Livia Maurizi racconta la ‘rinascita’ delle donne afghane

“Lavorare come donne sotto il governo talebano è molto difficile. C’è una nuova restrizione per le donne ogni giorno e sono costantemente preoccupata di cosa accadrà dopo: cos’altro vieteranno? Il prossimo divieto potrebbe riguardare i ristoranti guidati da donne. Potrebbero proibire del tutto alle donne di svolgere attività commerciali”. Madina Hassani, fuggita dall’Afghanistan nel 2021 con il ritorno dei taleban al potere ed ora, dopo un periodo in Italia, in Germania, racconta la sua esperienza e quella dei suoi famigliari rimasti in un Paese dove ci sono divieti, per chi in generale ha lavorato con il governo precedente, di lavorare per le istituzioni, nelle organizzazioni non governative, negli ospedali e non solo, e dove vige la volontà di cancellare le donne dalla società, tanto da impedire loro di muoversi senza essere accompagnate da un uomo.
Le donne afghane però non si arrendono, sostenute anche da associazioni come ‘Nove – Caring Humans’, la stessa che ha consentito l’evacuazione di Madina Hassani (che con loro lavora) e che continua a essere presente in Afghanistan con progetti di sviluppo e umanitari.
Partiamo da questa storia per farci raccontare, nel tempo della festa della donna, da Livia Maurizi, responsabile ‘Programmi Nove – Caring Humans’, la situazione della donna in Afghanistan: “Oggi le donne in Afghanistan vivono una delle più gravi oppressioni al mondo. Private del diritto all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, sono cancellate dalla vita pubblica. La crisi economica ha colpito più duramente le famiglie guidate da donne: l’84% non riesce a garantire un’alimentazione sufficiente ai propri figli.
La sanità è al collasso e l’accesso alle cure è sempre più ridotto. Le restrizioni imposte dai Talebani hanno eliminato ogni possibilità di denuncia delle violenze, aumentando i casi di abusi e matrimoni forzati. L’impatto di questa esclusione sarà devastante anche nel lungo termine, con una generazione di donne prive di istruzione e senza prospettive di autonomia economica”.
Per quale motivo la situazione dell’Afghanistan è invisibile in Occidente?
“Nonostante il grande potenziale in termini di risorse primarie e di patrimonio culturale, la distanza e l’assenza di rapporti commerciali diretti con l’Occidente hanno marginalizzato fortemente l’interesse nei confronti del paese. Questa invisibilità si associa ad una sorta di stigma di ‘Paese senza qualità’, arretrato e tribale senza possibilità di cambiamento”.
Cosa significa per la donna ‘sopravvivere’ in Afghanistan?
“Resistere nonostante tutto. Continuare a vivere è la più grande forma di resistenza. Le donne cercano quotidianamente spiragli all’interno delle costrizioni fondamentaliste per continuare a lottare, a studiare a lavorare. Anche se vittime di ogni forma di abuso non sono vittimiste, resistono con determinazione e forza, studiano e continuano a formarsi, in silenzio e in segreto, comunicano attraverso i social per combattere l’invisibilità”.
Sono possibili ‘semi di rinascita’?
“Sì. Nonostante le restrizioni, le donne continuano a giocare un ruolo attivo nei settori consentiti, soprattutto in agricoltura, artigianato e nel tessile. Tuttavia, le difficoltà di accesso ai mercati, al credito e alle materie prime limitano il loro sviluppo. L’ong ‘NOVE’ ha attualmente 14 progetti attivi in diverse province, anche nelle aree più remote. Ogni progetto è pensato per favorire non solo la sopravvivenza, ma lo sviluppo a lungo termine.
Un esempio è il progetto ‘Semi della Rinascita’, che non si limita a fornire animali da latte, ma forma intere comunità in allevamento, agricoltura e trasformazione alimentare per il commercio. La formazione è centrale: fornire competenze alle donne significa dare loro strumenti indispensabili per costruire un futuro. Abbiamo ottenuto il permesso del governo de facto di continuare le attività di imprenditoria femminile, sviluppando anche progetti innovativi come quelli legati al riciclo della plastica.
L’Afghanistan produce milioni di tonnellate di rifiuti plastici all’anno: trasformare questo problema in un’opportunità significa creare lavoro per le donne e promuovere un modello di economia circolare. Tuttavia, il drastico taglio ai fondi umanitari imposto dall’amministrazione Trump sta rendendo sempre più difficile finanziare le attività. Per questo è urgente trovare nuovi sostegni economici per garantire continuità ai progetti”.
In quale modo si può dare voce alle donne?
“E’ fondamentale l’azione dei media per mantenere continuativa l’attenzione sul paese, informare l’opinione pubblica e fare pressione sui governi. Con il CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) abbiamo appena lanciato ‘NEDA’ (che in dari significa ‘Voce’), un’iniziativa che vede un gruppo di attiviste rifugiate in Italia impegnate in attività di sensibilizzazione sulla condizione femminile in Afghanistan e sulle sfide legate all’integrazione in Italia, valorizzando l’esperienza della diaspora afghana”.
Perché ‘Nove’?
“Nove rappresenta un valore generativo, ‘Caring Humans’, perché ogni nostro progetto è una storia di inclusione che comprende tutti. Alla fine di ogni progetto c’è una virgola, non un punto”.
(Tratto da Aci Stampa)