La guerra infinita della Repubblica Democratica del Congo

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La Repubblica Democratica del Congo è uno degli Stati più grandi e più ricchi di risorse naturali del continente africano, ma i molteplici conflitti interni nel Paese hanno prodotto una forte instabilità che ha portato con sé una crisi umanitaria complessa, tantoché al termine dell’Angelus dell’ultima domenica dello scorso febbraio papa Francesco aveva chiesto la pace: “Seguo con preoccupazione l’aumento delle violenze nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Mi unisco all’invito dei Vescovi a pregare per la pace, auspicando la cessazione degli scontri e la ricerca di un dialogo sincero e costruttivo”.

Infatti nell’ultimo giorno di febbraio è iniziato il ritiro ufficiale della Monusco dall’est della Repubblica Democratica del Congo, istituita nel 2005 con il mandato di proteggere i civili e mantenere la sicurezza nell’area, con il processo di smobilitazione che si concluderà entro il 31 dicembre 2024 e metterà fine alla presenza della missione nel paese, durata 25 anni. Attualmente sono circa 15.000 i peacekeeper Onu dispiegati nelle tre province più problematiche della regione, Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri.  

Per comprendere meglio la situazione nella Repubblica Democratica del Congo abbiamo contattato Claudio Ceravolo, presidente di ‘COOPI – Cooperazione Internazionale’: “Proprio in questi giorni è ricorso il 30* anniversario del genocidio che ha sconvolto il Rwanda nel 1994 e che ha fatto precipitare la situazione politica e militare nella vicina Repubblica Democratica. del Congo. Trent’anni di guerra hanno causato quella che probabilmente è la crisi umanitaria più complessa al mondo, un susseguirsi di guerre locali che hanno causato globalmente più di tre milioni di morti e una situazione di grave insicurezza, particolarmente nelle regioni orientali del Paese”.

Perché è una guerra ‘infinita’?

“La Repubblica Democratica del Congo non ha mai vissuto un periodo di pace duraturo e stabile. L’indipendenza del Paese dalla colonizzazione belga, nel 1960, ha fatto precipitare il paese nella guerra civile; con l’ascesa al potere del presidente Mobutu la situazione securitaria è migliorata, ma a prezzo di una dittatura che ha mantenuto le tensioni nascoste sotto la cenere. La guerra nel vicino Rwanda nel 1994 ha riversato nel paese oltre due milioni di rifugiati, che hanno fatto nuovamente precipitare la situazione politica e scatenare nel 1996 quella che viene chiamata la ‘prima guerra del Congo’, estesa su tutte le regioni del paese”. 

E’ possibile un percorso di pace?

“Percorsi di pace sono sempre possibili, se lo si vuole veramente. Qualche elemento di speranza è dato dal fatto che oramai si è instaurato un meccanismo democratico abbastanza consolidato, che ha portato nel 2019 ad una alternanza pacifica alla Presidenza della Repubblica tra Joseph Kabila e Felix Tshisekedi. In tutto il Paese in questi giorni si stanno svolgendo le elezioni regionali e questo si sta svolgendo senza particolari tensioni. Ciò detto, non migliora la situazione nelle regioni orientali, dove forti interessi economici legati al controllo delle risorse minerarie rendono pessimisti sulla possibilità di un percorso di pace”.

Anche l’Europa, qualche mese fa, aveva condannato l’incitamento all’odio ed alla xenofobia, nonché le politiche basate sull’etnia: quale ruolo può avere l’Europa nella riappacificazione?

“Se è vero, come è vero, che le cause del conflitto nell’Est del Congo sono essenzialmente economiche, l’Europa potrebbe fare molto. Un esempio ci può aiutare: negli anni ’90 del secolo scorso, in Liberia e Sierra Leone è scoppiata una guerra civile motivata soprattutto dalla volontà di controllare le miniere di diamanti, che venivano poi esportati illegalmente dai gruppi armati con la complicità di alcune società multinazionali. 

Nel 2000 a Kimberly gli Stati esportatori ed importatori si sono accordati su un processo di certificazione (il cosiddetto ‘Kimberley Process’) volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili, e questo ha portato all’estinguersi della violenza in quei paesi.  Un accordo simile dovrebbe essere esteso anche alle terre rare, all’oro, e a tutte le ricchezze esportate illegalmente dall’Est del Congo.

Purtroppo però il 19 febbraio l’Unione Europea ha firmato un accordo di cooperazione per lo sfruttamento delle materie prime con il Rwanda; ora, il Rwanda non ha praticamente nessuna risorsa mineraria, e i minerali da essa esportati provengono quasi esclusivamente dal contrabbando, che serve poi a finanziare i gruppi ribelli che spadroneggiano nell’est del Congo. Aldilà di un ruolo politico per contrastare in modo efficace le attività illegali, non va però dimenticato che l’Unione Europea è oggi il più importante finanziatore delle attività umanitarie nella Repubblica Democratica del Congo: moltissime attività in sostegno dei gruppi più vulnerabili, svolte da COOPI o da altre organizzazioni della società civile, non esisterebbero senza i fondi europei. E’ evidente che questo aiuto non può e non deve affievolirsi”.

Come aiutare in ‘casa loro’?

“Per prima cosa ascoltando, analizzando le diverse situazioni per trovare le soluzioni meglio adattate alle diverse realtà. Nel campo della cooperazione non ci sono modelli prefabbricati da applicare, ma è necessario aver sempre presente che noi siamo ospiti in casa altrui”.

Cosa fa il Coopi per le popolazioni del Congo?

“Siamo presenti nella Repubblica Democratica del Congo dal 1977; questo ci ha permesso di conoscere profondamente il Paese e di rispondere in maniera efficace ai bisogni della popolazione. Per migliaia di bambini e mamme malnutrite svolgiamo attività di prevenzione, cura e supporto nutrizionale; svolgiamo attività di formazione sulle buone pratiche igieniche e riabilitiamo pozzi e latrine; per far fronte alle crisi alimentari forniamo cibo e sementi e formiamo gli agricoltori sulle tecniche di coltivazione e vendita dei prodotti agricoli.

Riserviamo particolare attenzione alle donne e ai bambini sopravvissuti/e alle violenze attraverso un supporto psico-sociale e l’assistenza sanitaria gratuita; gestiamo progetti di prevenzione e protezione contro il reclutamento forzato dei bambini nei gruppi armati, il sostegno ai sopravvissuti alle violenze di genere e ad altri casi di violazioni dei diritti umani in contesti di conflitto integrando l’assistenza per il reinserimento scolastico e professionale.

Oggi abbiamo 19 progetti che coinvolgono circa 700.000 persone in Kasai Centrale, Kasai Orientale, Haut-Katanga, Bas-Uelé, Nord-Kivu e Ituri. I nostri principali settori d’intervento sono il contrasto alla malnutrizione infantile e la protezione di bambini e donne vittime di violenza, attraverso un’assistenza trasversale che include attività di sostegno psicosociale, reinserimento educativo e reintegrazione socio-economica”.

(Tratto da Aci Stampa)

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