di tutto per non rinunciarvi. Ci racconti di lei.
Sono parroco a Castiglione d’Adda, che è un paese di 5000 anime e di Terranova, di appena un migliaio. Venerdì ho ricevuto la notizia del contagio di Codogno e abbiamo saputo che la persona era originaria di Castiglione, anche se non viveva qui.
E ora avete molti contagiati?
Bè, sì… un certo numero.
Che cosa ha fatto?
Venerdì ero a Lodi dalle monache del Carmelo per le confessioni, io lavoro anche in curia al tribunale ecclesiastico. Ma ho capito che dovevo rientrare immediatamente dalla mia gente.
E quando si sono complicate le cose?
Sabato, con la chiusura di tutte le attività e il comunicato del vescovo. A quel punto ho capito che domenica avrei dovuto celebrare da solo con gli altri confratelli.
Quando ha pensato all’audio?
Nella mattinata di sabato: mi sono trovato a pensare che cosa sarebbe stato della mia comunità senza la Messa comunitaria. Abbiamo una realtà vivace, tante celebrazioni e avevamo molte iniziative per il gruppo famiglie in vista per domenica. Ci sarebbe stato anche l’incontro di un gruppo diocesano per la pastorale famigliare. Insomma, sarebbe stata una domenica molto ricca. Ma l’assenza della Messa mi ha molto addolorato.
E ha pianto al tabernacolo, come ha raccontato…
Ho immaginato la gente che vede la vita cristiana azzerata, così mi sono detto: devo raggiungerli in un qualche modo per dire loro che la Messa ci sarebbe comunque stata e sarebbe stata per loro.
Mai avrebbe pensato che questo messaggio sarebbe arrivato ovunque?
Assolutamente no.
Ha mai pensato di sospendere anche lei la celebrazione della Messa?
No, mai. Nessuno potrà mai chiedermi di non celebrare Messa…
E come l’è venuta in mente l’idea della benedizione eucaristica?
Ho fatto più considerazioni. Anzitutto non bisogna dimenticare che da noi non c’è solo paura, ma c’è lo sconforto di vedere che il virus è entrato nelle nostre case. E in questi casi al panico si aggiunge la sensazione di essere stati abbandonati da Dio. Ma abbiamo l’Eucarestia che è il bene più grande che c’è sulla terra ed è conforto e benedizione. Così ho voluto dire loro: «Guardate che non siamo stati dimenticati da Dio, Lui vi benedice». Bisogna aiutare i miei parrocchiani a superare questo momento di scoraggiamento e di dubbio, perché ci è capitata questa cosa. Non ci maledice Dio, ma ci benedice.
E l’altro motivo?
L’altro motivo è che noi purtroppo consideriamo l’Eucarestia come una cosa. Invece quel che mi ha sempre colpito è che Gesù non ha dato all’Eucarestia una forza d’inerzia, che va avanti per suo conto, ma quando la celebriamo, Gesù è lì con il suo amore palpitante e il suo dolore, la sua Passione. Per cui nell’Eucarestia dove c’è Gesù risorto c’è anche il suo dolore. Nell’Eucarestia c’è tutto. Anche la guarigione. La benedizione ci restituisce questo Tutto, questo dolore con l’amore della nostra vita.
Che reazioni ha avuto?
La mia gente mi ha risposto ed era quello che volevo, si è creata questa rete in cui l’aspetto principale che si è rimarcato è quello della preghiera e l’unione dei cuori. Anche l’idea di suonare le campane serve a ricordarci che con la Messa parte una rete di preghiera che ricopre tutta la città.
Che cosa pensa della decisione di sospendere le Messe presa da tante diocesi?
Capisco lo scoraggiamento e la delusione dei fedeli che vorrebbero invece più Messe, però riconosco che alcune azioni di contenimento nella nostra zona debbano essere Messe in atto con rigore. In ogni caso, non importa come la penso io. Importa cercare e trovare un risvolto spirituale anche in questa situazione di privazione che ci possa aiutare.
E lei l’ha trovato?
Credo che questa lontananza dal Santo Sacrificio per i fedeli servirà a far crescere in noi la “fame dell’Eucarestia”. Diciamo la verità: oggi ci si è abituati alla Messa in maniera meccanica. Ma c’è un’altra idea che vorrei suggerire.
Quale?
Mi auguro che serva a vivere questa esperienza comunicando spiritualmente con coloro che desiderano l’Eucarestia e non possono averla, coloro che sono privi dell’Eucarestia da tempo. C’è un passaggio di Papa Benedetto XVI di quando era ancora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede che diceva proprio questo: dare un valore spirituale a una privazione temporanea per condividerla con chi non può averla. Una sorta di solidarietà eucaristica.
Com’è la sua vita quotidiana ora che è costretto a non uscire di casa?
È scandita dalla preghiera e dal lavoro: ho del lavoro arretrato dal tribunale regionale per le cause di nullità, devo studiare. Insomma, ci sono tutte quelle attività che si rimandano e non si riesce mai ad approfondire.
E per il cibo?
Gli alimentari sono aperti e anche i supermercati, l’unica accortezza è quella di entrare pochi alla volta. Gli ingressi sono regolati per evitare assembramenti. Ho visto in un supermercato di Casalpusterlengo che ci hanno fatto entrare a flussi minimi e regolati.
Torniamo all’assenza della Messa. A lei che cosa dice personalmente?
Spiritualmente mi dice che proprio perché si rinnova il Sacrificio del Signore il poter celebrare è uno sguardo lanciato sul futuro e di conseguenza uno sguardo di speranza per la gente.
Si è sentito un po’ don Camillo che celebra Messa con la chiesa allagata e i fedeli fuggiti oltre argine?
Sì (ride) e la cosa non mi dispiace affatto. Del resto, il Papa stesso, parlando ai vescovi italiani, ha indicato don Camillo come modello di parroco.
Fase 2, parroco di Castiglione d’Adda: “Preghiere in strada, attenzione apertura cimiteri”
Monsignor Gabriele Bernardelli riconosce che “c’è molta prudenza, le persone rigorosamente rispettando le norme di sicurezza e le distanze”
Il Giorno, 5 maggio 2020
“C’è molta prudenza, le persone escono per fare la spesa come nei giorni passati sempre rigorosamente rispettando le norme di sicurezza, le distanze, indossando guanti e mascherine”. È quanto racconta monsignor Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione D’Adda, comune dell’ex zona rossa lodigiana, parlando all’Adnkronos del primo giorno della Fase 2.
“Ieri sera abbiamo recitato per le strade la preghiera del mese di maggio, mese dedicato alla Madonna, – racconta mons. Bernardelli – i cittadini si sono affacciati alle finestre delle proprie case per partecipare. È stato importante e toccante per tutti. E anche prudente come giusto che sia”. “Sempre ieri abbiamo celebrato due funerali uno al mattino e uno al pomeriggio – ha aggiunto Bernardelli – rispettando rigorosamente le regole dettate dal decreto: non oltre 15 persone che indossavano tutte i dispositivi di protezione necessari. È stato un momento molto sentito, doloroso, necessario non solo dal punto di vista spirituale ma anche psicologico per la rielaborazione del lutto. Il momento del distacco va vissuto fino in fondo e c’è chi ancora non ha potuto farlo perché non ha visto i propri cari defunti, ma la bara già chiusa, per loro faremo quando sarà possibile una messa esequiale”.
Monsignor Bernadelli ha chiesto di fare attenzione all’apertura del cimitero: “In tanti vorranno recarsi a fare visita ai cari scomparsi e soprattutto le persone anziane che, per tradizione, si fermano a chiacchierare e c’è il rischio che, involontariamente, si formino assembramenti. Bisogna cercare di evitarlo”. “L’appello è sempre al rispetto delle norme di sicurezza, a mantenere il distanziamento sociale e indossare le protezioni - ha concluso mons. Bernardelli – tutti dobbiamo avere senso civico e senso di responsabilità, non ci possiamo permettere di abbassare la guardia proprio ora”.