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Papa Francesco chiede di ricordare la data del proprio battesimo

“Questa mattina ho avuto la gioia di battezzare alcuni neonati, figli di dipendenti della Santa Sede e della Guardia Svizzera. Preghiamo per loro, per le loro famiglie. E vorrei chiedere al Signore, per tutte le giovani coppie, che abbiano la gioia di accogliere il dono dei figli e di portarli al Battesimo”: al termine della recita dell’Angelus papa Francesco ha ricordato ai fedeli radunati in piazza San Pietro di aver battezzato 21 neonati nella Cappella Sistina.

E’stato un invito a riflettere sul battesimo: “La festa del Battesimo di Gesù, che oggi celebriamo, ci fa pensare a tante cose, anche al nostro Battesimo. Gesù si unisce al suo popolo, che va a ricevere il battesimo per il perdono dei peccati. Mi piace ricordare le parole di un inno della liturgia di oggi: Gesù va a farsi battezzare da Giovanni ‘con l’anima nuda e i piedi nudi’.

E quando Gesù riceve il battesimo si manifesta lo Spirito e avviene l’Epifania di Dio, che rivela il suo volto nel Figlio e fa sentire la sua voce che dice: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento’. Il volto e la voce”.

E’ stato un invito a contemplare il volto ed ad ascoltare la voce di Dio: “Cari fratelli e sorelle, la festa di oggi ci fa contemplare il volto e la voce di Dio, che si manifestano nell’umanità di Gesù. E allora chiediamoci: ci sentiamo amati? Io mi sento amato e accompagnato da Dio o penso che Dio è distante da me? Siamo capaci di riconoscere il suo volto in Gesù e nei fratelli? E siamo abituati ad ascoltare la sua voce?”

In conclusione ha invitato a ricordare la data del proprio battesimo: “Vi faccio una domanda: ognuno di noi ricorda la data del suo Battesimo? Questo è molto importante! Pensa: in quale giorno io sono stato battezzato o battezzata? E se non lo ricordiamo, arrivando a casa, chiediamo ai genitori, ai padrini la data del Battesimo. E festeggiamo la data come un nuovo compleanno: quella della nascita nello Spirito di Dio. Non dimenticatevi! Questo è un lavoro da fare a casa: la data del mio Battesimo”.

Mentre nella celebrazione eucaristica ha pregato i genitori di sostenere nel cammino della fede questi 21 bambini neo battezzati: “È importante che i bambini si sentano bene. Se hanno fame, allattateli, che non piangano. Se hanno troppo caldo, cambiateli… Ma che si sentano a loro agio, perché oggi comandano loro e noi dobbiamo servirli col Sacramento, con le preghiere. Adesso incominciamo questa cerimonia tutti insieme. Oggi, ognuno di voi, genitori, e la Chiesa stessa date il dono più grande, più grande: il dono della fede ai bambini.

Andiamo avanti, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Continuiamo questa cerimonia del Battesimo dei vostri figli. Chiediamo al Signore che loro crescano nella fede una vera umanità, nella gioia della famiglia. E adesso continuiamo”.

Inoltre, in occasione del VI centenario dell’arrivo del Popolo Gitano in Spagna (gennaio 1425-2025), ha inviato un messaggio indirizzato a ‘queridos primos y primas, tíos y tías, querido Pueblo Gitano de España’: “Nel 2025 commemoriamo i 600 anni della vostra presenza in Spagna. Vorrei cogliere questa occasione per dimostrarvi il mio affetto, riconoscere i vostri valori e incoraggiarvi ad affrontare il futuro con speranza”.

Nel messaggio ha ricordato la loro storia, fatta di emarginazione: “Sono consapevole che la vostra storia è stata segnata da incomprensioni, rifiuti ed emarginazione. Ma anche nei momenti più difficili hai scoperto la vicinanza di Dio. Dio, infatti, percorre la storia insieme all’umanità e si è fatto nomade insieme al popolo zingaro. Anche Gesù nacque a Betlemme sotto il segno della persecuzione e dell’itineranza”.

Ma ha ricordato anche i ‘passi’ verso l’integrazione: “E’ anche giusto riconoscere gli sforzi compiuti negli ultimi decenni dal popolo zingaro, dalla Chiesa e dall’intera società spagnola, per intraprendere un nuovo cammino di inclusione che rispetti la vostra identità. Questo cammino ha prodotto molti frutti, ma bisogna continuare a lavorare, perché ci sono ancora pregiudizi da superare e situazioni dolorose da affrontare: famiglie in difficoltà che non sanno come aiutare i figli in difficoltà, giovani che hanno difficoltà a studiare, giovani persone che non riescono a trovare un lavoro dignitoso, donne che subiscono discriminazioni in famiglia e nella società”.

Inoltre ha ricordato il messaggio di papa san Paolo VI, pronunciato nel 1965, in cui affermò che essi sono nel ‘cuore’ della Chiesa: “Sono figli della Chiesa, di questa Chiesa nella quale tante persone, zingari e non zingari, si sono impegnate con responsabilità e amore per lo sviluppo integrale del popolo zingaro; di questa Chiesa che desidera continuare a spalancare le sue porte, perché tutti possiamo sentirci a casa; una Chiesa nella quale potete crescere nella fede cristiana senza rinunciare ai valori migliori della vostra cultura”.

E’ un invito a percorrere la strada di alcuni beati gitani: “Guardiamo avanti con speranza, seguendo le orme della beata Emilia Fernández Rodríguez, la cestista, e di Ceferino Giménez Malla, lo zio Pelé. Pur non volendolo, furono e continuano a essere maestri di fede e di vita per zingari e non zingari, come tante persone umili che aprono con fiducia la loro piccolezza alla grandezza di Dio”.

Questi beati ricordano l’importanza della preghiera: “Svelando i misteri del Rosario, entrambi i beati ci ricordano l’importanza della preghiera, dell’incontro con Dio, fonte di gioia, fraternità, speranza e carità. Entrambi hanno rischiato e perso la vita per amore di Dio e per cercare il bene degli altri: lo zio Pelé per aver difeso un prete ingiustamente detenuto, la cestaia per aver protetto i suoi catechisti. Entrambi furono missionari umili e coraggiosi”.

(Foto:  Santa Sede)

Ludovica Teresa Maria Clotilde di Savoia: una donna innamorata della famiglia

Ludovica Teresa Maria Clotilde di Savoia nacque a Torino il 2 marzo 1843. Era la figlia primogenita di Vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d’Asburgo Lorena. Chechina, come veniva chiamata in famiglia, era docile e tranquilla, ma determinata. Ricevette un’ educazione fortemente cattolica che la portò ad amare la preghiera. A 10 anni scrisse nel suo diario: “Mi impegno a una piccola mortificazione: fare con aria amabile le cose che mi spiacciono e a serbare sempre per i poveri una parte dei miei piaceri”. Nonostante dovette affrontare quattro lutti importanti in un solo anno, non perse la fede.

Nel gennaio del 1855 morì la nonna paterna (Maria Teresa d’ Asburgo – Toscana) e, qualche giorno dopo, la sua stessa madre. A febbraio morì lo zio Ferdinando ( duca di Genova) mentre, a maggio, il fratellino Vittorio Emanuele, il quale era ancora in fasce. A 12 anni fece gli onori di casa in occasione della vita della zarina Aleksandra Fëdorovna, moglie dello zar Nicola I. Cavour propose un’alleanza coi francesi per cui la principessa avrebbe dovuto sposare Napoleone Giuseppe Carlo, noto anche come Gerolamo o Clom, figlio di Gerolamo Buonaparte, il quale era il fratellino di Napoleone Buonaparte. All’epoca Maria Clotilde aveva 15 anni e lui  21 di più.

Egli era un festaiolo che trascorreva il suo tempo tra i piaceri della vita di corte e della camera da letto. Era noto, inoltre, che provasse una certa avversione per la chiesa. Vittorio Emanuele decise di far scegliere a lei che, consapevole del valore politico che il matrimonio aveva per il futuro della nazione, dopo un mese di riflessioni acconsentì. Al riguardo, disse sempre: “L’ho sposato perché l’ho voluto io”. I due si sposarono nella cappella reale della Sacra Sindone nel 1859. Nonostante non fosse ben vista dalla corte, non si lamentò mai, dimostrandosi una vera regina. Noncurante delle difficoltà all’interno del matrimonio, Maria Clotilde continuò ad occuparsi di opere benefiche. Nel 1860 il suocero si ammalò.

Maria Clotilde, a lui molto affezionata, lo vegliò personalmente e gli fece ricevere l’estrema unzione prima del trapasso. Questo non fu gradito dal consorte, il quale si arrabbiò molto. Nel 1861, Maria Clotilde e il marito partirono per le Americhe. Durante questo viaggio, la donna rimase incinta e, nel 1862 nacque Vittorio Napoleone. L’anno dopo nacque Napoleone Luigi mentre, nel 1866, vene alla luce Maria Letizia. Quando cadde il secondo impero napoleonico, Maria Clotilde, allora 27enne, rimase nella città in rivolta contro il parere dei famigliari. 

Scrisse, infatti al padre: “L’assicuro che non è il momento per me di partire. La mia partenza farebbe il più pessimo e deplorevole effetto. Non ho la minima paura: non capisco nemmeno di cosa debba aver paura.  E perché? Il mio dovere è il rimanere qui tanto che lo potrò, dovessi io restarci e morirci: non si può sfuggire davanti al pericolo. Quando mi sono maritata, quantunque giovane, sapevo cosa facevo, e se l’ho fatto è perché l’ho voluto. Il bene di mio marito, dei miei ragazzi, del mio paese è che io rimanga qui.

L’onore persino del mio nome; l’onor suo, caro Papà, se così posso esprimermi, l’onore della mia Patria nativa. Lei non partirebbe, i fratelli non partirebbero.  Non sono una Principessa di casa Savoia per niente!  Si ricorda cosa si dice dei Principi che lasciano il loro Paese? Partire, quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l’onta per sempre”.

Solo quando venne proclamata la repubblica, ella lasciò Parigi. Prima però, assistette alla messa quotidiana e visitò, come da consuetudine, i malati. Nel 1878 tornò in Italia con la sua unica figlia in occasione della morte del proprio padre. Restò lì dedicandosi alle attività benefiche. Il 25 giugno del 1911 morì e venne sepolta nella basilica di Superga. Nel 1936 fu indetta una causa di beatificazione nei suoi confronti, la quale è ancora in corso. Nel 1942, papa Pio XII la proclamò Serva di Dio.       

Da Tallinn i giovani europei di Taizé per ‘sperare oltre ogni speranza’

“Cari giovani, è sulle rive del Baltico, a Tallinn, che vi incontrate quest’anno per il 47° Incontro europeo ospitato dalla comunità di Taizé. Papa Francesco invia i suoi cordiali saluti a voi, così come ai fratelli della comunità, ai leader delle diverse confessioni cristiane in Estonia e a tutte le persone di buona volontà che vi accoglieranno alla fine dell’anno”: così è iniziato il messaggio di papa Francesco inviato dal segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, in occasione  del 47° Incontro Europeo guidato dalla Comunità di Taizé a Tallinn.

Nel testo si è fatto riferimento al viaggio apostolico nei tre Stati baltici nel 2018, quando “il Santo Padre ha incontrato i giovani della comunità luterana di Kaarli, a Tallinn, e ha avuto queste parole che  descrivono anche ciò che state vivendo in questi giorni: è sempre bello riunirsi, condividere testimonianze di vita, esprimere ciò che stiamo vivendo testimonianze di vita, per esprimere ciò che pensiamo e ciò che vogliamo; ed è molto bello stare insieme, noi che crediamo in Gesù Cristo”.

Nel messaggio si è sottolineato lo spirito di fraternità dell’incontro: “Ritrovarsi in uno spirito di condivisione e fraternità: questo è tanto più importante nel contesto odierno, quando il nostro mondo sta attraversando sfide gravi. Molti paesi sono segnati dalla violenza e dalla guerra, molte persone sono vittime di trattamenti inumani e altre ancora sono disorientate dalle disuguaglianze nelle nostre società e dai pericoli ecologici”.

Il messaggio ha ripreso la lettera del priore di Taizè, che ha invitato a ‘sperare oltre ogni speranza’: “In questi giorni a Tallinn, però, si vuole ‘sperare oltre ogni speranza’, secondo il titolo della lettera che fratel Matthew, priore di Taizé, ha scritto per il prossimo anno. Questo appello, in sintonia con il tema dell’anno giubilare che segnerà quest’anno 2025, è rivolto anche a ciascuno di voi”.

Ed ha richiamato la fiduci della Chiesa nei giovani: “Cari giovani, il Santo Padre conta su di voi e ribadisce la fiducia che la Chiesa ripone in voi, perché la Chiesa universale ha bisogno di tutti voi per annunciare oggi la buona notizia dell’amore di Dio. Questo è anche il significato dell’approccio sinodale avviato dalla Chiesa cattolica e che ha dato luogo a grandi progressi nell’amicizia ecumenica con i nostri fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”.

Infine ha affidato i giovani alla Madre di Dio: “Affidando ciascuno di voi e le vostre famiglie al Signore, per intercessione della Vergine Maria, papa Francesco vi concede di tutto cuore la benedizione apostolica e si affida alla vostra preghiera”.

Nella lettera di frére Matthew sono state riprese le riflessioni raccolte durante gli incontri con i giovani nell’anno: “Quando vorremmo confidare nell’amore di Dio, ciò che vediamo e sentiamo intorno a noi molto spesso sembra contraddire quell’amore. Siamo intrappolati tra ciò che è già successo e quanto deve ancora venire. Questa situazione non è sempre molto confortevole, quando però si apre ad una speranza di realizzazione, dentro di noi qualcosa si libera.

La speranza richiede pazienza. ‘Speriamo ciò che non vediamo’, dice l’apostolo Paolo. Orientati verso ciò che verrà in pienezza nel tempo di Dio, ma anche turbati da ‘battaglie all’esterno, conflitti all’interno’, oseremo rimanere in questa situazione scomoda anziché fuggire via?”

Ed ha citato la speranza di Abramo, che ha creduto a Dio: “Abramo, l’antenato dei credenti, osservò la promessa di Dio ben oltre ogni ragionevole speranza. Lui e sua moglie Sara hanno ricevuto ciò che sembrava loro impossibile. Mentre il suo paese era devastato dalla guerra, i suoi abitanti minacciati di esilio e lui stesso in prigione, il profeta Geremia investì nel futuro: comprò un campo, tanto era sicuro che Dio non avrebbe abbandonato il suo popolo”.

Quindi la speranza consente alla fede di essere reale: “Un gesto di speranza così sorprendente rende la fede più reale. E’ una ferma fiducia in ciò che è ancora invisibile e perfino incerto. Possiamo appoggiarci su questa speranza? Alla fine è questo che riapre la fonte della gioia. Anche nelle situazioni umane più complicate, ciò che non abbiamo mai osato sperare può diventare realtà. Oggi, in molti paesi in cui la guerra sta causando il caos, stanno emergendo straordinarie iniziative cariche di speranza”.

Occorre, perciò, ascoltare i testimoni della speranza: “Durante la mia visita in Ucraina con due dei miei fratelli, un responsabile della Chiesa ci ha detto: ‘La preghiera apre uno spazio che permette la guarigione’. Sono rimasto molto colpito da questa osservazione. Confrontandosi costantemente con la sofferenza del suo popolo, vede che proprio nella vita interiore i credenti possono rimanere aperti ad accogliere la novità.

Questo processo non produce necessariamente risultati immediati ma, anche supportato da altri mezzi, apre una porta per superare le ferite e il dolore e risveglia la speranza di un’umanità guarita. La preghiera dà la forza per restare saldi di fronte alle situazioni più complesse. Rompe le onde dello scoraggiamento quando l’oscurità sembra inghiottire tutto”.

Quindi ha chiesto ai giovani di sperare: “Come reagiamo quando i nostri piani vengono vanificati e le nostre speranze deluse? Gesù ci dà una chiave per rimanere persone di speranza. Di fronte a una folla numerosa di affamati, ha avuto per loro ‘compassione’, letteralmente ‘il suo cuore era compassionevole’ per loro. Ed ha trovato il modo di soddisfare i loro bisogni”.

La speranza consente di vivere nel ‘tempo’ di Dio: “Il rifiuto di rassegnarsi alle situazioni di disagio permette alla speranza di prendere forma dentro di noi. E’ il contrario dell’attesa passiva, è una lotta, non c’è altra via. Anche solo il nostro desiderio di speranza può portarci a superare il divario tra ciò che è umanamente possibile e ciò che è possibile per Dio”.

Taizè non si è mai rassegnata alla separazione tra i cristiani: “La Regola di Taizé parla di non rassegnarsi mai allo ‘scandalo della separazione dei cristiani, che confessano tutti così facilmente l’amore per il prossimo, ma restano divisi’. Per frère Roger, l’unità dei cristiani non è mai stata un semplice obiettivo in sé, ma un cammino che conduce alla pace all’interno della famiglia umana…

La natura lotta per sopravvivere, rispecchiando e incoraggiando la nostra lotta per la speranza. La speranza per la creazione e la speranza che riceviamo dalla buona creazione di Dio vanno di pari passo con la speranza per l’umanità”.

E’ stato un invito a rimanere persone di speranza: “Per custodire la speranza, abbiamo bisogno gli uni degli altri. La speranza fiorisce quando siamo attenti ai bisogni degli altri. Possiamo vedere persone che, anche in mezzo alle avversità più grandi, scelgono di vivere, sorridere e offrire ogni giorno quel poco che è possibile”.

Infatti essa è collegata alla verità: “La speranza è legata alla verità ed alla giustizia. E queste sono tutte caratteristiche di Dio. Non vediamo questo legame nella vita, morte e risurrezione di Gesù? Per nutrire la speranza, dobbiamo affrontare la realtà così com’è e vederla alla luce delle promesse di Dio”.

E’ stato un invito a vivere la speranza della Pasqua: “La speranza non si basa sull’analisi della situazione ma su quella che spesso è una vacillante fiamma di fiducia. Benché fragile, essa arde nella notte più profonda. E’ questa l’esperienza che hanno fatto gli amici di Gesù: molti lo avevano abbandonato durante la sua prova più grande ma il suo amore ha permesso loro di tornare…

Risorto dai morti, vivente in Dio, Gesù ci attira a sé. Incontrandoci nel profondo del nostro essere, pieno di tristezza o di gioia, Gesù risorto ci apre alla sua relazione con il Padre e alla comunione nello Spirito Santo. Non siamo più prigionieri della nostra disperazione, una nuova vita è possibile”.

Da tale speranza nascono i pellegrini della pace: “La fede nella risurrezione ha permesso a molte persone di aggrapparsi alla speranza in mezzo a situazioni di angoscia. E’ una fonte che ci porta a superare le nostre stesse impossibilità, ad aprire il nostro cuore agli altri e ad agire. La fede nella risurrezione di Gesù richiede molto coraggio e audacia. Implica lo sforzo per non lasciarci paralizzare dalla presenza di morte e di distruzione che oggi ci circonda”.

Ed è stato Gesù a lasciarci la ‘sua’ pace, che rende liberi: “Questa nuova vita ci aiuta ad alzarci, ci spinge a camminare con gli altri. Diventiamo pellegrini della speranza che portiamo dentro di noi… Come pellegrini di pace, siamo consapevoli che non esiste vera pace senza giustizia. La pace che portiamo dentro di noi, che nasce dalla speranza con cui viviamo, ci rende interiormente liberi. Ci permette di amare la vita e di resistere alle ingiustizie, perseverando sotto l’impulso dello Spirito Santo”.

Natale del Signore: Alleluia! Oggi è nato il Salvatore!

Oggi è la solennità del Natale, giorno di vera speranza perchè il Bambino che contempliamo adagiato nella mangiatoia è il bambino Gesù, disceso dal cielo per la nostra salvezza. E’ questo il messaggio degli Angeli ai pastori; è il messaggio all’umanità; è autentica la nostra fede se accogliamo con fede il messaggio di Natale. Mentre Maria e Giuseppe erano a Betlemme si compirono per lei i giorni del parto e diede alla luce il figlio primogenito, lo avvolse in fasce, lo depose in una mangiatoria.

Questo Bambino, nato in una grotta, è il Salvatore: Cristo Signore e gli Angeli cantarono: ‘Gloria a Dio nell’altro dei cieli e pace agli uomini, che Egli ama’. Nell’umile e disadorna grotta di Betlemme lo hanno potuto incontrare solo poche persone, ma Egli è nato per tutti giudei e pagani, ricchi e poveri, vicini e lontani, credenti e non credenti. Ciò che è necessario, ciò che conta è dire il nostro ‘sì’, come Maria, perchè la luce divina rischiari il cuore. In quella notte ad accogliere il Verbo incarnato furono solo Maria e Giuseppe, che lo avevano atteso con amore, e i pastori, gente umile, che trascorrevano la notte vegliando accanto al gregge.

Una piccola comunità che accorse alla grotta per adorare il bambino, ma che rappresenta la Chiesa, gli uomini amati dal Signore. Il Natale è proprio la festa della luce, la festa dell’amore; Gesù è la luce viva che si propaga ovunque perchè Egli è venuto per salvare tutti. La liturgia oggi ci parla di una luce diversa, speciale, mirata a richiamare gli uomini di buona volontà. Una luce orientata verso il ‘noi’, quel ‘noi’ che è l’umanità per la quale il Verbo si è incarnato, il Figlio di Dio si è fatto uomo. Il ‘noi’ è la Chiesa, la grande famiglia dei credenti: in essa ‘chi crede e sarà battezzato, sarà salvo’.

Questo ‘noi’ è la Chiesa, la famiglia dei credenti in Cristo, che hanno atteso con speranza la nascita del salvatore ed oggi celebrano nel mistero l’attualità di questo evento salvifico, questa Chiesa chiamata ad essere lievito di riconciliazione e di pace nel mondo intero. Il ‘noi’ della Chiesa oggi sprona a superare la mentalità egoistica, a promuovere il bene comune e rispettare soprattutto i deboli. Il ‘noi’ della Chiesa oggi invita tutti i popoli ad abbandonare ogni logica di violenza e di vendetta e a vivere l’amore distintivo vero del cristiano. 

L’umanità, che aveva atteso con speranza la nascita del salvatore, finalmente ha visto la luce vera: ecco il mistero del Natale. La luce del primo Natale fu come un fuoco acceso nella notte: da questo fuoco inizia la storia millenaria della Chiesa che nel suo cammino attraverso i secoli è chiamata ad essere fonte di luce per l’umanità. I pastori andarono, trovarono il Bambino, fecero i loro doni e tornarono pieni di gioia, di serenità, di amore; lo stesso faranno i Magi, che arrivano dall’Oriente, guidati da una luce, una stella cometa, la luce che porta a Cristo Gesù.

‘Gloria a Dio, pace agli uomini amati dal Signore’ è stato il grido che echeggiò la prima volta nella grotta di Betlemme; questo grido parla proprio di un avvicinamento  singolare, straordinario, unico al mondo di Dio verso l’uomo. Questa notte santa, contrassegnata dalla luce che promana dalla grotta,  segna l’inizio dell’era nuova, della santificazione dell’uomo per mezzo di Cristo Gesù, ed invita la Chiesa, l’uomo di oggi, a guardare ancora una volta verso la Terra santa, dove Gesù è nato, perchè i suoi abitanti, ebrei e musulmani, abbandonino finalmente la logica della violenza e della vendetta e si impegnino in una logica di amore, solidarietà e condivisione.

Il Natale, è il ‘noi’ della Chiesa, che vive oggi guardando questo mare Mediterraneo, divenuto non più mare che unisce ed affratella, ma cimitero per tanta gente affamata che cerca libertà, pace, lavoro e vita serena; il vero credente oggi sente il dovere religioso e umano di elevare a Dio la supplica perchè la pace di Cristo Gesù affratelli tutti i popoli. E’ veramente Natale, se è un Natale di pace e di amore a tutti i livelli. Ecco il mio voto augurale e quello della Chiesa tutta: Buon Natale di pace e di amore.

Da Gaza un appello alla pace

Il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, ha concluso questa mattina la sua visita di solidarietà alla comunità cristiana di Gaza rientrando a mezzogiorno a Gerusalemme; durante la visita, fa sapere il Patriarcato latino, “il cardinale ha presieduto la celebrazione eucaristica della Natività del Signore presso la Chiesa della Sacra Famiglia, pregando con i fedeli e portando un messaggio di speranza e resilienza alla comunità parrocchiale. Sua Beatitudine ha anche incontrato l’arcivescovo Alexios nella parrocchia greco-ortodossa di san Porfirio, sottolineando lo spirito di fraternità e di unità tra le comunità cristiane di Gaza”.

Il patriarca, spiegano dal Patriarcato, ha anche visionato “le iniziative di aiuto umanitario in corso organizzate dal Patriarcato latino e dal Sovrano Ordine di Malta. Ha verificato i risultati delle consegne di aiuti e ha valutato i bisogni urgenti della comunità locale. Insieme alla parrocchia locale, ha confermato le prossime tappe degli aiuti umanitari e ha approvato i piani e le iniziative per l’apertura della scuola”. Infine il patriarca “prega affinché questo Natale porti una rinnovata speranza per la fine della tragedia in corso a Gaza e nella regi regione in generale, segnando l’inizio di un futuro più luminoso e pacifico per tutti”.

In tale visita ieri il patriarca di Gerusalemme ha officiato a Gaza la celebrazione eucaristica di Natale alla chiesa della Santa Famiglia, esprimendo la propria gioia: “Innanzitutto esprimo la mia grande gioia di essere oggi in mezzo a voi e vi porgo i saluti di tutti coloro che vi trasmettono il loro amore, le loro preghiere e la loro solidarietà. Tutti volevano venire a stare con voi e portare doni, ma non abbiamo potuto portare molto. Siete diventati la luce della nostra Chiesa nel mondo intero”.

Il card. Pizzaballa a Gaza ha parlato di luce: “A Natale celebriamo la luce e ci chiediamo: dov’è questa luce? La luce è qui, in questa chiesa. L’inizio della luce è Gesù Cristo, che è la fonte della nostra vita. Se siamo una luce per il mondo, è solo grazie a Lui. A Natale, prego che Gesù ci conceda questa luce”.

Una luce che sappia squarciare le tenebre ordite dagli uomini: “Viviamo in un tempo pieno di tenebre, e non c’è bisogno di approfondire perché lo sapete bene. In questi momenti, dobbiamo innanzitutto guardare a Gesù, perché Lui ci dà la forza di sopportare questo periodo buio. Nell’ultimo anno abbiamo imparato che non possiamo fare affidamento sugli uomini.

Quante promesse sono state fatte e mai mantenute? E quanta violenza e odio sono nati a causa delle persone? Per rimanere saldi nella speranza, dobbiamo essere profondamente radicati in Gesù. Se siamo legati a Lui, possiamo guardarci l’un l’altro in modo diverso”.

Nell’omelia ha parlato chiaramente di una speranza che la guerra terminerà con la Chiesa che sarà a fianco di questo popolo che abita Gaza: “Non so quando o come finirà questa guerra, e ogni volta che ci avviciniamo alla fine, sembra di ricominciare da capo. Ma prima o poi la guerra finirà e non dobbiamo perdere la speranza. Quando la guerra finirà, ricostruiremo tutto: le nostre scuole, i nostri ospedali e le nostre case.

Dobbiamo rimanere resilienti e pieni di forza. E ripeto: non vi abbandoneremo mai e faremo tutto il possibile per sostenervi e assistervi. Ma soprattutto non dobbiamo permettere all’odio di infiltrarsi nei nostri cuori. Se vogliamo rimanere una luce, dobbiamo mettere i nostri cuori a disposizione solo di Gesù”.

Tale situazione è una ‘sfida’ per la fede, ribadendo che Dio è l’Emmanuele: “Quest’anno è stato una sfida significativa per la nostra fede, per tutti noi e soprattutto per voi… Dobbiamo rimanere saldi nella nostra fede, pregare per la fine di questa guerra e confidare completamente nel fatto che, con Cristo, nulla può vincerci”.

Ma nelle tenebre è sorta una Luce: “Nonostante la violenza di cui siamo stati testimoni lo scorso anno, abbiamo assistito anche a molti miracoli. In mezzo alle tenebre, c’erano persone che volevano aiutare e non si sono fatte ostacolare da nulla. Il mondo intero, non solo i cristiani, ha voluto sostenervi e stare al vostro fianco. La guerra finirà e ricostruiremo di nuovo, ma dobbiamo custodire i nostri cuori per essere capaci di ricostruire. Vi amiamo, quindi non temete e non arrendetevi mai”.

E’ stato un appello a non scoraggiarsi, ma a mantenere ‘viva’ la Luce: “Dobbiamo preservare la nostra unità per mantenere la luce di Cristo qui a Gaza, nella nostra regione e nel mondo. Abbiamo una missione e anche voi dovete dare qualcosa, non solo ricevere. Il mondo che vi guarda deve vedere a chi appartenete, se alla luce o alle tenebre? Appartenete a Gesù, che dà la sua vita, o a un altro?”

Ed ha ringraziato loro per questa testimonianza: “Quando il mondo vi guarda, deve notare che noi siamo diversi… Grazie per tutto quello che fate. Forse non ve ne accorgete nella vostra difficile vita quotidiana, ma il mondo intero lo fa. Siamo tutti orgogliosi di voi, non solo per quello che fate, ma perché avete conservato la vostra identità di cristiani appartenenti a Gesù.

L’appartenenza a Gesù rende tutti amici, e la nostra vita diventa una vita di donazione a tutti. Concludo dicendo: Grazie. Che il Natale porti luce a ciascuno di noi. Non abbiate paura, perché nessuno può toglierci la luce di Cristo. Continuate a dare una buona testimonianza della fede cristiana”.

Mentre nel messaggio natalizio il card. Pizzaballa ha sottolineato che per Gesù non c’è stato un alloggio disponibile: ““Il Vangelo, inoltre ci dice che per questo evento importante della storia, la nascita del Salvatore, non c’è posto: ‘lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio’. Gesù entra nella storia così, come uno che non trova posto, che non si impone, che non esige, che non fa la guerra per trovarsi un posto.

Accetta di non avere posto, e va a cercare tutti coloro che, come Lui non hanno un posto nella storia, come i pastori. Gesù viene per loro, il segno è per loro, è il segno che il Salvatore vuole salvarci dalla sventura di non avere posto. Lui stesso, la sua vita, diventa la casa, lo spazio di tutti coloro che non hanno posto”.

Quindi il suo pensiero è andato a chi vive in Terra Santa: “Come non pensare ai tanti ultimi, per i quali sembra non esserci posto nel mondo, come pure ai tanti nostri fratelli e sorelle in questa nostra martoriata Terra Santa, per i quali non sembra esserci un posto, dignità e speranza?  

All’annuncio dell’angelo, deve seguire una risposta. Una decisione: accogliere oppure no l’invito dell’angelo ad andare a vedere il Salvatore. La risposta, infatti, non è scontata. Non si muove Erode, non si muovono gli anziani di Gerusalemme. Gesù viene, ma non impone a nessuno di mettersi in cammino per andare a Lui. Non fa come Cesare Augusto, che obbliga tutti ad andare a censirsi”.

Però questa è la libertà di Dio fatto uomo, richiamando la responsabilità di ciascuno: “Gesù lascia liberi. Ci indica un segno, ma poi si rimette alla nostra libertà. Il Natale è il tempo della scelta, se mettersi in cammino verso Colui che viene, oppure no. Anche in questo Natale una possibilità ci è data, di far posto a Colui che non trova posto, per scoprire, poi, che Lui stesso è la nostra strada, la nostra casa, il nostro pane buono, la nostra speranza. E, lungo il cammino, scopriremo tanti fratelli e sorelle, bisognosi di casa e di pane, come noi, e per i quali fare posto e dare speranza”.

Mentre i vescovi italiani nell’augurio natalizio riprendono i messaggi del nunzio apostolico a Damasco, card. Mario Zenari, e di fr. Francesco Patton, custode di Terra Santa: “Conosciamo la situazione che diversi Paesi del Medio Oriente stanno vivendo ormai da diverso tempo, al pari di altri luoghi del mondo spesso dimenticati. Mentre accogliamo il Signore che viene tra noi e contempliamo il mistero del Dio fatto carne, il nostro pensiero e la nostra preghiera vanno proprio al dolore profondo che sta dilaniando intere nazioni”.

(Foto: Patriarcato di Gerusalemme)

Mons. Enrique Angelelli ricordato a Montegiorgio, paese di suo padre

Nelle scorse settimane il vescovo argentino della diocesi di La Rioja, mons. Dante Braida, accogliendo la richiesta di una reliquia da intronizzare nella parrocchia della città, si è recato a Montegiorgio, in provincia di Fermo, città di 7000 abitanti, che diede i natali al padre, mentre la madre era originaria di Cingoli: Enrique, insieme ai fratelli Juanito ed Elena nati tutti in Argentina, sono figli di Giovanni Angelelli originario di Montegiorgio che è partito dall’Italia a soli 15 anni per cercare fortuna in Argentina; proprio lì conobbe Celina Carletti, originaria di Cingoli con cui si sposò. Mons. Angelelli fu trucidato dalla dittatura militare il 4 agosto 1976 ed il 27 aprile 2019 papa Francesco lo ha dichiarato beato. 

Mons. Dante Braida ha sottolineato in quale modo è avvenuto l’invito: “Sono stato invitato dal parroco della Chiesa fermana, don Pierluigi Ciccarè, tramite don Mario Moriconi, sacerdote italiano che ha prestato servizio in Argentina dal 1973 al 1984, nella diocesi di Morón. In questa visita mi accompagna mons. Marcos Pirán, vescovo ausiliare di Holguín a Cuba, originario dell’Argentina (diocesi di San Isidro)”.

All’incontro ha partecipato anche il vescovo di Fermo, mons. Rocco Pennacchio,sottolineando che la testimonianza di mons. Angelelli è un messaggio attuale per la Chiesa. Durante l’omelia della celebrazione eucaristia mons. Dante Braida ha ringraziato la comunità montegiorgese per l’invito: “Ringrazio Dio per questa opportunità di testimoniare non solo la vita del beato martire Enrique Angelelli e dei suoi compagni, ma anche la sua eredità che oggi alimenta la nostra vita e le nostre azioni pastorali”.

Ed ha raccontato l’azione pastorale del beato argentino: “Nella sua azione pastorale, mons. Angelelli confidava in quella presenza di Dio che abita in tutti gli uomini; per questo invitava tutti a partecipare attivamente alla vita sociale, con la certezza che ciascuno ha qualcosa da offrire al bene comune, alla bene degli altri. E quella presenza include soprattutto i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili, tutti coloro che, agli ‘occhi dell’efficienza’ del mondo, possono essere insignificanti”.

Mentre nell’incontro cittadino mons. Braida ha valorizzato le esortazioni di mons. Angelelli ai laici: “Per questo mons. Angelelli nel suo primo messaggio ai laici ha detto: ‘Pensate, riflettete, dialogate, date la vostra opinione, partecipate, ascoltate, imparate, obbedite, intervenite, preoccupatevi, preoccupatevi per gli altri, siate partecipi solidarietà… sentirci corresponsabili insieme al vescovo, ai sacerdoti e alle suore della missione della Chiesa’. Allo stesso tempo, il nostro vescovo ci ha esortato a riconoscere che lo Spirito Santo opera in ogni persona che lavora per la giustizia e la pace, per il bene degli altri, con i quali dobbiamo camminare insieme, siano essi credenti o non credenti, membri delle organizzazioni più diverse anche se non siamo d’accordo su tutto”.

Chi era mons. Enrique Angelelli?

“Mons. Enrique Angelelli era un pastore, che ha cercato in tutti i modi di prendersi cura delle sue pecore, testimoniando il Vangelo, ed ha portato il messaggio del Concilio Vaticano II a tutte le persone della sua diocesi”.

Quale era il suo amore per la Chiesa?

“Ha veramente dato la vita per una Chiesa sinodale e per questo, quando è stato beatificato, il card. Angelo Becciu ha detto che era un martire dei decreti conciliari. Cercava questo, una persona che amava molto la Chiesa, e sebbene non fosse ben compreso ai suoi tempi da alcuni ambienti ecclesiastici, andò comunque avanti, unito alla Chiesa e fedele alla missione che gli era stata affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di rivolgerci di più alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per noi che vogliamo vivere la sinodalità”.

In quale modo si fece interprete del Concilio Vaticano II nell’Argentina?

“Cercò di rendere tutti i fedeli partecipi della vita della Chiesa, affinché la fede li aiutasse a crescere in tutte le dimensioni della loro vita familiare, lavorativa, sociale e culturale, perché ogni persona fosse in grado di scoprire la propria vocazione”.

‘Un orecchio al Vangelo, un orecchio al popolo’: in quale modo applicò questa sua ‘regola’?

“Mons. Angelelli ha applicato questo suo lemma prima nell’ascolto del Vangelo, poi nell’ascolto delle persone nella convinzione di renderle più consapevoli nel vivere il cristianesimo”.

Lei è vescovo di La Rioja, diocesi di mons. Angelelli: cosa rimane di questa eredità in quella particolare chiesa?

“E’ molto bello bere dall’eredità che ci ha dato, perché ha vissuto proprio il Concilio Vaticano II, e nel 1968 quando ha assunto la diocesi ha cercato di applicarlo, e in modo concreto incoraggiando i laici nella propria missione, soprattutto nel mondo, ed anche aiutando ad affrontare le situazioni di povertà, in cui vivono tante persone. Anche nei consigli pastorali, organizzando la diocesi per decanati per renderla più partecipativa. Era una persona che amava molto la Chiesa, e anche se non era molto compreso nel suo tempo da alcuni settori ecclesiali, tuttavia, è andato avanti, fedele alla missione a lui affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di andare oltre alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per quelli di noi che vogliono vivere la sinodalità”.

E come si pone il Sinodo nell’ascolto delle persone?

“Il Sinodo sta cercando un modo per ascoltare tutte le persone e renderle partecipe alla vita della Chiesa. Nella Chiesa ogni battezzato ha un ‘valore’ ed ha un’importanza unica: se quella persona ha una necessità o è povera deve essere al centro della comunità cristiana”.  

(Tratto da Aci Stampa)

A cento anni dal Primum Concilium Sinense quali prospettive per la Chiesa cattolica in Cina?

“Il Concilio di Shanghai è il primo Sinodo del genere che si tiene in quelle che allora erano chiamate terre o Paesi di missione. Un Paese dove nonostante il grande impegno delle congregazioni missionarie i battezzati sono ancora una minoranza, e non esiste ancora una Chiesa locale strutturata. In quegli anni arrivano proprio dal Papato e dalla Santa sede le spinte a promuovere Concili generali, nazionali o regionali, nelle terre di missione. Per cogliere la rilevanza del Concilium Sinense occorre tener conto proprio del passaggio chiave in atto in quei decenni riguardo all’opera missionaria della Chiesa”: così è iniziato l’intervento del direttore dell’Agenzia Fides, dott.  Gianni Valente, al convegno di studi internazionali, ‘Appunti di viaggio: Marco Polo ed i Francescani in Oriente’, svoltosi a Tolentino, sul ‘Primum Concilium Sinense’, svoltosi a Shanghai nel 1924.

Inizialmente il relatore ha messo in evidenza la situazione storica in cui la fede cattolica era vista dai cinesi come un’invasione degli Stati europei: “In Cina, dopo il tramonto dell’avventura iniziata dal Gesuita Matteo Ricci di Macerata nel Seicento, a partire dal XVIII Secolo le attività missionarie si sono fatalmente intrecciate con gli interessi e le strategie delle potenze occidentali in territorio cinese. I missionari a volte arrivano in Cina con le navi da guerra: i cosiddetti Trattati ineguali con cui le potenze occidentali avevano imposto alla Cina la loro supremazia coloniale includevano anche privilegi protezioni e garanzie per l’attività missionaria.

Era successo che chiese e centri missionari fossero costruiti coi soldi estorti al Celeste Impero come bottini di guerra. In quella fase storica si era creato un intreccio perverso tra l’opera apostolica e le strategie imperialistiche occidentali, e i primi a pagarne le conseguenze erano i missionari stessi. L’endemico risentimento popolare contro gli stranieri si rivolgeva facilmente contro le persone inermi dei missionari o dei cinesi convertiti al cattolicesimo. Si pensi ai massacri xenofobi compiuti all’inizio del XX Secolo dalla setta dei Boxer, dove in pochi mesi morirono 30.000 missionari cristiani coi loro fedeli”.

Al termine dell’incontro gli abbiamo chiesto di raccontarci l’importanza dei viaggi dei francescani in terra d’Oriente?

“In terra d’Oriente i viaggi dei francescani sono stati le prime esperienze di incontro del cristianesimo con le popolazioni della Cina e della Mongolia. Sono andati nelle terre d’Oriente con il desiderio di annunciare il Vangelo. Erano i primi tentativi del cristianesimo ‘europeo’ di uscire dai confini per raggiungere terre inesplorate in un momento in cui si iniziavano ad  attraversare questi enormi spazi. In precedenza c’erano state alcune esperienze, come quella dell’antica Chiesa di Oriente, che era arrivata in Persia ed in India. Esiste un filo conduttore che unisce questi approcci di incontri positivi tra cristianesimo e le grandi nazioni dell’Oriente. Per i francescani il viaggio diventa anche un’esperienza di incontro tra culture e popoli diversi”.

Ritornando alla storia contemporanea, quale era la ‘posizione’ della Santa Sede ad inizio dello scorso secolo?

“LA Santa Sede aveva da tempo avvertito quanto era pericoloso l’intreccio tra apostolato e colonialismo occidentale. A Roma hanno trovato ascolto gli allarmi lanciati da alcuni missionari lungimiranti come Vincent Lebbe e Antonio Cotta, che denunciavano gli effetti negativi del soffocante protettorato imposto dalle potenze occidentali all’opera della Chiesa.

A Roma vedevano bene che l’opera missionaria doveva assolutamente emanciparsi dal connubio con il colonialismo, se non voleva rimanere sepolta dal crollo delle politiche colonialiste che cominciavano a scricchiolare. E non era solo questione di opportunismo storico: cresceva la percezione che fare affidamento  su protezioni di potenze geopolitiche o militari non era la strada giusta, e tradiva le dinamiche gratuite con cui si diffonde il Vangelo.

Nel 1919, questa sollecitudine della Sede Apostolica è stata espressa come magistero pontificio. Papa Benedetto XV pubblicava la lettera apostolica ‘Maximum Illud’ sulle attività dei missionari nel mondo, in cui definiva come un ‘tremendo flagello’ lo ‘zelo indiscreto per lo sviluppo della potenza del proprio Paese’ che sembra animare molti missionari occidentali, ripetendo che i missionari «devono curare gli interessi di Cristo’, e non gli interessi del proprio Paese”.

Una storia che trovò una prima manifestazione nel 1924 con il Primum Concilium Sinensem: quali furono gli sviluppi?

“Dopo il periodo del colonialismo europeo, in cui i fu un grande impegno missionario delle congregazioni cattoliche in Cina, che a volte in maniera negativa si era intrecciato con le dinamiche del colonialismo, iniziò una nuova percezione da parte della Santa Sede e dei missionari più avveduti, accorgendosi che la strada dell’impegno missionario in commistione con il colonialismo è sbagliata, per cui il cristianesimo non diventa mai ‘cinese’; è sempre qualcosa di esterno, che rischia di essere identificato con l’imperialismo occidentale. Quindi da parte della Chiesa è percepita l’urgenza di mettere in atto processi che favoriscano il fiorire di una Chiesa autoctona cinese.

Il Concilium Sinense è voluto dalla Santa Sede ed è affidato al card. Celso Costantini con la prospettiva di porre le condizioni per far fiorire la nascita di una Chiesa cattolica cinese, in modo da liberare la presenza dei cristiani dal sospetto di essere un correlato religioso degli Stati europei con un intento di espansione neocoloniale.

A mio giudizio, quel cammino che è partito dal concilio di Shangai, attraverso vie impreviste e persecuzioni, è in piena continuità con la presenza e la realtà della Chiesa cattolica in Cina attualmente. Essa ha attraversato momenti difficili, ma ora, pur essendo una piccola realtà rispetto alla moltitudine del popolo cinese, è una Chiesa totalmente immersa in quella realtà. Nello stesso tempo è una Chiesa in piena comunione con il vescovo di Roma, riuscendo a vivere tutta l’ampiezza della vita cristiana dentro l’attuale situazione cinese.

Secondo me, ciò è un elemento positivo, perché in una struttura politica come quella della Repubblica popolare cinese c’è una realtà, che sottostando alle regole del vivere civile e politico di quello Stato, riesce a vivere l’essenzialità della presenza cattolica in quel contesto. Quindi testimonia l’errore di prospettiva, che coincide con lo schema ideologico prevalente. A partire dal Concilio di Shangai è avvenuto un cammino, pur faticoso e lento, che ha portato ad una Chiesa, che è pienamente cattolica e pienamente cinese”.

Quindi i rinnovati accordi sino-vaticani vanno in questa direzione?

“Gli accordi sino vaticani non sono certo una risoluzione a tutti i problemi in maniera immediata, ma indicano una prospettiva di lavoro con una progressione di risoluzione dei problemi che hanno accompagnato la cattolicità cinese per decenni e si situano in piena continuità con quell’intuizione profetica che è iniziata con il Concilio del 1924.

Certamente sono accordi che riguardano la Santa Sede ed il governo cinese, ma la loro sorgente profonda attinge a questa percezione reale della vita della cattolicità in Cina. Il criterio con cui si è mossa la Santa Sede, nella totale continuità degli ultimi pontefici, in quanto la prospettiva di un accordo della nomina dei vescovi era già presente nel papato di san Giovanni Paolo II ed anche in papa Benedetto XVI, realizzata con papa Francesco. La linea è questa e il punto di partenza che si vuole tutelare è il bene della comunità cattolica cinese nelle condizioni date”.              

(Tratto da Aci Stampa)

Roberto Mauri: l’oratorio rinasce dal sogno di san Giovanni Bosco

“Ci siamo. E’ giunto il momento di rompere gli indugi e andare oltre gli oratori e i patronati nelle forme pastorali che ci sono familiari. E’ arrivato il tempo di vincere le nostalgie, salutare ‘la terra dei padri’ e procedere con coraggio in una terra pastorale nuova, in gran parte ancora da esplorare ed abitare”: così scrive lo psicologo e psicoterapeuta Roberto Mauri, fondatore del Centro Studi ‘Missione Emmaus’, autore del libro ‘Campo base. L’oratorio che verrà?’, nel quale analizza la sfida che interpella la Chiesa di elaborare nuove forme e modelli pastorali in discontinuità con gli attuali.

Il testo analizza i modelli di oratorio fino ad oggi realizzati ed i fattori della loro irreversibile crisi, per poi prospettare una diversa forma pastorale, un nuovo ‘sogno’ profetico e generativo, come fu a suo tempo quello di san Giovanni Bosco. Attraverso un’analisi lucida ed appassionata, il testo ripercorre la storia dell’oratorio, prendendo in esame i due modelli che hanno caratterizzato la vicenda oratoriana moderna dalle sue origini: il modello ‘oratorio cittadella’, ovvero il tentativo di proporre un’alternativa educativa attraente alla modernità; il modello ‘oratorio carovana’, ovvero l’investimento sulla progettualità e la sinergia rinnovata tra le componenti interne all’oratorio e parrocchiali per favorire un’esperienza integrale di educazione alla fede.

Quindi si tratta di cambiare paradigma, adattandolo ai tempi: “E’ giunto il tempo di ‘non trattenere oltre’ ciò che ha concluso il suo percorso, non ‘indurire il cuore’ pastorale ma cogliere i segni dei tempi. ‘Campo Base’ è un germoglio pastorale da coltivare, da cui avviare percorsi trasformativi, luogo da cui partire verso nuove ascensioni, ed a cui ritornare, per narrare/rsi per nuovamente ripartire”.

Partendo da queste ‘provocazioni’, che scaturiscono dal libro, chiediamo al dott. Roberto Mauri di raccontarci quale ‘oratorio verrà’: “L’oratorio che verrà non sarà un ‘oratorio’, almeno nel modo in cui oggi lo conosciamo. Il cambio d’epoca che la Chiesa sta attraversando ha messo in crisi i quattro pilastri del modello su cui l’oratorio da sempre si reggeva (la figura carismatica del sacerdote, il protagonismo giovanile, il radicamento territoriale e l’identità cristiana condivisa). Oggi ‘l’oratorio è nudo!’, per parafrasare nota fiaba di Andersen, essendo venuto meno il ‘mito’ fondativo oratoriano, al di là delle difese d’ufficio.

L’oratorio che verrà non potrà essere l’ennesimo aggiornamento o restyling del modello tradizionale, come più volte si è cercato di fare. Non si tratta più di ‘ripartire meglio’, si tratta di cambiare paradigma, quei presupposti ‘invisibili’ in quanto dati per scontato. Occorre lo slancio profetico di immaginare nuove forme originali di presenza e di azione pastorale giovanile, capaci di intercettare le sfide della modernità liquida”.

Per quale motivo l’oratorio è un campo base?

“Oggi l’oratorio non è un campo base, ma lo potrebbe diventare accettando di rinascere su altre basi e premesse pastorali, metodologiche e organizzative.  L’oratorio, al pari di altre realtà ecclesiali è una forma pastorale appartenente a un’epoca ormai finita. Il termine ‘campo base’, al contrario, indica l’esigenza di individuare diverse forme pastorali come il già citato cambio d’epoca richiede.

‘Campo Base’ rimanda all’emergere dei cosiddetti ‘terzi luoghi’ pastorali, piccole strutture e spazi di ospitalità e di innovazione molto più flessibili rispetto alle solide tradizionali strutture pastorali cui siamo abituati, realtà leggere più simili ai moderni coworking che all’attuale organizzazionecatechistico-familiar-sportivo che solitamente caratterizzano gli oratori attuali. Un Campo Base si caratterizza per la sua essenzialità, leggerezza, accessibilità, apertura.

Esso nasce dalla volontà di coltivare il desiderio e non dal bisogno di risolvere problemi. ‘Campo Base’ è un modello tras-formativo, fortemente esperienziale, che mira a coniugare fraternità (lo stare insieme) e grandezza (sperimentare imprese condivise): proprio ciò che rende attraente la metafora del Campo Base”.

Quale pastorale oratoriana è necessaria per attrarre i giovani?

“La domanda è mal posta e riflette la classica impostazione centripeta oratoriana: non si tratta di attrarre i giovani, di farli venire in oratorio ma di incontrarli in chiave missionaria: si tratta di creare condizioni per ‘uscire’ e non ‘far entrare’, essere sinceramente attratti dal mondo giovanile e non attrarre.

L’immagine e modello del ‘Campo Base’ rimanda non più una realtà (quella dell’oratorio) scelta e proposta perché solida e rassicurante ma ad un punto di riferimento aperto e flessibile, luogo di partenza per nuove ascensioni e di ritorno per rielaborare le esperienze vissute e favorire nuove tessiture di senso, in una ritrovata unità di corpo, vita, spirito. Un modello che privilegia la valenza trasformativa dell’esperienza, il primato dei processi rispetto ai progetti, l’utilizzo di metafore e situazioni di tipo ‘iniziatico’, per favorire una rilettura critica delle proprie esperienze umane e spirituali per una nuova tessitura di senso”.

In quale modo si può fare sprigionare la creatività dei giovani?

“Rendendoli e facendoli sentire davvero soggetti e non oggetti dell’azione pastorale, valorizzando la loro sete di libertà ed esplorazione. La creatività giovanile scaturisce quando parte dal desiderio di coniugare ricerca di senso e bellezza, nella libertà, attraverso esperienze sfidanti e la loro rinarrazione trasformativa. Vale la regola sinodale del camminare insieme, così da entrare in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza con la consapevolezza che ci sono ancora molte cose di cui non siamo in grado di portare il peso. La creatività dei giovani si sprigiona a partire dall’assumere una postura spirituale di ascolto, dalla consapevolezza di avere molto da imparare per rigenerare attorno a sé fiducia e credibilità”.

E’ ancora attuale per la Chiesa il ‘sogno’di don Bosco?

“Quello che è davvero attuale, addirittura urgente, per la Chiesa, e che rimarrà tale, è la disponibilità e possibilità di sognare profeticamente, come a suo tempo fece don Bosco. Il sogno profetico è uno dei linguaggi preferiti da Dio nella Bibbia, come ben sappiamo. Sappiamo però anche che non si sogna mai due volte la stessa cosa. Oggi don Bosco con ogni probabilità avrebbe altre fertili

intuizioni, diverse dal metodo preventivo e formazione professionale. Il ‘sogno profetico’ di don Bosco raccoglieva la sfida della nascente questione giovanile legata all’affermarsi della modernità industriale ed urbana, mentre oggi la questione giovanile, nella modernità liquida in cui ci troviamo, si pone in termini molto diversi.

Il punto critico tuttavia è un altro, ovvero nel fatto che da tempo gli oratori hanno smesso di sognare: cercano segnali di futuro guardando al loro passato e così facendo accentuano lo scollamento tra azione pastorale e vita reale dei giovani. Parafrasando l’epistemologo Michel Serres, gli oratori brillano di una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da tempo”.

Cosa si propone il Centro Studi ‘Missione Emmaus’?

“Il Centro Studi ‘Missione Emmaus’ opera attraverso un approccio di accompagnamento pastorale che si differenza da una semplice proposta di formazione. Lavorare per processi significa attivare nuovi dinamismi a partire da una visione condivisa e non da semplici bisogni. Ciò si concretizza nell’affiancamento e nel sostegno dei responsabili di una realtà pastorale (parrocchia, comunità pastorale, diocesi, congregazione…) senza sostituirsi ad essi, ma facilitando e sviluppando sinergie che valorizzino le risorse presenti”.

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco: il cristiano nutre speranza nell’attesa della Sua venuta

“Seguo ogni giorno quanto sta avvenendo in Siria, in questo momento così delicato della sua storia. Auspico che si raggiunga una soluzione politica che, senza altri conflitti né divisioni, promuova responsabilmente la stabilità e l’unità del Paese. Prego, per intercessione della Vergine Maria, che il popolo siriano possa vivere in pace e sicurezza nella sua amata terra, e le diverse religioni possano camminare insieme nell’amicizia e nel rispetto reciproco per il bene di quella Nazione, afflitta da tanti anni di guerra…

E penso sempre alla martoriata Ucraina che sta soffrendo tanto di questa guerra. Preghiamo perché si trovi una via di uscita. E penso alla Palestina, a Israele, al Myanmar. Che torni la pace, che ci sia pace! La guerra sempre è una sconfitta. Preghiamo per la pace”: al termine dell’udienza generale papa Francesco ha ricordato e pregato per i conflitti che affliggono i popoli, in particolar modo per la Siria, l’Ucraina, il Medio Oriente ed il Myanmar.

E nella catechesi dedicata allo Spirito Santo il papa ha riflettuto sul tema della speranza del ‘ritorno’ di Cristo: “In quella fase più antica l’invocazione aveva uno sfondo che oggi diremmo escatologico. Esprimeva, infatti, l’ardente attesa del ritorno glorioso del Signore. E tale grido e l’attesa che esso esprime non si sono mai spenti nella Chiesa.

Ancora oggi, nella Messa, subito dopo la consacrazione, essa proclama la morte e la risurrezione del Cristo ‘nell’attesa della sua venuta’. La Chiesa è in attesa della venuta del Signore. Ma questa attesa della venuta ultima di Cristo non è rimasta l’unica e la sola. Ad essa si è unita anche l’attesa della sua venuta continua nella situazione presente e pellegrinante della Chiesa”.

Infatti la Chiesa ‘grida’ la venuta di Gesù: “Esso non è abitualmente rivolto solo a Cristo, ma anche allo Spirito Santo stesso! Colui che grida è ora anche Colui al quale si grida. ‘Vieni!’ è l’invocazione con cui iniziano quasi tutti gli inni e le preghiere della Chiesa rivolti allo Spirito Santo: ‘Vieni, o Spirito creatore’, diciamo nel Veni Creator, e ‘Vieni, Spirito Santo’, ‘Veni Sancte Spiritus’, nella sequenza di Pentecoste; e così in tante altre preghiere.

E’ giusto che sia così, perché, dopo la Risurrezione, lo Spirito Santo è il vero ‘alter ego’ di Cristo, Colui che ne fa le veci, che lo rende presente e operante nella Chiesa. E’ Lui che ‘annuncia le cose future’ e le fa desiderare e attendere. Ecco perché Cristo e lo Spirito sono inseparabili, anche nell’economia della salvezza”.

Ecco che lo Spirito Santo è linfa della speranza cristiana: “Lo Spirito Santo è la sorgente sempre zampillante della speranza cristiana… Se la Chiesa è una barca, lo Spirito Santo è la vela che la spinge e la fa avanzare nel mare della storia, oggi come in passato!”

Quindi la speranza è una certezza: “Speranza non è una parola vuota, o un nostro vago desiderio che le cose vadano per il meglio: la speranza è una certezza, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E per questo si chiama virtù teologale: perché è infusa da Dio e ha Dio per garante. Non è una virtù passiva, che si limita ad attendere che le cose succedano”.

Perciò il cristiano deve portare speranza: “E’ una virtù sommamente attiva che aiuta a farle succedere… Il cristiano non può accontentarsi di avere speranza; deve anche irradiare speranza, essere seminatore di speranza. E’ il dono più bello che la Chiesa può fare all’umanità intera, soprattutto nei momenti in cui tutto sembra spingere ad ammainare le vele”.

Prima dell’udienza generale il papa aveva i membri del Movimento ‘Human Economic Forum’, che stanno svolgendo il loro convegno a Roma sul bene comune: “La ricerca di uno sviluppo umano sostenibile e integrale è decisiva per la salvaguardia e la promozione del bene comune universale.

Per questo è necessario porre la persona umana al centro del nostro interesse e delle nostre attività. Occorre tenere sempre lo sguardo sulle persone concrete, in tutte le loro dimensioni, per combattere la povertà, restituire la dignità agli esclusi e, nello stesso tempo, prendersi cura della casa comune”.

Mentre al termine dell’udienza generale papa Francesco ha incontrato una delegazione della ‘Onlus ResQ – People Saving People’, affermando che la vita è inalienabile: “Voi non guardate da un’altra parte. Alla base di questo atteggiamento c’è la convinzione che ogni essere umano è unico e la sua dignità è inviolabile, qualunque sia la sua nazionalità, il colore della pelle, l’opinione politica o la religione”.

Ed ha elogiato la loro attività: “Ben venga allora l’azione di coloro che non si limitano a osservare le cose, criticando da lontano, ma si mettono in gioco, offrendo un po’ del loro tempo, del loro ingegno e delle loro risorse per alleviare le sofferenze dei migranti, per salvarli, accoglierli e integrarli. Il migrante va accolto, accompagnato, promosso e integrato. Questa generosità, questa operosità è in sintonia con il Vangelo, che invita a fare del bene a tutti e in modo speciale agli ultimi, ai più poveri, ai più abbandonati, ai malati, alle persone in pericolo”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco: nella Chiesa c’è posto per tutti

Questa mattina papa Francesco ha ricevuto i promotori e gli artisti del concerto di oggi pomeriggio in aula ‘Paolo VI’, ringraziandoli di questo ‘bel momento’: “Un concerto è una bella parabola, una parabola dell’armonia, anche dell’armonia sinodale che la Chiesa si sta impegnando a vivere più pienamente. Infatti ogni partitura musicale unisce strumenti e voci differenti, ognuno con la propria parte, col suo timbro, la sua sonorità. Ciascuno nell’orchestra esegue il proprio spartito ma deve armonizzarsi con gli altri, generando così la bellezza della musica”.

Entrando nel merito del concerto il papa ha esortato tutti ad essere partecipi alla partitura: “E in una composizione, i silenzi, gli intervalli, le dissonanze hanno importanza pari alle note stesse. Dio non crea scarti! Ognuno è chiamato ad esprimersi, ad eseguire la propria parte insieme a tutti gli altri”.

Per tale realizzazione è necessaria la presenza: “Per realizzare questa parabola dell’armonia è necessario scegliere di esserci. Non è scontato. Tutti voi avete scelto di esserci, di partecipare a questo evento con persone che hanno bisogno, che ogni giorno fanno fatica ad andare avanti. E questa vostra scelta genera un segno di speranza. E’ ciò che si propone anche il prossimo Giubileo: generare segni di speranza, a partire dalla sorgente dell’amore che è il Cuore di Gesù”.

Quindi la realizzazione di una sinfonia si realizza si concretizza con la collaborazione di tutti: “Senza la collaborazione di tutti non si può realizzare una vera sinfonia. Soltanto da un concerto di persone diverse scaturisce l’armonia che edifica e conforta tutti. Similmente la Chiesa, chiamata ad essere nel mondo segno e strumento di armonia, di comunione e fraternità, deve realizzare nel cuore dell’umanità un meraviglioso e consapevole canto d’amore a Dio e ai fratelli”.

Di seguito ha incontrato una delegazione dei donatori del presepe e dell’albero di Natale, che saranno allestiti in piazza san Pietro: “Colpisce la maestosa solennità dell’albero. Esso, tagliato nel rispetto dei principi ecologici del ricambio naturale del bosco, porta i segni di molti anni, le numerose stratificazioni del tronco massiccio, le vecchie che hanno dato vita alle giovani, le giovani che hanno avvolto e protetto le vecchie, tutte che salgono insieme verso l’alto.

Può essere una bella immagine della Chiesa, popolo e corpo, da cui la luce di Cristo si diffonde nel mondo proprio grazie al succedersi di generazioni di credenti che si stringono attorno all’unica origine, Gesù: le antiche hanno dato vita alle giovani, le giovani abbracciano e proteggono le antiche, in missione nel mondo e in cammino verso il Cielo. Così va avanti il santo Popolo fedele di Dio”.

Parlando del presepe il papa ha notato alcune particolarità: “All’ombra del grande abete, poi, il Presepe riproduce un ‘casone’ della Laguna gradese, una di quelle case di pescatori che venivano costruite con fango e canne e dove gli abitanti delle ‘mote’, le piccole isolette lagunari, condividevano, durante il duro lavoro della pesca, le gioie e i dolori della vita di ogni giorno.

Anche questo simbolo ci parla del Natale, in cui Dio si fa uomo per aver parte fino in fondo alla nostra povertà, venendo a costruire il suo Regno sulla terra non con mezzi potenti, ma attraverso le deboli risorse della nostra umanità, purificate e fortificate dalla sua grazia”.

Un altro segno particolare di questo presepe è la barca: “Circa il Presepe, c’è un altro segno che vorrei evidenziare: i ‘casoni’ sono circondati dall’acqua e per andarci ci vuole la ‘batela’, la tipica imbarcazione a fondo piatto che permette di spostarsi sui fondali bassi. E anche per giungere a Gesù ci vuole una barca: la Chiesa è la barca. Non lo si raggiunge ‘in solitaria’, mai, lo si raggiunge insieme, in comunità, su quel piccolo-grande battello che Pietro continua a guidare e a bordo del quale, stringendosi un po’, c’è sempre posto per tutti. Nella Chiesa sempre c’è posto per tutti”.

Quindi è stato un invito a guardare i presepi realizzati in Terra Santa: “Guardiamo, infine, ai Presepi di Betlemme, costruiti nella Terra dove il Figlio di Dio è nato. Sono diversi tra loro, ma tutti recano lo stesso messaggio di pace e di amore che ci ha lasciato Gesù. Davanti ad essi, ricordiamo i fratelli e le sorelle che, invece, proprio là e in altre parti del mondo, soffrono per il dramma della guerra.

Con le lacrime agli occhi eleviamo la nostra preghiera per la pace. Fratelli e sorelle, basta guerre, basta violenze! Voi sapete che uno degli investimenti che dà più reddito qui è nella fabbrica delle armi? Guadagnare per uccidere. Ma come mai? Basta guerre! Sia pace in tutto il mondo e per tutti gli uomini, che Dio ama!”

Mentre di prima mattina papa Francesco gli ambasciatori di India, Giordania, Danimarca, Lussemburgo, Sao Tomé e Principe, Rwanda, Turkmenistan, Algeria, Bangladesh, Zimbabwe, Kenya: “Il 24 dicembre inaugurerò l’Anno Giubilare della Chiesa 2025 aprendo la Porta Santa della Basilica di San Pietro. Il messaggio principale del Giubileo è proprio quello della speranza.

Mentre la Chiesa si avvia in un pellegrinaggio di rinnovata speranza nel potere di Cristo risorto di fare nuove tutte le cose, incoraggio i membri della Comunità diplomatica accreditata presso la Santa Sede a continuare a lavorare con coraggio e creatività alla promozione di legami di amicizia, cooperazione e dialogo a servizio della pace. La vostra attività, spesso discreta e nascosta, aiuterà a spargere i semi di un futuro di speranza per il nostro mondo stanco della guerra”.

(Foto: Santa Sede)

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