Da Parigi la Comunità di Sant’Egidio invoca la pace

Ieri al Palazzo dei Congressi di Parigi si è aperto l’incontro internazionale ‘Immaginare la Pace’, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con il presidente francese Emmanuel Macron, Andrea Riccardi, la sindaco di Parigi Anne, Hidalgo, il rettore della Grande Moschea di Parigi Chems-Eddine Hafiz, il gran rabbino di Francia Haim Korsia e l’arcivescovo cattolico Laurent Ulrich, che ha ringraziato la Comunità di Sant’Egidio per aver scelto Parigi come sede di questo incontro:
“In questo 2024 la Comunità di Sant’Egidio non poteva fare regalo più bello alla Francia e alla sua capitale accogliendo il nostro invito ad organizzare qui il suo incontro per la pace. Tengo dunque ad esprimerle la nostra gioia e la nostra gratitudine… In occasione dell’apertura nella tregua olimpica per la quale, il 19 luglio, ho celebrato una Messa solenne, certo abbiamo dovuto deplorare che le nazioni continuassero i conflitti durante questo periodo che si è concluso qualche giorno fa”.
Ed ha raccontato la forza dell’utopia: “La lezione del passato ci mostra quanto le utopie abbiano saputo ribaltare le logiche più implacabili. Così ogni scuola di pensiero, ogni filosofia, ogni religione può contribuire a questo apportando il contributo della sensibilità che le è propria, nella ricerca di una verità che, lo crediamo, porta alla libertà”.
Infine ha raccontato il suo recente viaggio in Terra Santa: “E poiché non si può vincere la miseria senza iniziare dall’ascolto di quelli che si confrontano con essa, né far cessare la guerra senza farsi portavoce dei popoli schiacciati dalla violenza vorrei portarvi il ricordo della Terra Santa che ho visitato alcuni giorni fa.
Colpiti dalla guerra, uomini e donne di buona volontà, nel servizio incondizionato a favore di tutti quelli che la Provvidenza manda loro, hanno saputo mostrarmi che, malgrado la stanchezza, non rinunciano ad educare i bambini e i giovani, a curare i malati e i moribondi, ad accogliere i neonati che abbiano o no una famiglia e a mantenere i legami che, al momento opportuno, potranno ricostruire la pace”.
Aprendo l’assemblea il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, prof. Andrea Riccardi, ha affermato che parlare di pace è utopia: “Le religioni hanno alle spalle storie di coinvolgimento nella guerra, fino alla sua sacralizzazione. Talvolta si è arrivati al punto di proclamare la guerra in nome di Dio, cosa che tutti noi consideriamo una bestemmia. Se le comunità religiose sono fatte di uomini e donne che vivono le attrazioni fatali del tempo in cui vivono, tuttavia sanno che c’è qualcosa al di là di loro e che dalla profondità delle tradizioni religiose scaturisce il messaggio decisivo della pace.
Nelle grandi tradizioni religiose è scritto il fondamento della pace. Il nome stesso di Dio è la pace. Le religioni certo non hanno il monopolio della pace. La pace non può essere monopolio di nessuno, perché allora non è pace. Quando donne e uomini di religioni differenti s’incontrano, pur nella diversità, si crea un’armonia. E’ una storia che viene da lontano. Da molto lontano”.
Ed ha ricordato lo ‘spirito’ di Assisi, che ancora continua: “Nell’invocazione a Dio per la pace, si manifestò la forza debole delle religioni. Da quell’incontro di Assisi, il piccolo popolo della Comunità di Sant’Egidio maturò la convinzione che il mondo religioso racchiude le energie per un nuovo linguaggio e per gesti di pace. Anno dopo anno ci siamo incontrati tra leader religiosi e credenti. Anche se in tanti momenti siamo stati messi a dura prova, non rinunciamo a questa visione, non abbandoniamo i mondi religiosi all’isolamento, sentiamo anzi la necessità di sviluppare il dialogo.
Lo abbiamo fatto a Varsavia in tempo di guerra fredda. Lo abbiamo fatto dopo l’11 settembre 2001. Continuiamo a farlo oggi a Parigi. Penso a tanti frutti maturati nel solco dello spirito di Assisi: il Documento sulla Fratellanza umana, firmato nel 2019 ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al Azhar, al Tayyeb, amico di questi nostri incontri”.
Amin Maalouf, segretario permanente dell’Académie française, ha fornito alcune speranze: “Non ho nessuna passione per gli scenari apocalittici. Per carattere, tendo piuttosto a ricercare ragioni di speranza. Ma in un mondo in cui regna il sacro egoismo, in cui così tante nazioni e comunità fondano la propria coesione sull’odio per l’Altro, in cui le principali potenze si insultano ininterrottamente e si parlano a malapena, tutte le derive diventano plausibili”.
Soprattutto ha approfondito il ruolo delle tecnologie: “E qui non parlo più soltanto di bombe e di missili. Consideriamo le grandi tecnologie di punta che fanno da vettori della prodigiosa metamorfosi conosciuta dal mondo nei nostri giorni. Queste offrono apporti benefici di cui godiamo ogni giorno, nel campo della sanità, nella diffusione del sapere e in mille altri settori. Ma queste stesse tecnologie comportano anche, proprio a causa delle loro immense potenzialità, certi rischi cui dobbiamo fare sempre attenzione”.
E fra le tecnologie c’è l’intelligenza artificiale: “Nel campo dell’intelligenza artificiale, che ha preso il volo soprattutto negli ultimi quindici anni e le cui promesse sono inaudite, ci sono motivi di inquietudine su cui siamo stati messi in guardia da alcuni di coloro che sono direttamente impegnati in tale rivoluzione, scienziati, imprenditori e pensatori vigili. Essi ci dicono che questa tecnologia potrebbe un giorno sfuggirci di mano, che potrebbe persino trasformarsi in una minaccia esistenziale per la nostra specie, e che forse ci sarebbe bisogno di una moratoria su determinati percorsi di ricerca, in attesa di vederci più chiaro”.
Ma ad aprire la manifestazione parigina è stata la testimonianza della giovane afgana Lina Hassani: “Mi chiamo Lina Hassani e sono qui oggi davanti a voi come una ragazza afghana di 21 anni, di famiglia hazara, che ha vissuto attraverso due decenni di conflitti e profondi cambiamenti. Provengo da un paese tristemente famoso per i suoi tre decenni di guerra: sono arrivata in Belgio attraverso i ‘corridoi umanitari’ della Comunità di Sant’Egidio e vivo lì da 5 mesi; qui mi dedico all’apprendimento della lingua olandese.
La mia storia non riguarda solo la mia vita, ma anche quella di innumerevoli afghani che hanno sopportato difficoltà inimmaginabili. Sono nata a Kabul, una città che custodisce molti ricordi, sia gioiosi che dolorosi. La vita in Afghanistan non è mai stata facile. Nel 2009, mio padre ci è stato portato via, ucciso dai talebani. Ma mia madre, con una forza incredibile, è andata avanti per sostenere la nostra famiglia”.
Ed ha raccontato la vita in Afghanistan: “Nell’agosto 2021, i Talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan, imponendo severe restrizioni alle donne. Non ci era permesso uscire di casa senza un tutore maschio e l’istruzione ci è stata negata. La situazione era particolarmente disperata per coloro che avevano lavorato con entità straniere, tra cui mia madre. Le donne che protestavano contro i Talebani rischiavano la prigione o addirittura la morte. Sentendoci insicure e senza alcuna speranza di una vita migliore in Afghanistan, siamo fuggite in Pakistan.
Tuttavia, la situazione lì non era molto diversa; come rifugiati, eravamo visti come un peso, privi di diritti, senza accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, sempre di fronte alle difficoltà nel rinnovo del visto e a rischio di espulsione. Più di un milione di persone sono state rimpatriate in Afghanistan. Alcuni rifugiati afghani in Pakistan si sono uniti per vivere sotto le tende, sopportando condizioni difficili, senza riparo con un caldo che raggiungeva i 40 gradi”.
(Foto: Comunità di Sant’Egidio)