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Papa Francesco ai seminaristi: al centro dell’azione Gesù

‘… se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo; non di spavento, ma di amore’: con questa frase di san Giovanni Vianney papa Francesco ha ricevuto i seminaristi del Seminario Maggiore di Getafe, in Spagna, in pellegrinaggio sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, in occasione delle celebrazioni del 30° anniversario della fondazione del seminario.
Papa Francesco si è ispirato al pensiero del sacerdote santo per sottolineare che anche loro hanno ricevuto tale chiamata: “Ispirandomi a questo pensiero del santo Curato d’Ars, nel quale troviamo riassunta la sua vita di totale consacrazione a Dio e ai suoi parrocchiani, vorrei ricordarvi, cari seminaristi, che anche voi avete ricevuto questa chiamata di amore del Signore, e con l’aiuto dei vostri formatori e di molte altre persone vi state preparando a ricevere un giorno il dono del sacerdozio”.
Però il cammino sacerdotale presenta alcune difficoltà, che possono essere superate attraverso alcune azioni: “Questo cammino di configurazione a Gesù, buon pastore, non è privo di difficoltà; perciò, ogni volta che incontro voi seminaristi, vi ricordo che dovete percorrerlo curando quattro aspetti fondamentali, che sono la vita spirituale, lo studio, la vita comunitaria e l’attività apostolica.
E’ indispensabile che non perdiate di vista l’armonizzazione che dovete compiere di questa quadrupla realtà, perché il Signore, e la Chiesa, si aspettano che voi seminaristi siate, prima di tutto, uomini integri e generosi nella risposta alla vocazione ricevuta, sempre disponibili all’ascolto e al perdono, decisi a vivere fino in fondo la vostra totale dedizione a Dio e ai fratelli, con una particolare predilezione per coloro che più soffrono, per i poveri e gli esclusi”.
Infine, attraverso un riferimento geografico, ha chiesto di avere sempre al centro della loro vita Gesù: “Cari seminaristi, non è un caso che il seminario maggiore si trovi sul Cerro de los Ángeles, tradizionalmente considerato il centro geografico della penisola iberica. Lì si trovano anche il Monumento al Sacro Cuore e l’eremo di Nostra Signora degli Angeli, patrona di Getafe.
Chiedo al Signore Gesù di essere per ognuno di voi il centro della vostra vita, di modellare il vostro cuore secondo il suo, di tenervi sempre molto vicini al suo cuore. Ed a Nostra Signora degli Angeli di vegliare su di voi e di accompagnarvi nel vostro cammino”.
(Foto: Santa Sede)
XVI Domenica Tempo Ordinario: una pastorale che è servizio all’amore

La liturgia oggi evidenzia due temi: una invettiva contro i pastori infedeli e una relazione nuova, stabile e sistematica tra il pastore e il suo gregge. Il primo tema evidenzia la presenza nel gregge di pastori infedeli che disperdono il gregge: pastore infedele è chi dimentica che comandare, guidare significa “servire”, vivere ed adoperarsi per gli altri. Il Profeta si riferisce oggi a chiunque si presenta come pastore (religioso, politico etc. ) e invece di servire il gregge del Signore pensa solo a sé. Gesù è il primo che si autodefinisce ‘buon pastore’ con i relativi attributi di guida ricolma solo di amore e compassione per il gregge. Egli conosce le sue pecore, le chiama per nome e queste ascoltano la sua voce.
Oggi nella Chiesa: vescovi, presbiteri, autorità religiose o politiche sono veri collaboratori se attuano i comandi del Signore dove guidare è ‘servire’: ognuno, conforme ai talenti e ai carismi ricevuti dallo Spirito Santo, è chiamato ad attuare la propria missione di guida credibile in nome di Cristo e non per tornaconto personale. Nel brano del Vangelo i discepoli di Gesù erano ritornati felici per avere incontrato tanta gente; ora Gesù li invita all’incontro con se stessi: ‘Venite in disparte e riposatevi’.
Gesù li invita in disparte, in un luogo solitario per riposarsi; Egli infatti si preoccupa della loro stanchezza fisica ed interiore; non è solo riposo fisico ma anche del cuore. Riposarsi per l’apostolo significa ritemprare lo spirito attingendo alla fonte dell’acqua viva: Cristo, che è Via, Verità e Vita. Come nel Vangelo tante volte Gesù si ritirava in preghiera per ritrovare il Padre e rinnovare le forze fisiche, così l’uomo, l’apostolo solo in Gesù ogni giorno deve trovare la forza che lo rinnova.
Gli Apostoli infatti non sono collaboratori esterni ma veri amici di Gesù; non sono impiegati o mercenari ma chiamati a dare la vita, se è necessario, per le pecore e per il Regno di Dio. Vi ho dato l’esempio, dice Gesù, e come ho fatto io , fate voi. Gesù crea nei suoi discepoli l’anima del buon pastore. Gli Apostoli si dirigono con la barca in un luogo deserto, la folla se ne accorge: li videro, li capirono e li precedettero.
L’amore è servizio ma è anche compassione: Gesù vide ed ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore e si mise ad insegnare loro molte cose. Da buon pastore Gesù riserva alla folla il dono migliore: la sua parola che illumina e dà gioia al cuore. La folla infatti non era venuta perché Gesù l’aveva saziata con la moltiplicazione dei pani, ma perché si sentiva amata e non disprezzata o messa da parte.
Gesù non fa discorsi politici o di alta economia; il Regno di cui parla è solo il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. La folla cerca Gesù perché ha fame e sete di giustizia e Gesù appresta l’opportuno rimedio: ‘convertitevi’, collaborate per restaurare il regno dell’amore e si avrà la pace vera. La pace si costruisce solo cercando con coraggio di eliminare le disuguaglianze generate da sistemi ingiusti ed attuando quanto necessita per realizzare una esistenza degna dell’uomo e prospera.
Giustizia e pace non sono possibili senza la purificazione del cuore, senza un rinnovamento di pensiero, senza una reale conversione all’amore verso Dio, verso la famiglia, verso tutti. Tale novità deve coinvolgere anche la dimensione politica. ‘Se il Signore è il mio pastore non manco di nulla’. La pace è il frutto della solidarietà globale finalizzata al bene della grande famiglia umana. La Madonna, la madre di Gesù e nostra, ci aiuti a vivere il grande e nobile mistero dell’amore.
Papa Francesco invita i palermitani ad affidarsi a santa Rosalia

“La felice ricorrenza del IV Centenario del ritrovamento del corpo di Santa Rosalia è una speciale occasione per unirmi spiritualmente a Voi cari figli e figlie della Chiesa palermitana, che desidera elevare al Padre celeste, fonte di ogni grazia, la lode per il dono di così sublime figura di donna e di ‘apostola’, che non ha esitato ad accogliere le prove della solitudine per amore del suo Signore. Il mio deferente pensiero va a Te caro fratello Corrado, alle Autorità civili e militari, come pure saluto con affetto i sacerdoti, le religiose ed i religiosi, gli appartenenti alle tante Confraternite, ai movimenti laicali, e quanti nel corso di questo Anno giubilare hanno aderito nella preghiera apprendendo da Santa Rosalia la passione per i poveri e la fedeltà alla Buona Notizia”.
Così inizia il messaggio inviato da papa Francesco a mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, in occasione del IV centenario del ritrovamento delle spoglie della loro patrona, santa Rosalia, in programma fino al 15 luglio, in occasione dell’imminente conclusione dell’Anno Giubilare Rosaliano.
Nel messaggio papa Francesco ha ripreso il motivo della santa palermitana, ‘Per amore Domini mei’, come scelta controcorrente: “La vita del cristiano, sia ai tempi in cui visse la nostra Vergine eremita sia ai giorni nostri, è costantemente segnata dalla croce; i cristiani sono coloro che amano sempre, ma spesso in circostanze in cui l’amore non è compreso o è addirittura rifiutato.
Ancora oggi si tratta di una scelta controcorrente, poiché chi segue Cristo è chiamato a far sua la logica del Vangelo che è speranza, che decide nel suo cuore di fare spazio all’amore per donarlo agli altri, per sacrificarlo a favore del fratello, per condividerlo con quanti non lo hanno sperimentato a causa delle ‘pesti’ che affliggono l’umanità”.
Ed i palermitani sono gli ‘eredi’ spirituali della santa palermitana: “Come Lei date un volto bello al vostro territorio, ricco di cultura, storia e fede profonda, dove grandi donne e uomini hanno trovato la forza per spendersi a motivo del Vangelo e della giustizia sociale. Alla scuola di Santa Rosalia, rinunciando a ciò che è superfluo, non esitate ad offrirVi con generosità agli altri”.
Quindi è un invito ad affrontare le sfide per consentire la rinascita di Palermo: “Abbiate fortezza di spirito nell’affrontare le sfide che tuttora ostacolano la rinascita di codesta Città, il cui cammino è affaticato da tante problematiche e, di queste, alcune molto dolorose. Con coraggio guardate a Colui che è Misericordia, ai cui occhi non sono invisibili le sofferenze del Suo popolo poiché ‘perfino i capelli del vostro capo sono contati’; Egli conosce le nostre pene ed è pronto a versare il balsamo della consolazione che risana e dona rinnovato slancio”.
E’ un invito a rivolgersi a santa Rosalia per trovare il coraggio della testimonianza: “Con Rosalia, donna di speranza, Vi esorto dunque: Chiesa di Palermo alzati! Sii faro di nuova speranza, sii Comunità viva che rigenerata dal sangue dei Martiri dia testimonianza vera e luminosa di Cristo nostro Salvatore. Popolo di Dio in questo lembo di terra benedetto, non perdere la speranza e non cedere allo sconforto. Riscopri la gioia dello stupore di fronte alla carezza di un Padre che ti chiama a sé e ti conduce sulle strade della vita per assaporare i frutti della concordia e della pace”.
Infine ha auspicato che tale anno giubilare sia stato occasione di una rinascita spirituale: “Auspico che questo Anno Giubilare Rosaliano, che volge a conclusione, abbia favorito soprattutto una rifioritura spirituale inserita nel percorso avviato dalla vostra Comunità ecclesiale; pertanto, invito a porVi con docilità all’ascolto dello Spirito Santo affinché possiate realizzare una copiosa stagione pastorale, pronti a spandere il profumo dell’accoglienza e della misericordia.
Consegnate alla vostra Santa Patrona desideri e aspirazioni che portate nel cuore; chiedete a Lei, donna del silenzio orante, di dissipare le paure e di vincere le rassegnazioni che soffocano le radici del bene, per essere audaci discepoli del Maestro e costruttori di speranza”.
In mattinata mons. Corrado Lorefice, presentando il ‘Quattrocentesimo Festino di Santa Rosalia’ dal titolo ‘Rosalia pellegrina di speranza, Palermo rifiorisce con te’, ha sottolineato che ella liberò la città dalla peste: “Questo 400° Festino in onore di Santa Rosalia segnerà la storia di questa città. Rosalia passò per le vie di Palermo facendo del bene e guarendo. La Patrona contribuì a sconfiggere la peste. A noi viene oggi fatta una sfida: mettere insieme diritti e responsabilità perché non si può vivere in una Babele dove non ci si capisce. Rosalia è la speranza di una città ferita dalla violenza, dalla diffusione della droga, dalla disoccupazione, dalle degradate periferie urbane e spirituali, da un centro storico che rischia di essere un grande pub. Ma non basta la convivialità gastronomica, si deve offrire anche la convivialità spirituale”.
Con un richiamo alla lettera del papa l’arcivescovo di Palermo ha invitato i cittadini ad assumersi la responsabilità della partecipazione: “E’ una festa, che non ci aliena ma ci fa camminare su queste strade, come Rosalia, eremita, donna, che guarda alla città da Monte Pellegrino con lo sguardo di Dio, pieno di compassione, che fa proprie le sofferenze e i destini degli uomini. Non è commiserazione, ma una sfida: partecipare dei pesi e delle attese degli altri. Da lei viene la speranza che viene a noi quando siamo capaci di assunzione di responsabilità per dare un volto bello alla città come suoi concittadini ed eredi spirituali”.
(Foto: Arcidiocesi di Palermo)
XIV Domenica Tempo Ordinario: Gesù, rifiutato dai suoi, continua ad amare l’uomo

Il brano del Vangelo ci inserisce oggi sul tema della ‘Fede’. Si può rimanere stupiti, affascinati dalla parole e dai miracoli di Gesù, mai restare increduli; la Fede è sempre un dono di Dio e va chiesta con umiltà e in modo incessante. E’ Dio infatti con la sua grazia che ‘si rivela’ (toglie il velo) e ci fa apparire la verità di Dio, che è verità assoluta ed infallibile; superiore alle nostre capacità intellettive ma non contraria. Lo stesso uomo conosce bene se stesso solo alla luce di Dio; egli infatti è ‘imago Dei’ (creato a sua immagine e somiglianza).
Tutti siamo cristiani; tutti conosciamo Gesù Cristo, figlio di Maria, che è morto in croce per salvare tutti gli uomini. Ma una cosa è conoscere, un’altra cosa è riconoscere: Si conosce tutto ciò che si vede e poi si rivede; il conoscere è quasi sempre qualcosa di superficiale, di esteriore. Riconoscere è il conoscere intimamente una realtà. Vado in campagna, vedo alberi e li conosco per averli sempre veduti; ma si riconosce veramente un albero solo dai frutti che produce e se ne evidenzia subito la differenza di uno dall’altro.
Nel brano del Vangelo ascoltato gli abitanti di Nazareth conoscevano Gesù come il figlio di Maria; figlio anche di Giuseppe, il fabbro ed anch’Egli fabbro: una conoscenza superficiale che si ferma a ciò che si vede e si percepisce con i sensi. Dai frutti si riconosce profondamente un albero nella sua vera essenza; Anche lo stesso Gesù pose questa domanda un giorno ai suoi discepoli: cosa dice la gente di me?… poi dirà: cosa dite voi di me? Pietro dà la sua risposta: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio benedetto’. Gesù risponderà a Pietro: beato, sei tu; perché è il Padre che te lo ha rivelato! Ciò che hai detto non è frutto della tua intelligenza ma dello Spirito Santo che te lo ha rivelato.
L’esperienza di Nazareth fu per Gesù assai dolorosa, come d’altronde dolorosa era stata l‘esperienza di tutti i profeti che avevano parlato ed operato tra la propria gente, per cui Gesù ebbe a dire. “nessuno è profeta accetto nella propria patria”. La fede in Cristo Gesù, vero uomo e vero Dio, è solo opera divina. Come uomo è il figlio di Maria e di Giuseppe, ritenuto suo padre, il fabbro del paese: come figlio di Dio possedeva una potenza divina, che non annullava la sua vera umanità.
Gesù, vero uomo e vero Dio, ha amato ed ama l’uomo creato ad immagine di Dio. La Chiesa, costituita da Cristo, è chiamata ad essere una mirabile realtà e le porte degli inferi non prevarranno mai. La Chiesa, il regno di Dio è una barca in mezzo ad un mare tempestoso ma al timone sta sempre lo Spirito Santo. Nel brano del vangelo gli abitanti di Nazareth si pongono due domande: da dove viene a Gesù tanta sapienza?; da dove gli viene a potenza di operare prodigi? Rifiutano dunque questo Gesù che invita l’uomo a cambiare rotta: ‘convertitevi!’, cioè cambiate rotta, stile, mentalità.
Così l’iniziale stupore si trasforma in scandalo, ma Gesù dice loro: ‘Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra suoi parenti e in casa sua’. Gesù invita a scoprire l’uomo creato ad immagine di Dio, con un’anima spirituale ed immorale, creato non per la terra ma per il cielo; homo viator, sempre impegnato a costruire la nuova civiltà dell’amore dove tutti sono chiamati ad essere fratelli e figli di Dio. Una civiltà dove alla base c’è rispetto, comprensione, condivisione; consapevoli sempre che la vita terrena è un cammino verso la vita eterna.
Per conoscere ed accogliere Gesù è sempre necessaria la fede: quella fede che ci porta a vincere la nostra pigrizia, l’attaccamento testardo alle nostre abitudini, alle sicurezze materiali, fondate sul passato, che impediscono a guardare l’azione dello Spirito santo che guida la sua Chiesa. Abramo, uomo di fede, lasciò tutto e partì; noi cristiani, nati a vita nuova con il Battesimo, siamo chiamati perciò a ‘convertirci’, ad essere uomini nuovi, ad instaurare il Regno dell’amore.
Chiesa di Cristo siamo tutti: Clero e Laicato, sacerdoti e popolo di Dio con eguale dignità, come le due mani dell’uomo: l’una lava l’altra, insieme realizzano la perfetta unità voluta da Cristo Gesù. La Madonna, la Vergine santa ci aiuti a realizzare la vera unità della Chiesa santa di Dio.
Un elefante dal cuore puro: riflessioni sul film ‘The Elephant Man’ di David Lynch

C’era una volta, in una Londra in piena epoca vittoriana, un giovanissimo ragazzo di nome Joseph Merrick, che fin dall’età di tre anni fu colpito da una rarissima malattia che rese parte del suo corpo totalmente deforme. La sua infanzia trascorse in condizioni di povertà tra numerose difficoltà: i suoi fratelli morirono giovani e la madre, affetta anch’essa da una grave disabilità, morì molto presto, lasciandolo alle cure del padre e della sua matrigna. La nuova compagna rimase però inorridita dal suo mostruoso aspetto e convinse il marito a cacciarlo fuori di casa.
Da allora per il giovane Merrick iniziò una vita fatta di stenti e vessazioni: deriso da chiunque, finì per lavorare come ‘fenomeno da baraccone’ in spettacoli noti all’epoca come ‘freaks show’. Questi non erano altro che circhi dove i cosiddetti ‘freak’ venivano derisi e umiliati per via delle loro caratteristiche fisiche considerate anormali. Furono anni durissimi per Joseph, fino a quando nel Regno Unito fu istituita una legge che impose la chiusura di questi disumani spettacoli di intrattenimento. Il ragazzo si ritrovò cosi disoccupato e a vivere per strada nelle peggiori condizioni di salute.
Si ammalò presto ma l’incontro fortuito con Frederick Treves, un giovane medico del più prestigioso ospedale di Londra, cambiò le carte in tavola per lo sfortunato giovane. Frederick fu la prima persona a guardare Merrick non come un mostro da schernire in pubblica piazza, ma come un essere umano. Si prese personalmente cura di lui, tanto da procurargli un alloggio permanente in ospedale e tra i due nacque così una sincera e potente amicizia.
Lo stesso Treves raccontò in seguito di non aver conosciuto mai prima di allora una persona dalla così grande sensibilità e intelligenza emotiva: il suo talento per la scrittura e la sua passione per la prosa e la poesia fecero di Joseph Merrick non più un ‘animale da palcoscenico’ ma un ‘esponente dell’alta società’. Tutti vollero conoscerlo e incontrarlo, il terrore negli occhi delle persone fece così posto all’ammirazione. La gente intrattenendosi e disquisendo in sua compagnia rimase colpita per la sua raffinatezza e i suoi modi eleganti e gentili, per il suo linguaggio forbito e per la sua incredibile cultura. Merrick per la prima volta nella sua vita si sentiva amato e benvoluto.
Quella che potrebbe sembrare una bellissima e originale sceneggiatura, è in realtà frutto di accadimenti realmente avvenuti. Quando a fine anni settanta il produttore Mel Brooks, il Re delle commedie parodistiche americane, lesse di questa storia, ne rimase talmente folgorato da convincersi fin da subito a realizzarne una trasposizione cinematografica. Nel frattempo un giovane David Lynch stava muovendo i primi passi nell’industria cinematografica americana: aveva già al suo attivo diversi cortometraggi, culminati nello sperimentale e avanguardistico ‘Eraserhead – La mente che cancella’ (1977), suo primo lungometraggio.
E proprio per uno strano disegno del destino lo stesso Lynch si ritrovò casualmente per le mani i libri sulla vita dell’ ‘uomo elefante’. Decise cosi di stendere una sceneggiatura adottandola al suo stile registico. Destino volle che finì sotto l’occhio della moglie di Brooks, una certa Anne Bancroft, che la girò subito al marito. Mel rimase soddisfatto del lavoro ma mostrò delle perplessità su Lynch stesso. Si convinse perciò a vedere ‘Eraserhead’ e ne rimase talmente estasiato dalla visione, che accantonò subito ogni dubbio.
Le riprese, sebbene con diverse difficoltà, partirono e il film uscì nei cinema nel 1980: fu un totale trionfo al botteghino, tanto da piazzarsi tra i migliori incassi della stagione cinematografica, sopratutto in Europa e in Giappone. Alla cerimonia di premiazione degli Oscar ottenne ben otto candidature.
Perchè consiglio questo film? E perchè i giovani dovrebbero vederlo? Perché ciò che vuole raccontare è un grosso limite che ancora oggi la nostra società si porta dietro: il pregiudizio verso ciò che non risulta conforme ai canoni estetici che la società stessa impone. Joseph Merrick è stato allontanato inizialmente perché nessuno ha guardato il suo cuore e il suo intelletto; lo hanno giudicato ancora prima di conoscerlo semplicemente perché ai loro occhi appariva come un mostro e tale doveva essere.
La grande umanità dell’uomo sta però nel non chiudersi in sé stesso e nel suo egoismo, ma al contrario, avere fiducia e speranza verso il prossimo. Non deve compiere un percorso di maturazione, non ne ha bisogno in quanto capace di amare fin dall’inizio e nonostante le derisioni e l’umiliazione, riconosce subito la lealtà del dottore e da questo si fa aiutare, dimostrandosi fin da subito riconoscente.
Ma se guardiamo alla letteratura classica, vengono in mente altre analogie. Pensiamo per esempio a Quasimodo, il gobbo campanaro protagonista del celebre ‘Notre Dame de Paris’, opera trasposta sempre da casa Topolino in un film d’animazione che si rivolge apparentemente ad un pubblico per bambini, ma che in realtà parla proprio a noi, adulti e ragazzi. Anche Quasimodo come lo stesso uomo elefante è emarginato dagli altri per la sua bruttezza esteriore ma si distingue per la purezza del suo cuore e la sua nobiltà d’animo.
Il gobbo sogna una vita di integrazione tra la gente, ma viene segregato all’interno del campanile da un giudice spietato e manipolatore, convinto di agire in nome del bene e di Dio, per ‘proteggere il mondo dalla sua mostruosità’. E’ lo stesso che capita a Merrick che passa la vita confinato in una gabbia per elefanti, sognando una vita diversa, una vita accettato veramente per quello che è realmente. Ma come dice il menestrello Clopin nel capolavoro disneyano del 1996, rompendo di fatto la famosa ‘quarta parete’ e chiamandoci in causa direttamente: “perché un uomo odia? perché un mostro ama? / chi è brutto dentro o chi è brutto a vedere?”
Merrick risponde direttamente a questi quesiti già anni prima della Disney, in una delle scene più potenti di tutto il film, ribellandosi alla cattiveria e al razzismo in un urlo liberatorio passato ormai alla storia: “Io non sono un elefante! Non chiamatemi animale, io sono un uomo!”. Una lezione di umanità per tutti, ancora oggi.
Mons. Gambelli: Gesù grazia di vita

Nella festa patronale di san Giovanni Battista a Firenze è stato ordinato il nuovo arcivescovo mons. Gherardo Gambelli dal suo predecessore, card. Giuseppe Betori, insieme ai co-consacranti card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo emerito di Perugia – Città della Pieve, mons. Giovanni Roncari, vescovo di Grosseto, e mons. Dominique Tinoudji, vescovo di Pala, in Ciad dove mons. Gambelli è stato in missione per 11 anni. Al termine dell’ordinazione mons. Gambelli ha ricordato tale coincidenza:
“La Provvidenza del Signore ha voluto che la data della mia ordinazione episcopale e del mio ingresso in diocesi coincidessero con la festa di San Giovanni Battista. Il Vangelo ci ricorda che Giovanni è più che un profeta, non solo perché vede con i suoi occhi il Messia e lo indica presente nel mondo, ma anche perché si fa precursore di tutti coloro che si lasciano interrogare da Gesù sul senso della vita, lasciando che la risposta a questa domanda, plasmi la loro identità più profonda”.
Per questo ha sottolineato il significato del nome: “Giovanni, il cui nome significa “il Signore fa grazia” continua ad aiutarci a preparare la via del Signore Gesù, accogliendo la logica nuova del Vangelo ben riassunta nelle parole del canto di offertorio della Messa di oggi: ‘Fa che impariamo Signore da te, che più grande è chi più sa servire, chi s’abbassa e si sa piegare, perché grande è soltanto l’amore’. Un proverbio africano dice che ‘il vento spezza ciò che non sa piegarsi’. La fede nel Signore morto e risorto per la nostra salvezza nutre la nostra speranza nel suo ritorno glorioso e questo ci rende attenti ai segni dei tempi, per collaborare sempre più docilmente con l’azione dello Spirito Santo”.
Ed ha raccontato una storia africana chiedendo di proseguire nel cammino intrapreso: “Proseguiamo il nostro cammino mettendo sempre più Gesù al centro della nostra vita, così sapremo riconoscerci come fratelli e sorelle e saremo testimoni credibili nel mondo della gioia del suo amore.
L’evangelista Luca ci dice che Elisabetta e Zaccaria, negli ultimi tre mesi precedenti alla nascita di Giovanni, hanno avuto la grazia della visita di Maria. Nel Nuovo Testamento la figura di Maria è spesso presentata come un’immagine della Chiesa. Posso dire con tutta sincerità che questi due mesi di preparazione all’ordinazione episcopale sono stati per me un tempo di grazia in cui ho fatto esperienza della vicinanza di Maria nella mia vita, attraverso la preghiera di tanti fratelli e sorelle che mi hanno sostenuto”.
Infine ha rivolto un ringraziamento a tutti, specialmente agli ‘amici’ venuti dal Ciad: “Un grazie speciale ai Vescovi che vengono da altre regioni, da altre nazioni e soprattutto da altri continenti, in particolare quelli provenienti dall’Asia e dall’Africa. La presenza di quattro Vescovi ciadiani, insieme a mons. Henri Coudray, vicario apostolico emerito di Mongo, di numerosi preti e di alcuni laici di queste giovani Chiese, mi riempie di gioia e di commozione. Il Cardinal Piovanelli amava dire di aver fatto l’Università come parroco a Castelfiorentino. La mia Università è stata il Ciad; vorrei rivolgere attraverso di voi i mei più vivi ringraziamenti a tante persone della vostra nazione che, forse senza nemmeno saperlo, mi hanno formato, aiutandomi a capire la bellezza e la forza del Vangelo”.
Nell’omelia l’arcivescovo emerito, card. Giuseppe Betori, ha ribadito che l’obiettivo del vescovo è quello di “annunciare Cristo e condurre a Lui quanti ti sono affidati come suo gregge. La voce della Chiesa resterà sempre una voce scomoda per le logiche del mondo: resta anche per noi il compito di non lasciarci irretire dalla seduzione del consenso o dall’illusione di un ascolto che non produce conversione o di un plauso interessato fino a quando non entra in gioco la propria posizione nel mondo”.
(Foto: Arcidiocesi di Firenze)
San Massimiliano Kolbe: martire del nazismo

San Massimiliano Maria (Rajmund) Kolbe è un sacerdote francescano, martire, il cui emblema è la palma; nasce l’8 gennaio1894 a Zduńska Wola, nella Polonia centrale. Lo stesso giorno viene battezzato nella chiesa parrocchiale dell’Assunta. La sua famiglia è povera ma, se il primogenito riesce ad andare a scuola, lui studia con un prete e il farmacista del paese. Quando inizia a sentire la vocazione, prega nella chiesa di San Matteo a Pabianice. Qui gli appare la vergine Maria.
Libertà di credere o di non credere

Credere in Dio significa fidarsi completamente di Lui, riconoscere la Sua esistenza e vivere e agire secondo i Suoi insegnamenti e comandamenti. La fede che non si trasforma in vita vissuta è una fede morta (Giacomo 1, 26). “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo” (1Gv 4,19 – 5,4)
La fede, secondo il credo cristiano, è una chiamata alla libertà responsabile, poiché Dio può ritenerci responsabili solo in base alle nostre libere scelte. Chi è costretto a fare qualcosa non può essere punito per ciò che ha fatto inconsciamente o senza libertà. San Paolo afferma: “Fratelli, voi siete stati chiamati alla libertà” (Galati 5:13), e anche “Cristo ci ha liberati affinché godiamo di questa libertà e permaniamo in essa e non siamo più legati dal giogo della schiavitù” (Galati 5:1).
La fede di solito attraversa le tre fasi della crescita umana. La fase dell’infanzia spirituale, in cui si crede ciecamente a tutto senza discussioni, domande o dubbi. La fase dell’adolescenza spirituale, dove si rifiuta e ci si lamenta di tutto, facendo il contrario di tutto ciò che viene chiesto e si rifiuta ogni autorità superiore. La terza fase della maturità spirituale, quando si ama Dio, non per paura dell’inferno o per volere il paradiso, ma per un amare gratuito, per la convinzione che Dio è ciò che dà senso alla vita e che la luce della fede è l’unica in grado di illuminare le tenebre della vita, dare senso alle assurdità della malattia, della vita, della morte, del male e dell’esistenza.
La vera fede si traduce in una vita vissuta e in un modo di rapportarsi con sé stessi, con Dio, con gli altri, con la natura e con le altre creature. La fede non nega le difficoltà e non risolve i problemi della vita, ma ce li fa vedere e vivere in modo diverso e con la certezza che non siamo soli e che siamo frutto dell’amore di Dio. Siamo usciti dal Suo cuore e siamo immersi e viviamo e ci muoviamo nel Suo amore.
Una delle condizioni necessarie per un autentico atto di fede è che sia libero, volontario e incondizionato. Qualsiasi tipo di costrizione, coercizione o imposizione è incompatibile con la natura della fede. Cito qui un’espressione di sant’Agostino che dice: “Dio che ci ha creato senza di noi non vuole salvarci senza di noi”. E prosegue: “Questo suo modo di venire a salvarci è la via sulla quale pure invita noi a seguirlo, per continuare insieme a Lui a tessere l’umanità nuova, libera, riconciliata”.
Dio, che ci ha creato perché ci ama, non può costringerci a contraccambiare il Suo amore o a obbedirgli o a sottometterci alla Sua santa volontà. L’amante non può costringere la persona che ama ad amarlo, altrimenti dichiarerebbe, con lo stesso atto, la falsità del suo amore.
Ciò ovviamente significa anche la libertà di rifiutare la fede e persino di negare l’esistenza di Dio. La fede si basa sul riconoscimento dell’esistenza di Dio, la cui esistenza non può essere né dimostrata né negata con prove materiali, e quindi l’uomo è libero di accettare liberamente l’esistenza di Dio o di rifiutarla, dubitare, obiettare o rimanere nella ricerca.
La vita ci insegna che i genitori possono avere diversi figli e dare a tutti le cure, le attenzioni, le possibilità e l’amore necessario. Tuttavia, uno di loro può diventare uno scienziato, l’altro un criminale, un terzo vivere una vita normale e questo nonostante il fatto che tutti i tre provengono dallo stesso padre e dalla stessa madre, hanno vissuto nelle stesse circostanze e nello stesso ambiente. La stessa cosa possiamo applicarla, nonostante i limiti dell’esempio, agli esseri umani che non possono essere tutti d’accordo su tutte le cose tangibili e, quindi come possono essere d’accordo su questioni immateriali e invisibili?
I non credenti, infatti, rendono alla fede e ai credenti un servizio meraviglioso perché li spingono a pensare, a contemplare, ad approfondire, a discutere e a studiare, raggiungendo così una fede matura, convinta, fiduciosa e ferma. Se non fosse stato per i terremoti, gli esseri umani non avrebbero imparato a costruire edifici antisismici e, se non vi fossero le domande e i dubbi, il credente non raggiungerebbe mai la vera fede. Dio ci ha creato come creature pensanti e autocoscienti che crescono e imparano attraverso l’esperienza, il fallimento, il successo, il dubbio e le domande.
Attaccare chi non crede con il pretesto di preservare la fede è in realtà una prova di debolezza e un atto che contraddice la stessa fede in Dio, che ci ha creato diversi e ci ha dato la ragione e la comprensione affinché possiamo raggiungerLo, amarLo e adorarLo con convinzione e fiducia.
Di fronte alle obiezioni dei non credenti occorre dare risposte, dialogare e ricercare con la convinzione che onestamente nessuno può provare o negare l’esistenza di Dio con prove materiali, così come non possiamo provare o negare l’esistenza dell’amore, dell’amicizia, della gratitudine, dell’odio o della gelosia come concetti astratti. Crediamo tutti nella loro esistenza perché ne vediamo l’eco e l’influenza nelle nostre vite e li abbiamo sperimentati nonostante la nostra incapacità di toccarli o dimostrarli fisicamente.
La fede in un Dio Creatore amorevole è un atto di libertà che include la possibilità di negare la Sua esistenza. Un vero credente è come un vero amico o un vero innamorato che deve dimostrare il suo amore e la sua amicizia attraverso atti e azioni concreti che facciano dubitare della loro posizione chiunque dubiti dell’esistenza dell’amore e dell’amicizia. Il vero acredente è colui che cerca la verità, non colui che la nega o si burla di chi ci crede o la difende.
La linea di demarcazione è la sincerità nella ricerca e il non insultare gli altri o cadere nell’abisso degli insulti, della violenza, della diffamazione, del disprezzo o dello sminuimento. La violenza verbale e fisica è una prova di debolezza dell’argomentazione, perché quanto più alta è la voce di chi ha un’idea, tanto più ciò indica la debolezza della sua idea o della sua incapacità di spiegarla.
Un non credente che alla ricerca della verità è migliore agli occhi di Dio di un credente ipocrita, violento o incoerente.
Il credente è un testimone che attraverso la sua vita e le sue azioni divulga la sua fede ed è migliore agli occhi di Dio un non credente sincero che un credente falso: “Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3, 14-20).
La cosa più inquietante è vedere credenti e chierici che cercano di difendere Dio con una violenza che riflette la loro ignoranza e sfregia il volto di Dio. Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno, ma è Lui che ci difende. Egli non ha bisogno che qualcuno uccida nel Suo nome perché Egli rigetta i violenti. Papa Francesco afferma: “Dio non vuole essere amato come si ama un condottiero”. Dio rifiuta chi usa la fede per terrorizzare e impaurire le persone invece di usarla per diffondere pace e bontà tra loro. Quindi non parlarmi di Dio, ma fammi piuttosto vedere Dio nella tua vita: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 16).
Si può tranquillamente negare Dio, l’importante è farlo con libertà e non fondare la negazione su posizioni o azioni errate di chi si presenta come credente, o su letture superficiali di alcuni non credenti oppure per seguire la moda. Si può anche credere in Dio però, trasformando questa fede in una vita autentica e coerente e testimoniando questa fede prima con la vita e laddove fosse necessario anche con le parole.
Nel cuore del mese di maggio, dedicato alla Madonna, ‘Complice a Cana’, nuovo singolo della pop rock band ‘Kantiere Kairòs’ con Dajana special guest

Esce oggi su tutte le piattaforme on line il nuovo singolo del gruppo pop rock di musica cristiana Kantiere Kairòs, intitolato ‘Complice a Cana’ e disponibile insieme al lyrick video. Un brano dolce e delicato che la band aveva in serbo da molto tempo e che s’incastona a metà del mese di maggio, tradizionalmente dedicato alla Vergine Maria. Special guest Dajana D’Ippolito: il nuovo pezzo è anche frutto di una bellissima collaborazione e della speciale sintonia nata con questa cantante straordinaria.
“Complice a Cana nasce dalle parole pronunciate a Medjugorje da suor Emmanuel Maillard, che parlava di quanto sia importante consegnare la nostra povertà a Dio, affinché Lui possa trasformarla in qualcosa di speciale, come l’acqua insapore che viene mutata nel vino più buono. ‘Complice a Cana’ è la nostra personale richiesta di intercessione, semplice e diretta, in quanto fatta a una Mamma”, spiega Antonello Armieri, voce e chitarra acustica della band, autore dei brani.
E precisa: “Volevamo fare in modo che tutta la canzone fosse vestita di dolcezza e speranza. Per questo, insieme agli archi, a cantarla è anche Dajana, che con la sua vocalità ha dato suono al sentimento che accompagna la richiesta di aiuto a Maria. Tutta l’ambientazione del pezzo vuole rappresentare quell’atteggiamento della Madonna e ne siamo molto contenti”.
La canzone è stata scritta qualche anno fa, “ma volevamo che venisse pubblicata al momento giusto, un po’ come il vino pazientemente maturato”, aggiunge Antonello Armieri, sottolineando: “Purtroppo in questa situazione globale non possiamo che confidare solo nell’intervento divino, affinché cambi il cuore dei potenti. Ci è sembrato davvero il momento giusto per avere una ‘complice’ di pace e di amore, che sciolga ogni nodo”.
Il brano ‘Complice a Cana’ è disponibile su tutte le piattaforme on line a partire da oggi.
Nella 6^ Domenica di Pasqua un nuovo stile di vita: amare!

Nella sera dell’addio Gesù affida agli Apostoli, che Egli aveva chiamato singolarmente a seguirlo, il messaggio dell’amore: amatevi come io vi ho amato; da questo il Padre riconoscerà che siete miei. Gesù sapeva bene quello che sarebbe successo. Il brano del Vangelo si ricollega a quello di domenica scorsa: Io sono la vite, voi i tralci: il tralcio produce frutto se rimane legato ala vite. La vite è Dio, Dio è amore: i frutti del ‘cristiano’ debbono essere frutti di amore; allora e solo allora si è figli di Dio.
Esistono due tipi di amore: a) quello evangelico, che proviene dal Padre, sorgente di amore, ed è detto ‘agape’; b) l’amore puramente umano, che in greco è detto ‘eros’: un amore dominato dalla legge della reciprocità ‘do ut des’: mi devi amare come io ti amo (dove non c’è amore se non c’è contraccambio). Il vero cristiano, il vero discepolo di Gesù non si distingue perché prega, perché possiede carismi particolari o possiede una scienza raffinata, ma è vero cristiano perché ama come ha amato il suo Signore Gesù.
Nel Vangelo il Maestro divino ci presenta l’amore in tre piani: ; a) l’amore del Padre per il Figlio, il Verbo eterno: (Gesù dirà: come il Padre ha amato me, Io ho amato voi!); b) l’amore del Figlio (Gesù) per tutti gli uomini (un amore che porta Gesù a morire in croce per salvare tutti gli uomini); c) l’amore degli uomini tra di loro (amatevi gli uni con gli altri come Io ho amato voi).
L’amore evangelico non è contraccambio ma è dono di Dio: esso parte dal Padre e tramite Gesù arriva sino a noi; è un dono, che siamo chiamati a trasmettere ai fratelli; questo amore nel concreto diventa perdono, generosità, servizio, fiducia, sopportazione. Diceva Gandhi: l’amore è l’anima del cristianesimo; Benedetto Croce parlando del cristianesimo evidenzia: l’amore di cui parla Cristo Gesù è amore verso tutte le creature, verso tutti gli uomini senza distinzione di genti o di classi, di liberi e di schiavi, amore verso tutte le creature, verso il modo intero, che è opera di Dio, quel Dio che è amore.
Siamo chiamati ad amare non perché Gesù ci comanda di amare, ma perché ciascuno di noi è realtà vivente dell’amore di Dio; Dio infatti amando crea e creando ama; Cristo Gesù assume la natura umana per salvarci, per aprire a noi le porte del regno dei cieli. Compito della Chiesa, dei credenti è quello di estendere e far conoscere questo amore a tutto il mondo, Gesù affida questo compito proprio alla Chiesa: ‘Come il Padre ha mandato me, Io mando voi’.
Il mondo oggi ha bisogno di aiuti, di opere umanitarie, filantropiche, ma ha soprattutto bisogno di Dio, che noi invochiamo: ‘Padre nostro che sei nei cieli’. E’ incapace di amare e perdonare solo colui che non ha conosciuto Dio, che è amore; dico amore cristiano, che non è eros, né filia, ma è carità, donazione, misericordia, compartecipazione alla vita dei fratelli in nome di Dio.
Mi dirai forse che è difficile; appunto per questo Gesù ha istituito l’Eucaristia, dopo aver lavato i piedi agli apostoli dicendo: ‘Voi mi chiamate Signore e maestro, e dite bene perché lo sono; ma Io vi ho dato l’esempio, fate allora come ho fatto Io’. Siete deboli, affaticati, oppressi, venite a me, dice Gesù, ed Io vi ristorerò. Ecco allora la celebrazione della Messa domenicale: serve per incontrarsi con Gesù, ascoltare la sua parola, rafforzare lo spirito per meglio attuare l’amore insegnato da Cristo Gesù.
Non è retorica, questo significa essere davvero cristiano. La missione del servire è la missione stessa dell’amore perché amore significa dare senza ricevere, offrire senza aspettare ricompensa; questa verrà poi dal Padre che sta nei cieli; con l’amore le piccole cose diventano grandi, senza l’amore crollano anche i palazzi e le cattedrali. Quanto grande e mirabile infatti è l’amore di Dio: questo Dio che pensa a te prima ancora che tu nascessi, questo Dio che per amore diventa il Redentore che dà la vita morendo in croce.
Amico/a, questo Dio oggi bussa alla porta del tuo cuore per essere compagno nel tuo viaggio, nel tuo dolore, per additarti la vera via della salvezza e si fa esempio: ‘Amatevi come io vi ho amato’; ci invita dicendo ‘Rimanete nel mio amore perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena’.