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Padre Nardelli: ripartire dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’

“Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”.
Questo è l’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, ‘Lumen Gentium’, emanata il 21 novembre 1964, che costituisce la ‘chiave di volta’ di tutto il magistero conciliare, come affermò papa san Giovanni Paolo II prima della recita dell’Angelus di domenica 22 ottobre 1995: “Grande merito della ‘Lumen Gentium’ è di averci ricordato con forza che, se si vuol cogliere adeguatamente l’identità della Chiesa, pur senza trascurare gli aspetti istituzionali, occorre partire dal suo mistero. La Chiesa è mistero, perché innestata in Cristo e radicata nella vita trinitaria. Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo, è la ‘luce’ che risplende sul volto della Chiesa”.
A 60 anni dalla pubblicazione con p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università Antonianum di Roma, nonché assistente alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense di Roma, abbiamo cercato di sottolineare i punti di forza di questa Costituzione dogmatica e soprattutto il motivo, per cui papa Francesco ha chiesto un approfondimento sulla ‘Lumen gentium’ in vista del Giubileo:
“In preparazione all’anno giubilare, papa Francesco ha chiesto di dedicare una particolare attenzione alle quattro Costituzioni del Concilio Vaticano II, quale occasione per crescere nella fede. In realtà, come è noto, tale evento è stato realmente un faro per il pensare e l’agire ecclesiale, e quindi non è inopportuno riprendere in mano quegli insegnamenti per applicarli in un contesto che, dopo circa 60 anni, è chiaramente mutato. La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ è stata definita la ‘magna charta’ conciliare e la sua ricchezza teologica è ancora una guida attuale nel contesto ecclesiale sinodale che la Chiesa attraversa, in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno”.
In cosa consiste la ‘luce della Chiesa’?
“Nella Costituzione forte è il riferimento cristologico, in quanto il Cristo è definito la ‘luce delle genti’ che risplende sul volto della Chiesa. In realtà è noto che, secondo l’interpretazione di alcuni, il Concilio Vaticano II intendeva correlare il discorso sulla Chiesa a quello sul Figlio, ma nello stesso tempo non poteva parlare di Cristo senza parlare del Padre, mettendosi in ascolto dello Spirito. Per questa ragione l’ecclesiologia cristologica del Concilio si è necessariamente allargata alla dimensione trinitaria ( LG 2-4). Si può pertanto dire che ogni discorso sulla Chiesa è necessariamente ‘subordinato’ al discorso su Dio e quindi non deve stupire che anche i testi del Concilio, e in particolare la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, propongano una ecclesiologia propriamente teologica”.
Dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ al recente Sinodo dei vescovi: perché la vocazione della Chiesa è profezia?
“La Costituzione ‘Lumen gentium afferma che ‘il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo, quando gli rende una viva testimonianza, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità’ (LG 12). La missione profetica di Cristo è estesa, quindi, a tutti i battezzati secondo le indicazioni della Scrittura (Gl 3,1-5; At 2,17-18). Pertanto la funzione profetica non è più riservata solo ad alcuni, come ‘ufficio di pochi’, ma è un attributo di tutta la comunità dei credenti che, in forza del Battesimo, diventa ‘popolo di profeti’ che annuncia e testimonia il Vangelo”.
Quanto è importante la Chiesa domestica nel tramandare la fede?
“La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ utilizza l’espressione ‘Chiesa domestica’ per esplicitare il modo di esercizio del sacerdozio comune di ogni battezzato e, in particolare, dei coniugi cristiani (cfr. LG 11). L’immagine individua e sottolinea in modo specifico il compito essenziale della famiglia nella Chiesa che è, sempre, quello di ‘custodire’ e ‘trasmettere’ la fede. In questo modo, nell’attuale contesto ecclesiale, infatti, viene ribadita la chiamata per ogni battezzato ad annunciare il Vangelo. La dimensione relazionale, e quindi familiare, chiaramente messa in luce dal Documento finale del Sinodo, è già presente nella Costituzione ecclesiologica e rimanda alla realtà della primitiva comunità cristiana descritta nel libro degli Atti (cfr. At 2,42-47)”.
Per quale motivo la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ sottolinea il carattere missionario della Chiesa?
“L’ecclesiologia della Costituzione dogmatica può essere definita missionaria nelle sue più intime fibre, in quanto le principali categorie che il testo considera in chiave missionaria sono quelle di Popolo di Dio (sacerdotale, profetico e regale), sacramento, popolo messianico e, certamente, di ‘popolo missionario’ (cfr. LG 17). La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, quindi, ha presentato l’indole essenzialmente missionaria della Chiesa a partire, proprio, dal fondamento teologico della sua natura, di cui indica la finalità specifica. Se volessimo sintetizzare la visione missionaria della Costituzione dogmatica, si potrebbe affermare che il documento intende enunciare il fondamento trinitario della missione, la sua manifestazione nelle ‘realtà locali’ attraverso la prassi dell’inculturazione, la destinazione universale del suo messaggio di salvezza e la corresponsabilità di tutto il Popolo di Dio all’azione di evangelizzazione”.
Dopo 60 anni quale è l’attualità di questa Costituzione dogmatica?
“Il testo risulta particolarmente attuale perché richiama alla dimensione comunionale e missionaria che il recente Sinodo ha messo in evidenza, domandandosi ‘come essere Chiesa sinodale-missionaria’. Il valore della Costituzione ecclesiologica è perennemente vivo, in quanto il documento nasceva in un contesto in cui la Chiesa aveva bisogno di riflettere sulla sua identità e, oggi, dopo 60 anni riafferma tale identità missionaria in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno. Riscoprire i contenuti dottrinali e pastorali di questo documento conciliare è particolarmente urgente nell’epoca attuale”.
(Tratto da Aci Stampa)
Marocco: una Chiesa in cammino

Lo spirito del Sinodo ci mette tutti in cammino. La coscienza sempre più viva di far parte di un unico mondo, in particolare nella regione Mediterranea, ancora di più. Siamo ormai vicini di casa, sull’altra sponda. Per questo la Chiesa del Marocco vi invita. Venite in pellegrinaggio da noi!
Da soli, in famiglia o in gruppo, lasciatevi condurre dallo Spirito e dal suo carisma: l’incontro con l’altro. Differente da noi per storia, cultura e religione. È il nostro cammino più difficile, evangelico e sorprendente… La sfida dell’incontro. Della fraternità.
Il monastero sull’altopiano a Midlt dei monaci di Tibhirine e la loro testimonianza – unica al mondo di preghiera, di fraternità e di martirio in terra d’Islam – vi attendono! Il nostro Centro pastorale diocesano “Notre Dame de la Paix” – una vera oasi nel cuore di Rabat – e le tre suore del Mali più che volentieri vi accolgono. Le varie comunità cristiane – per davvero cattoliche, perché di quasi cento nazionalità differenti – vi offriranno la loro testimonianza di servizio fraterno e di universalità.
‘Almowafaqa’, l’Istituto Teologico ecumenico e interreligioso di Rabat, con un corpo docente universitario misto, cioè cattolico, protestante e musulmano – una vera perla, un’autentica originalità di qui –, ha sempre per voi le porte aperte per una visita. La comunità italiana a Casablanca vi vedrà con gioia.
Città antiche e splendide come Fes, Marrakech, Essaouira, El Jadida… e suggestivi villaggi tradizionali, che si mettono in preghiera cinque volte al giorno, vi accoglieranno con entusiasmo: l’ospite qui è sacro.
Il deserto del Sahara vi incanterà per il silenzio, la solitudine, l’assoluto di Dio: vi darà la pace. E vi metterà sui passi di Charles de Foucauld: l’abbandono fiducioso all’Altro e la fraternità verso tutti. In fondo, vi sorprenderà incontrare una Chiesa viva, minoritaria, coraggiosa, a servizio di una società tanto differente in terra d’Islam. Testimone della forza del Vangelo. Ma, soprattutto, dell’amore di Dio per l’umanità che qui vive.
Imparerete il nostro atteggiamento interiore, quasi una regola d’oro: «parlare meno dei migranti, parlare di più con i migranti; parlare meno dei musulmani, parlare di più con i musulmani; parlare meno di Dio, parlare di più con Dio».
Conoscere e incontrare una tradizione, una storia, una fede differenti aiuta a crescere in apertura di mente e di cuore. Indispensabile, oggi, per affrontare le sfide del domani. Conoscere la nostra Chiesa, «sacramento dell’incontro» con l’altro e i suoi valori come la preghiera, la fraternità e l’umiltà, vi trasmetterà un grande dono di Dio: la gioia. Sì, venite e vedete! Vi attendiamo a braccia aperte.
Enzo Romeo: sinodalità e vita camminano insieme

“La sinodalità è come la bicicletta. Solo se si pedala si resta in equilibrio e si fa strada. Se invece si resta fermi, si cade per terra”: è la metafora che Enzo Romeo, vaticanista del Tg2, adotta come filo conduttore del suo libro, ‘Camminare insieme, sinodalità e vita’, in cui cerca di spiegare che cos’è, dal suo punto di vista di giornalista credente, questa modalità di essere Chiesa. Nell’introduzione Enzo Romeo sottolinea che il camminare insieme ‘non è un esercizio facile’: “Soprattutto se ci è richiesto di condividere la strada con coloro che sentiamo estranei, o magari col me stesso che non accetto… Fare sinodo non è stare in un cerchio chiuso, ma esporsi al cambiamento della vita, uscire, andare incontro, accettando che le cose si modifichino per fare spazio all’altro. Sperando alla fine di riscoprire Dio, il grande desaparecido del nostro tempo”.
Ma ciò che più interessa ad Enzo Romeo è mettere in evidenza che la vita di fede, il cammino verso il Regno che la sinodalità richiama, si compie nella vita quotidiana, scegliendo una citazione, tratta dagli scritti di Madeleine Delbrél: “Questa donna, innamorata del Vangelo, assistente sociale che scelse di vivere in un sobborgo operaio di Parigi, affermava che la nostra vita, se ci affidiamo alla forza divina ‘la vedremo splendere mentre camminiamo per la strada, mentre accudiamo al nostro lavoro, sbucciamo i legumi, attendiamo una telefonata, spazziamo i pavimenti; la vedremo splendere tra due frasi del nostro prossimo, tra due lettere da scrivere, quando ci svegliamo e quando ci addormentiamo’… L’importante è non restare fermi”.
Allora, perché è necessario camminare insieme?
“Perché nessun uomo è un’isola, come diceva John Donne. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, che piaccia o no. Tanto più nell’era della globalizzazione e delle interconnessioni. Il cristianesimo e la Chiesa danno, inoltre, un valore morale a questa dinamica: la presenza di Dio passa attraverso i miei fratelli e le mie sorelle, quindi non si può che procedere insieme sul cammino della Salvezza”.
Quale rapporto esiste tra vita e sinodalità?
“Se sinodalità significa camminare insieme, la declinazione di questo verbo (camminare) è innanzi tutto esistenziale. Va bene la riflessione teorica, gli ‘instrumenta laboris’, il confronto sinodale e via dicendo. Ma poi tutto va sperimentato. Il credente deve provare nel concreto ciò che significa sinodalità, per gustarne la bellezza oltre che la complessità”.
In quale modo fare sinodo nella vita quotidiana?
“Per cominciare bisogna, secondo me, cominciare dal proprio io interiore. Spesso facciamo fatica a camminare con noi stessi perché non ci accettiamo o perché non abbiamo messo bene a fuoco chi siamo, cosa vogliamo, quale è il nostro ruolo e quale senso dare alla nostra vita. Poi il cerchio si allarga: la famiglia, la comunità dei credenti (parrocchia, gruppi, associazioni…). Anche in questo ambito siamo chiamati a uno sforzo di accettazione, perché è facile camminare insieme a chi ci sta simpatico o a chi stimiamo, ma la sinodalità non la si realizza con i circoli chiusi o con le lobbies.
Ciò che ci viene chiesto è di camminare con tutti, con coloro che la Provvidenza ci pone a fianco e che magari sono le persone che non ci stanno a genio, quelle con le quali abbiamo avuto uno screzio, che sentiamo lontane o perfino nemiche. Se facciamo questi passi, allora potremo arrivare al pieno senso universale e quindi “cattolico” della sinodalità”.
Quale sfida attende i cattolici?
“Quella di ridare cittadinanza a Dio, che provocatoriamente nel libro chiamo ‘il grande desaparecido del nostro tempo’. Ovviamente Dio, che è l’Eterno, non sparisce mai e mai si stanca di aspettarci, come dice papa Francesco. Siamo noi che abbiamo provato a eliminarlo come facevano le dittature latinoamericane coi dissidenti, caricandoli su un aereo e lanciandoli nell’oceano. Ma Dio non può morire. Più siamo schiacciati dalla materialità delle cose, in questa società edonistica del mordi e fuggi e dell’usa e getta, più cresce dentro di noi la nostalgia dell’Assoluto, invisibile ma potente. La sfida è dunque questa: il ritorno della rilevanza divina nella vita delle donne e degli uomini di oggi”.
Quindi anche Dio è sinodale?
“Sì, possiamo dire così. Siamo monoteisti, ma il nostro è un Dio trinitario, non solitario. Dio ha un Figlio, Gesù, che si fa uomo e che comunica ininterrottamente col Padre per mezzo di una terza persona, lo Spirito Santo, capace di soffiare dove vuole. Per me non c’è esempio più grande di sinodalità”.
Quali antenne sono necessarie per comprendere il mondo?
“Nell’era del progresso scientifico e dell’intelligenza artificiale siamo portati a ritenere che tutto dipenda dai mezzi tecnici a nostra disposizione. Ma non è così. Se emettiamo note stonate non basteranno i più moderni strumenti a rimediare alla nostra cacofonia. Se invece abbiamo una buona novella da annunciare, allora basteranno le antenne del cuore per metterci in perfetta sintonia con gli altri. Come scrivo, se apriamo lo sguardo al cielo diverremo noi stessi delle antenne paraboliche e il nostro segnale sarà captato su qualunque frequenza d’onda”.
Da Gorizia: la speranza è motivo di vita

“In realtà, lo sappiamo tutti, il proverbio dice il contrario: ‘Finché c’è vita, c’è speranza’. Si tratta di uno dei molti proverbi dedicati alla speranza che, per altro, è presente anche nella Bibbia: ‘finché si resta uniti alla società dei viventi, c’è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto’, afferma il saggio Qoélet. Come non ricordare tra i tanti, per esempio, un altro detto popolare che collega vita a speranza: ‘la speranza è l’ultima a morire’. Interessante la relazione che la cultura diffusa presenta tra vita e speranza (non si parla anche di ‘speranza di vita’?), una relazione che esprime una caratteristica fondamentale dell’essere umano: può vivere solo se esiste un motivo… per vivere. Un motivo che più che una causa è uno scopo, una meta. Se manca, è difficile vivere”.
E’ l’inizio della lettera pastorale, ‘Finché c’è speranza, c’è vita’, che l’arcivescovo di Gorizia, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, ha scritto ai fedeli in preparazione del giubileo in un anno in cui Gorizia e Nova Gorica sono capitale europea della cultura: “Anche nella società italiana ci sono molte persone che si impegnano per gli altri, c’è una diffusa solidarietà, una forte azione del volontariato, un impegno educativo anche in situazioni difficili, una maturazione del senso di dignità di tutti. Non mancano giovani che si impegnano, che studiano, che hanno progetti positivi di vita.
Le stesse comunità cristiane sono vive, hanno ancora persone che si danno da fare per gli altri, ci sono ancora giovani che vedono la vita come vocazione. Nelle due lettere pastorali degli ultimi due anni, dove il tema della speranza è stato rilevante, ho cercato di ricordare molti segni di speranza a partire da quelli che ho potuto constatare direttamente nelle nostre unità pastorali in occasione della breve visita pastorale di due anni fa. Diverse realtà positive sono state elencate anche negli incontri di decanato già citati. Non tutto è nero, quindi. Neppure qui da noi”.
E la speranza non può essere disgiunta dalla Chiesa: “Forse non ci si pensa, ma Chiesa e speranza sono realtà intrecciate anche nel loro destino: la Chiesa finirà quando cesserà la speranza perché ci sarà la realtà del Regno di Dio. Il Regno di Dio dove non sarà più necessaria la fede e neppure la speranza, ma ci sarà solo la carità, la pienezza dell’amore perché Dio “sarà tutto in tutti” (1Cor 15, 28)”.
Inoltre propone alcune ragioni riguardo al battesimo:“Mi limito a richiamare quale sia il motivo per cui proporre il Battesimo dei bambini e a suggerire l’avvio di un itinerario di tipo catecumenale. Ho scritto volutamente ‘proporre’ perché oggi non basta attendere la richiesta del Battesimo da parte dei genitori, ma occorre avere il coraggio di proporlo a chi è diventato papà o mamma. Una proposta che spetta non tanto ai sacerdoti, ma a chi, credente, è in relazione sincera e cordiale con i genitori: i nonni, gli amici, i vicini di casa, i colleghi di lavoro”.
Ecco il motivo per cui il battesimo è una proposta di speranza: “La prima è stata già citata: l’esistenza o la creazione di una relazione vera e umanamente empatica con i genitori. Non si può proporre per così dire ‘a freddo’ il Battesimo di un bimbo o di una bimba da poco venuto o venuta al mondo. All’interno di una relazione calda e accogliente, si può trovare il momento giusto per parlare del Battesimo e magari per favorire il contatto con il parroco e la comunità parrocchiale.
Ma ciò esige una seconda condizione: che si sia convinti che l’essere cristiani è un tesoro prezioso che non si può tenere per sé. La terza condizione è quella di saper motivare l’importanza del Battesimo. Anche sapendo rispondere alle solite obiezioni: non c’è tempo, è difficile trovare il padrino o la madrina, la festa costa troppo, è meglio che scelga lui o lei da grande… Ma soprattutto proponendo il Battesimo come segno di speranza per il bambino o la bambina: che cosa c’è di meglio per il suo futuro che essere figlio/figlia di Dio, essere per tutta la vita nelle mani di un Padre buono”.
Ed infine uno sguardo al 2025: “Nel 2025 Nova Gorica e Gorizia saranno insieme ‘capitale europea della cultura’. Un fatto particolarmente significativo perché la prima volta si avrà una capitale europea della cultura a cavallo di un confine. Un confine particolare: tracciato un po’ a caso dopo la Seconda guerra mondiale, in un territorio gravemente ferito da due guerre mondiali, in una regione che da secoli vede la compresenza di più culture e di più lingue. Si tratta di qualcosa di straordinario che interpella la nostra comunità diocesana e non solo le comunità cristiane di Gorizia e Nova Gorica. A noi tocca in particolare richiamare alcuni valori e proporre alcune iniziative rivolte a chi abita a Gorizia e dintorni e anche a chi passerà da noi il prossimo anno, magari facendo sosta a Gorizia nel suo cammino verso Roma in occasione del Giubileo”.
Un’Europa che ha bisogno di valori: “Tra i valori da proporre ci sono anzitutto quelli che stanno o dovrebbero stare alla base dell’Europa. In questo senso, già alcuni anni fa, ho proposto di capovolgere i termini e chiamare Nova Gorica e Gorizia ‘capitale della cultura europea’. I valori sono quelli della libertà, della pace, della riconciliazione, del dialogo, della dignità delle persone e così via. Insomma, i valori che soli possono dare una prospettiva di speranza all’Europa. Valori che sono costati sangue e sono maturati in Europa dopo grandi tragedie che il nostro territorio ha vissuto in prima persona.
Nel nostro piccolo, con le poche risorse che abbiamo, cercheremo di riproporre questi valori in particolare ai giovani, ma anche a tutti coloro che verranno qui da noi, in particolare con alcuni incontri, alcune pubblicazioni, alcune mostre, ma soprattutto con la proposta di ‘cammini’ e di incontri significativi. Non mancheranno anche alcune specifiche iniziative di carattere religioso”.
Ed ha concluso la lettera con un richiamo al ‘Portico del mistero della seconda virtù’ di Charles Péguy: “La speranza, quella piccola ma fondamentale virtù cristiana, sarà allora la nostra guida durante quest’anno. Se è riposta in Dio, non saremo certo delusi”.
(Foto: Arcidiocesi di Gorizia)
Lorenzo Zardi: narrare le esperienze della cultura del ‘noi’

“Siamo qui per rinnovare la nostra fedeltà al Vangelo in questo cambiamento di epoca che ci chiede una creativa e lungimirante lettura dei segni dei tempi… I punti di riferimento essenziali per l’Ac si riscontrano nel magistero della Chiesa, nella storia e nell’oggi associativo, nella rinnovata capacità di ‘leggere i segni dei tempi’. Consapevoli che il momento storico presente mostra elementi di forte complessità. Quando pensiamo alla pace, alla democrazia, allo sviluppo integrale della persona e alla cura della casa comune, ai diritti umani e alle disuguaglianze: abbiamo però innanzi, allo stesso tempo, un periodo favorevole a costruire nuovi cammini di fede e nuovi percorsi di santità popolare”: così il presidente nazionale Ac, Giuseppe Notarstefano, ha chiuso i lavori del Convegno dei presidenti e assistenti unitari diocesani e delle delegazioni regionali di Azione Cattolica Italiana svoltosi nel penultimo fine settimana di ottobre a Sacrofano, vicino Roma.
A questo invito alla lettura dei ‘segni dei tempi’ ha risposto con convinzione il vicepresidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Lorenzo Sardi, che ha ribadito l’impegno dei giovani nella custodia della vita democratica: “Vogliamo impegnarci a custodire la democrazia nella bellezza di un confronto paziente e a promuovere la partecipazione in ogni sua forma. Come Azione Cattolica siamo convinti della bellezza che può nascere dal contribuire a realizzare un Paese che vive nelle braccia aperte del confronto e dell’approfondimento, della discussione e della ricerca comune del bene.
Ci impegniamo a custodire la democrazia perché siamo profondamente convinti che il bene comune non sia altro che la ricerca comune del bene e che l’esperienza della democrazia, che noi sperimentiamo ed esercitiamo in associazione, scoprendone la fatica e la bellezza fin da adolescenti, insegna costantemente che non è vero che nessuno è indispensabile. Semmai è vero il contrario: tutti siamo indispensabili ma nessuno è la soluzione”.
In quale modo è possibile vivere da protagonisti nella complessità di questo tempo?
“Non con ricette preconfezionate, ma nella disponibilità a un cambio di rotta che parta dall’ascolto della vita e dalla fedeltà al Vangelo… Farsi coinvolgere vuol dire sicuramente farsi cambiare. E cambiare non è snaturare, ma servire meglio. Il nostro compito, come diceva Bachelet, è aiutare tutti i giovani ‘ad amare Dio e ad amare i fratelli’ mettendo al centro l’ascolto della vita. Farsi prossimi significa assumersi la responsabilità di non lasciare soli i giovani nel cammino verso il diventare adulti”.
Quali conseguenze ha la parola ‘noi’ nella società?
“In questo tempo su questa parola c’è bisogno di un investimento, che non significa porlo in contrapposizione con la parola ‘io’. Investire sul ‘noi’ significa, da un lato, dedicarsi ad un tempo di riflessione personale ed all’approfondimento culturale, sapendo fare un passo indietro nel confronto con la comunità. Tenendo insieme l’approfondimento culturale ed il confronto comunitario si può costruire una società, che vada oltre le polarizzazioni e riesca a riconoscere che la costruzione del bene comune è la ricerca comune del bene”.
Quali implicazioni ha nella cultura e nella fede questo pronome di prima persona plurale?
“Sempre più abbiamo bisogno di vivere esperienze comunitarie di fede, nelle quali possiamo condividere non solo dubbi ma anche esperienze di festa. Il cammino di fede non è un cammino per solitari, ma è sempre un cammino condiviso, che passa attraverso il convertirsi tramite le persone che ci pone accanto. Quindi in una società sempre più liberalista è liberante che nessuno ha verità ‘in tasca’ per risolvere i problemi del nostro tempo ed occorre, da un lato, l’approfondimento personale ed un riposo ‘contemplativo’; dall’altro, occorre far risuonare il riposo ‘contemplativo’ nella cassa di risonanza della comunità, che aiuta a trovare le armonie giuste attraverso suoni differenti, in modo da rendere il ‘mosaico’ della società interessante”.
Oggi la parola ‘comunità’ è stata sostituita dalla parola ‘comunity’: in quale modo è possibile non confondere il significato delle due parole?
“Abbiamo bisogno di comunità incarnate e non solo quelle digitali, oppure comunità all’interno delle quali abbiamo un solo pensiero. Questa è la comunity, un gruppo di persone tra uguali. La comunità, invece, permette l’ascolto delle voci differenti ed è fatta di volti e di relazioni”.
L’Azione Cattolica Italiana ha capacità di narrare la comunità?
“L’Azione Cattolica Italiana è una grande palestra di comunità, all’interno della quale si trova tante esperienze differenti e tanti cammini diversi, ma condivisi. Da sempre l’Azione Cattolica Italiana è attraente. Tutti dobbiamo crescere nella capacità di narrare meglio la bellezza di vivere in comunità. Nello stesso tempo ognuno di noi è nella comunità cristiana, perché ha incontrato una narrazione bella ed entusiasmante della comunità. Quindi l’Azione Cattolica ha la capacità di narrare”.
(Foto: Azione Cattolica Italiana)
La facoltà teologica del Triveneto in Thailandia: quando la teologia incontra i popoli

Mattia Vicentini, 31 anni, docente all’Istituto superiore di Scienze religiose di Bolzano, è stato per due mesi visiting professor al Saengtham College University di Bangkok, nell’ambito del protocollo di scambio attivo tra la Facoltà del Triveneto e la realtà accademica thailandese.
Il prof. Mattia Vicentini, un dottorato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana e da quattro anni docente all’Istituto superiore di Scienze religiose di Bolzano, è stato per due mesi visiting professor al Saengtham College University di Bangkok, nell’ambito del protocollo di scambio attivo fra la Facoltà teologica del Triveneto e la realtà accademica thailandese:
“Dall’Italia a Bangkok sono dodici ore di volo che significano entrare in un mondo diverso, in cui la fede ha una dimensione pubblica fortemente radicata ed è attenta a rispondere alle domande della vita quotidiana”, racconta il docente.
In un Paese in cui il 90% della popolazione abbraccia la religione buddhista e i cattolici sono solo lo 0,5%, la chiesa ricopre all’interno della società un ruolo importante e riconosciuto nell’ambito dell’istruzione. Per questo Saengtham College University (120 studenti, in prevalenza seminaristi) punta alla formazione integrale degli studenti, fornendo le competenze per confrontarsi con il tessuto sociale locale e per dialogare con le altre fedi religiose presenti sul territorio.
La permanenza in Thailandia per l’insegnamento ha dato modo al prof. Mattia Vicentini di conoscere la realtà ecclesiale e sociale che fa da contesto alla formazione teologica. Sul sito della Facoltà teologica del Triveneto (link alla pagina: https://www.fttr.it/triveneto-thailandia-quando-la-teologia-incontra-i-popoli/) è pubblicata un’ampia intervista, che può essere ripresa del tutto o in parte citando la fonte. Ne riportiamo di seguito alcuni passaggi.
Durante la sua permanenza in Thailandia quale realtà di chiesa ha incontrato?
“Mi sono trovato di fronte a una chiesa piccola, di minoranza, ma ricca di energie e di voglia di vivere il messaggio evangelico all’interno del tessuto sociale in cui è inserita. La prima cosa che si nota nelle celebrazioni liturgiche è il numero di persone giovani che vi partecipano; la seconda è l’alto numero dei partecipanti. Una particolare attenzione viene dedicata a vivere la fede cristiana a partire dalla propria identità e all’interno delle peculiarità della società thailandese. Tra le varie iniziative c’è l’elaborazione di forme di meditazione che sono un punto di incontro tra la spiritualità europea (Maria Teresa d’Avila, ad esempio) e quella orientale. E’ una chiesa che accoglie e vive il compito di essere in uscita e che soffre anche varie forme di povertà”.
Quale ruolo hanno laici e laiche?
“Hanno un ruolo importante, che si comprende a partire dalla conformazione territoriale della chiesa locale. La maggior parte dei credenti si trova nelle zone a nord del paese, che sono le meno sviluppate e urbanizzate. I paesi sono solitamente molto piccoli, possono essere composti anche solo da poche case, difficili e lontani da raggiungere. Il parroco molto spesso ha numerose parrocchie e non riesce a recarsi in ciascuna tutte le settimane. Per questo motivo è stata pensata la figura del catechista”.
Quale compito è assegnato al catechista?
“A differenza dell’Europa, il catechista non è dedito solamente alla formazione religiosa dei bambini, ma diventa una figura importante all’interno della comunità e si occupa di ciò che concerne la vita spirituale, in accordo e in contatto con il parroco. La formazione dei catechisti e delle catechiste viene fatta in scuole apposite, dura tre anni e ha lo scopo di sviluppare conoscenze e competenze sia a livello teologico-religioso che sociale”.
Quindi essere una realtà di minoranza nel proprio Paese non impedisce alla chiesa cattolica Thailandese di aprirsi alla realtà internazionale, grazie anche al lavoro dei missionari?
“Esattamente, proprio perché chiesa di minoranza è sensibile a intessere relazioni con l’esterno a più livelli, dall’insegnamento alla pastorale, passando anche per accordi internazionali con altre chiese e cercando di aiutare comunità ecclesiali maggiormente in difficoltà, come ad esempio quella birmana. Un contributo importante viene offerto certamente dai missionari. Da un lato, la chiesa thailandese sta formando oggi i suoi missionari, che si trovano già in numerosi paesi del sud est asiatico e, dall’altro, accoglie missionari dall’Europa. Un ruolo importante è stato ricoperto ed è occupato ancora oggi dai missionari del Triveneto, che vivono e operano soprattutto nel nord del paese, al confine con il Laos e la Birmania”.
Quale è stato, e qual è, nello specifico, il ruolo dei missionari inviati da oltre 20 anni dalle chiese del Triveneto?
“I primi missionari provenienti dal Triveneto hanno inteso la loro missione nella forma di un annuncio del Vangelo, anche attento ai bisogni e alle difficoltà delle comunità che hanno incontrato. Un esempio sono i numerosi orfanotrofi che hanno aperto. Se gli orfanotrofi sono la presenza più visibile nel territorio, le realtà in cui i missionari sono intervenuti per aiutare la popolazione sono però molteplici. Un altro esempio sono le banche del riso e di altri alimenti; si tratta di riserve condivise da più paesi, in cui il riso in eccesso alle singole comunità viene offerto per quelle che invece hanno perso i raccolti”.
Nel contesto sociale che ha potuto toccare con mano, c’è qualche situazione che l’ha particolarmente colpita?
“Sono stato nella zona di Chiang Rai, al confine con il Laos e la Birmania. È una realtà particolarmente complessa, che vive un importante fenomeno migratorio di persone che da entrambi i paesi superano il confine con la Thailandia a causa di persecuzioni religiose e politiche, oltre che per situazioni di povertà. Un servizio importante in questo tessuto ecclesiale è svolto dagli orfanotrofi, dove trovano una casa e la possibilità di studiare molti bambini e bambine che vivono in situazioni familiari complesse o sono senza una famiglia. Le comunità nel nord del paese sono piccole realtà locali dove le persone conducono una vita semplice, fatta di agricoltura ed economia di sussistenza. Qui semplicità è la parola d’ordine e il Vangelo ricopre un ruolo centrale nella vita delle persone”.
(Tratto da Facoltà Teologica del Triveneto)
Acutis e Frassati santi nel 2025

“L’anno prossimo, durante la Giornata degli adolescenti, canonizzerò il beato Carlo Acutis, e nella Giornata dei giovani canonizzerò il beato Piergiorgio Frassati”, ha affermato papa Francesco nei saluti ai fedeli italiani nell’udienza generale di mercoledì scorso. E nel calendario dell’Anno Santo il Giubileo degli adolescenti è programmato da venerdì 25 a domenica 27 aprile; mentre il Giubileo dei giovani da lunedì 28 luglio a domenica 3 agosto.
Ed ha poi continuato dando appuntamento ai bambin nel prossimo febbraio: “In occasione della Giornata Internazionale dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, che si celebra oggi, desidero annunciare che il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l’incontro Mondiale dei diritti dei bambini intitolato ‘Amiamoli e proteggiamoli’ con la partecipazione di esperti, di personalità di diversi Paesi. Sarà l’occasione per individuare nuove vie volte a soccorrere e proteggere milioni di bambini ancora senza diritti, che vivono in condizioni precarie, vengono sfruttati e abusati e subiscono le conseguenze drammatiche delle guerre”.
A tal proposito il vescovo delle diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino e di Foligno, mons. Domenico Sorrentino, ha sottolineato che la data di canonizzazione del beato Carlo Acutis, sarà domenica 27 aprile: “Assisi esulta per questa importante notizia che ci consente di avviarci al giorno della canonizzazione del beato Carlo Acutis con tutto l’entusiasmo e la buona preparazione necessaria. Abbiamo già in programma alcuni momenti significativi di approfondimento, riflessione e coordinamento che ci vedranno impegnati in città, in tutta la diocesi, nella diocesi sorella di Foligno e nelle diocesi umbre”.
Ed ha descritto il momento di ‘grazia’, che sta vivendo la Chiesa: “Sento questo momento come una grazia per la nostra Chiesa, la Chiesa italiana e del mondo intero. La Chiesa e specialmente i giovani sentono Carlo come un raggio di luce, come lo sono stati Francesco e Chiara sulle cui orme egli è venuto a santificarsi e ora riposa. E’ stato davvero originale non fotocopia, ha voluto conformarsi pienamente a Gesù, ha voluto essere un sorriso di Dio e una calamita di santità per i giovani. Condividono la nostra gioia il papà Andrea, la mamma Antonia, la sorella Francesca e il fratello Michele. E’ bello che Carlo ci indichi la strada della famiglia come strada di santità. Ringraziamo Papa Francesco e ci prepariamo con gioia a questo momento”.
Anche dalla città natale di Carlo Acutis l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha evidenziato che egli è un santo della ‘porta accanto’: “La nostra terra è terra di santi. Ci sono i santi della porta accanto, quelli dei quali nessuno scrive la vita o per i quali nessuno costruisce altari. Sono la moltitudine che nessuno può contare e che quotidianamente, senza imprese degne di nota, silenziosamente tiene in piedi il mondo.
Ci sono i beati che hanno vissuto nei nostri paesi e che la Chiesa ha riconosciuto come vite esemplari, che meritano di essere conosciute perché possano essere imitate. Ci sono i santi che hanno vissuto tra noi ma che sono di tutti, che la Chiesa propone a tutti perché tutti li preghino con fiducia, ne ascoltino le parole, ne conoscano le opere”.
La canonizzazione di Carlo Acutis è un invito alla santità: “Posto sugli altari, potrà continuare a dire quanto ha detto in questi anni con la sua straordinaria popolarità. Ha detto – infatti – che tutti siamo chiamati alla santità: non solo i poveri, ma anche i ricchi, non solo le personalità straordinarie, ma anche le persone qualsiasi, non solo i fondatori di ordini religiosi, ma anche gli ammiratori dei consacrati e delle consacrate, non solo i sani, ma anche i malati, non solo gli adulti, ma anche gli adolescenti.
Il messaggio è quindi rivolto in modo particolare agli adolescenti: forse lo ascolteranno e saranno chiamati fuori di casa, fuori dalle loro tristezze, dai loro complessi, dalla loro rabbia, dalla loro inconcludenza. Forse ascolteranno la voce che viene dal cielo per loro e troveranno la gioia di vivere, il coraggio di amare, la fortezza nel soffrire. Troveranno forse la via della santità giovane, seguendo la pista percorsa da san Carlo Acutis”.
Anche l’Azione Cattolica Italiana è in festa per la canonizzazione del beato Pier Giorgio Frassati, che avviene a 100 anni dalla sua morte: “Una gioia e una gratitudine condivisa con le altre realtà ecclesiali presenti come l’Azione cattolica nel comitato di canonizzazione e parimenti con tutta la Chiesa.
La santità di questo giovane di Azione cattolica (a un secolo dalla morte, avvenuta a Torino il 4 luglio 1925) ancora oggi scalda i cuori e motiva i giovani a mettere al centro della loro vita l’amore di Dio e un servizio generoso e appassionato per il prossimo. La sua regola di vita, ‘lasciarsi coinvolgere’, è un monito contro l’indifferenza e l’isolamento, l’invito a sperimentare l’apertura del cuore da lui incarnata, uno spiraglio prezioso per entrare veramente in contatto con le persone e la realtà intorno a noi”.
La vita del beato Frassati è un esempio di impegno per la socialità nella città: “Specialmente per i più giovani, che quotidianamente si misurano con le tante insicurezze che minacciano la loro capacità di sognare il futuro, nell’opacità del disinteresse per il bene comune, nell’apatia che ogni tanto travolge le esistenze, il beato Pier Giorgio Frassati è esempio di persona che costruendo la sua vita sulla libertà ha saputo dimostrare che in poco tempo si possono raggiungere mete alte.
Come le vette delle montagne che amava scalare, la santità non è una vetta irraggiungibile; non un sentiero per pochi, ma un sentiero che ognuno può percorrere con i mezzi del quotidiano, di una vita normale ma ancorata a ideali alti”.
Tale notizia è uno stimolo in più per vivere l’Anno Santo: “Con il beato Pier Giorgio Frassati nel cuore, i ragazzi, i giovani e gli adulti di Azione cattolica si preparano a vivere in pienezza l’anno giubilare che si sta per aprire. Con la certezza di avere accanto un compagno di strada speciale, e con lui la numerosa schiera di santi, beati, venerabili e servi di Dio di Ac, donne e uomini di ogni età, laici e sacerdoti, testimoni ieri e oggi di un’Azione cattolica scuola di santità”.
Mentre l’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole, ha ringraziato il papa per questo ‘regalo’ giubilare: “L’annuncio della canonizzazione del giovane Pier Giorgio Frassati è il più bel regalo che il papa poteva fare a Torino in vista del Giubileo della Speranza, che si apre fra poche settimane. Frassati è stato un grande testimone della Speranza cristiana:
aveva fiducia nella presenza viva e fedele di Cristo fra gli uomini. Era un giovane normale, studiava, amava lo sport, la montagna, ma aveva scoperto Dio e lo cercava nella preghiera quotidiana e in un esercizio instancabile della carità, soprattutto nei confronti dei poveri. Contagiò gli amici con il suo straordinario entusiasmo e lungo tutto il Novecento ha continuato a contagiare generazioni di giovani in tutto il mondo, fino ad oggi. Sarà proclamato Santo, questo è un giorno di grande festa per la Chiesa torinese e per tutta Torino”.
Papa Francesco invita a studiare la storia per riscoprire i martiri

“Sono ben consapevole che, nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio, viene destinata una buona attenzione allo studio della storia della Chiesa, così come è giusto che sia. Ciò che vorrei sottolineare ora va piuttosto nella direzione di un invito a promuovere, nei giovani studenti di teologia, una reale sensibilità storica. Con quest’ultima espressione voglio indicare non solo la conoscenza approfondita e puntuale dei momenti più importanti dei venti secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle, ma anche e soprattutto il sorgere di una chiara familiarità con la dimensione storica propria dell’essere umano. Nessuno può conoscere veramente chi è e che cosa intende essere domani senza nutrire il legame che lo connette con le generazioni che lo precedono. E questo vale non solo a livello di vicenda dei singoli, ma anche ad un livello più ampio di comunità”.
Lo ha scritto papa Francesco nella lettera sul ‘Rinnovamento dello studio della storia della Chiesa’, in continuità con la lettera sulla importanza della letteratura nella formazione dello scorso agosto, sottolineando che “una corretta sensibilità storica aiuta ciascuno di noi ad avere un senso delle proporzioni, un senso di misura e una capacità di comprensione della realtà senza pericolose e disincarnate astrazioni, per come essa è e non per come la si immagina o si vorrebbe che fosse. Si riesce così ad intessere un rapporto con la realtà che convoca alla responsabilità etica, alla condivisione, alla solidarietà”.
Infatti nella presentazione di ieri il card. Lazzaro You Heung-sik, prefetto del dicastero per il Clero, ha sottolineato l’importanza della lettera: “Ho iniziato questo mio breve intervento dicendo che con questa Lettera il Santo Padre prosegue un discorso di formazione sacerdotale, cristiana e umana che va verso una piena consapevolezza dell’essere sacerdoti, cristiani, esseri umani che cercano di comprendere e di comprendersi nel portare avanti il piano di Dio”.
Ed ha sottolineato tre caratteristiche fondamentali della fede cristiana: “La prima: Dio entra in punta di piedi nella storia dell’umanità e dei singoli per innestarci nella Sua storia salvifica. La seconda, conseguenza della prima, comporta la necessità di conseguire una ‘dimensione storica dell’essere umano’ attraverso ‘una reale sensibilità storica’ che deve portare ad una ‘Chiesa che riconosce se stessa anche nei suoi momenti più oscuri’, che ‘diventa capace di comprendere le macchie e le ferite del mondo in cui vive, e se cercherà di sanarlo e di farlo crescere, lo farà nello stesso modo in cui tenta di sanare e far crescere se stessa’…
Terza caratteristica: il Dio di Gesù Cristo che entra nella nostra storia come Persona, che parla, vive, agisce, piange, sorride, accarezza, si adira. Costruisce cioè storia con noi per portarci ad un livello di comunione e consapevolezza con Lui, affinché ritroviamo noi stessi come figli suoi che hanno i suoi tratti, fatti ‘a sua immagine e somiglianza’ (Gen. 1,26), secondo la sua essenza che è comunione. Dio stesso è maestro di Storia, oltre che Signore delle nostre storie”.
Mentre il segretario dello stesso dicastero, mons. Andrés Gabriel Ferrada Moreira, ha sottolineato la cura del papa per la formazione dei giovani: “Il Santo Padre ha particolarmente a cuore alcune attuali debolezze e limiti nella formazione dei giovani, particolarmente nei percorsi formativi agli Ordini ministeriali nei Seminari e nelle altre Case di formazione, dove si tende a considerare di meno la memoria del passato, la ricerca della verità e l’appartenenza a una cultura che si esprime attraverso molti modi, di cui l’arte letteraria è uno dei privilegiati. Tra l’altro, la superficialità delle letture e dello studio e il fascino compulsivo dell’immediato offerto da uno schermo, non poche volte, lascia prendere il sopravvento a banalità e fake news”.
Infine il prof. Andrea Riccardi, presidente della ‘Società Dante Alighieri’, ha sottolineato la continuità con il Concilio Vaticano II: “In linea con il Concilio, papa Francesco chiede di maturare una ‘reale sensibilità storica’. Non una difesa trionfalista. Non una storia ideologica, né manipolatrice degli eventi (i conflitti talvolta si giustificano con ricostruzioni tendenziose della storia). Per il papa bisogna conoscere la storia, ma avere una mentalità storica nel vivere il presente e nella Chiesa: ‘Senza memoria non si va mai avanti’, dice”.
Tale Lettera è un collegamento con la memoria dei martiri: “Del resto, il recupero della memoria dei martiri del Novecento, voluto da Giovanni Paolo II per il Grande Giubileo, ha salvato dall’oblio questi ultimi sepolti dalla violenza. Ne è emersa dal recupero della memoria una Chiesa di martiri. La storia libera e restituisce alla realtà. Ha fatto emergere storicamente l’autocoscienza della Chiesa dei martiri. Francesco ha voluto una nuova commissione per i martiri del XXI secolo. La storia della Chiesa non è solo di papi o grandi personaggi, ma anche storia degli umili, della loro preghiera, della carità, della pietà popolare. Abbiamo già una grande storiografia in proposito”.
Ed infatti nella conclusione della lettera il papa ha chiesto di studiare la storia per recuperare l’esperienza martiriale della Chiesa: “In quest’ultima osservazione, desidero ricordare che la storia della Chiesa può aiutare a recuperare tutta l’esperienza del martirio, nella consapevolezza che non c’è storia della Chiesa senza martirio e che mai si dovrebbe perdere questa preziosa memoria. Anche nella storia delle sue sofferenze ‘la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano’. Proprio lì dove la Chiesa non ha trionfato agli occhi del mondo, è quando ha raggiunto la sua maggiore bellezza”.
Dall’Assemblea sinodale una Chiesa missionaria

La prima giornata prima Assemblea sinodale della Chiesa italiana si è conclusa con l’intervento di Erica Toscani, componente della presidenza del Comitato Nazionale del Cammino sinodale, che ha meditato sul brano evangelico di Luca in cui si esaltano gli ‘occhi che vedono ciò che voi vedete’: “Beati gli occhi che vedono ciò che noi vediamo! E ciò che noi stiamo vedendo, ciò a cui stiamo prendendo parte, è il venire alla luce di un nuovo volto di Chiesa, auspicato e desiderato dal Concilio Vaticano II, di cui in questo luogo fu piantato il germe iniziale… Il nascere di un nuovo volto di Chiesa: è questo ciò che noi stiamo vedendo ed accompagnando oggi. Niente di meno!”
Camminando si impara a camminare insieme: “Tutti noi abbiamo ben presente le fatiche che questo processo di apprendimento ha comportato e comporta: la fatica, prima e primitiva, di viaggiare con compagni che ‘ci siamo ritrovati’ e che, probabilmente, in partenza non avremmo scelto; la fatica di riconoscerci reciprocamente e di far spazio al contributo di ognuno; la fatica di capire come armonizzare passi e velocità che appaiono e che rimangono diversi; la fatica di imparare ad abitare con pacatezza, ma anche con parresia e grande libertà interiore, gli ostacoli, le resistenze date da processi, strutture, prassi, mentalità, che chiedono la pazienza della goccia che scava la roccia; la frustrazione di non aver ben chiare tappe, metodi, meta e di non riuscire sempre ad immaginare i passi possibili”.
Anche la Chiesa ha cominciato a fare un cammino insieme dall’ascolto: “Il Cammino sinodale, quello italiano così come quello universale, ha preso avvio dall’ascolto: ascolto della vita delle persone, ascolto delle esperienze delle Chiese locali, ascolto della realtà e delle istanze del mondo. Ascolto certo perfettibile, ma che dice ed è già un passo concreto e fondamentale per una Chiesa che vuol essere missionaria, cioè ‘nel mondo e per il mondo’, e che dunque non può non partire dalle domande, dalle sofferenze, dalle gioie e dai desideri degli uomini e delle donne di questo tempo. E’ dalla vita reale che siamo partiti per capire, alla luce del Vangelo, dove andare; ed è alla vita reale che questo processo deve e vuole tornare”.
Ed il coinvolgimento non si può trascurare: “E’ un segno del Regno che c’è già e che viene! Ci dice che è possibile, anche se faticoso, continuare a tendere, a credere e a dar corpo a questa possibilità di camminare insieme in quell’ ‘armonia delle differenze’ che lo Spirito rende possibile, come ci ricorda papa Francesco”.
Tale coinvolgimento avviene attraverso il dialogo: “Tenere aperto il dialogo, continuare a stare seduti allo stesso tavolo attraversando gli inevitabili conflitti che emergono e mettendo in discussione le proprie certezze, senza cedere alla facile scorciatoia di far saltare il banco, è forse la più grande profezia che possiamo essere e portare al nostro tempo: un tempo in cui pare che, dinnanzi alle differenze, le uniche opzioni possibili siano l’assimilazione, la divisione o la guerra”.
Mentre la giornata odierna si è aperta con la ‘lectio divina’ di don Dionisio Candido, responsabile dell’Apostolato Biblico della CEI, che ha approfondito il racconto degli Atti degli Apostoli, in cui si racconta la Pentecoste: “Con la sua Ascensione al cielo si chiude definitivamente l’esperienza terrena di Gesù. Non bisogna più stare a guardare il cielo. I discepoli devono imparare a lasciarlo andare. Devono avere il coraggio della sua assenza… L’allontanamento di Gesù dalla vista dei discepoli, per quanto drammatico per i discepoli, è in fondo un gesto di fiducia verso di loro, chiamati adesso a vivere in autonomia e creatività la loro vita di fede”.
L’Ascensione segna un nuovo protagonismo: “D’ora in poi i discepoli dovranno riuscire a tenere pura la loro coscienza per ascoltare la voce interiore dello Spirito e dovranno assumersi la responsabilità di essere testimoni adulti e affidabili. Il libro degli Atti comincia a mettere in rilievo i primi segni di questa nuova stagione della Chiesa e dell’umanità. Tra questi primi segni c’è la comunità dei discepoli stessa, insieme variegata e unita: al suo interno gli apostoli, ma anche Maria, le donne (probabilmente le stesse che avevano seguito Gesù dalla Galilea), e altri familiari di Gesù”.
E la Chiesa inizia da una casa: “Lo strano gruppo misto e compatto insieme, dove spicca Maria, si ritrova nella stanza ‘al piano superiore’. Forse è un modo che Luca usa per indicare la stanza dell’Ultima Cena, il Cenacolo. Di certo, in Atti la nuova comunità riparte da una casa, non dal tempio. Proprio qui, l’Eucaristia, il dono che Cristo ha fatto di sé in un contesto familiare, consente a tutti di essere concordi nella preghiera. E’ la fede che unisce”.
Dopo le testimonianze delle buone pratiche la giornata si è conclusa con la recita dei vespri e la preghiera per le vittime di abusi, in cui il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, il valore del cammino insieme: “Adesso comprendiamo che il nostro camminare insieme è sempre un lasciarci attrarre da Colui che per questo è stato innalzato sulla croce, proprio per attirare i nostri desideri, muovere i passi, farci volgere lo sguardo e rendere attenti gli orecchi. Per imparare ad amare.
La Chiesa, comunità di coloro che confidano nel Signore, cammina insieme, nella ricchezza e varietà dei carismi e dei ministeri, perché Gesù Cristo ci tiene a sé come una mamma il bambino, come un padre che ci tiene per mano mentre ci insegna a camminare: con le braccia aperte, la mano salda e il sorriso sulle labbra. Guardiamo Gesù. E’ lui l’ospite dolce dell’anima, la nostra dolce memoria”.
Per questo l’arcivescovo di Cagliari ha evidenziato che non bisogna distogliere lo sguardo dalle vittime di abusi: “Il tema ‘Ritessere fiducia’ dice la necessità di non lasciar cadere alcun filo dei rapporti. Tutti i sussidi di questa Giornata sono stati redatti da vittime di abusi e da loro familiari cosicché leggere, meditare e pregare questi testi è come un cammino verso la cisterna buia e vuota in cui si sono sentiti scaraventati, soli e spogliati di tutto, ma anche verso l’aurora di speranza di un cambiamento possibile per grazia. Per-dono.
Come è ben descritto nel commento biblico offerto per l’occasione, uno strappo come l’abuso non può essere sanato da una nuova toppa ma solo da una nuova veste, da un cambiamento radicale di cultura, di metodo, di cuore, un cambiamento che richiede l’infinita pazienza del dolore espresso e ascoltato, la speranza alimentata e valorizzata, la fiducia riannodata. E tutto perdonato”.
Sant’Omobono ai cremonesi: un invito alla preghiera ed alla pace

“Carissimo Papa Francesco, ti scrivo insieme a tutta la Chiesa di Cremona, di cui da più di otto secoli sono il Patrono, ossia un suo figlio che in cielo continua ad amare tanto la sua gente. Mi chiamo Omobono Tucenghi, laico, sposo e padre, sarto e mercante di stoffe, sono vissuto nel XII secolo, e dicono che abbia illuminato questa terra con la mia fede, accesa da una preghiera incessante e testimoniata nella carità verso i poveri, oltre a spendermi per ricostruire la pace tra le fazioni che dividevano e insanguinavano la nostra comunità”.
Recuperando un altro tratto divenuto ormai tradizione per il solenne Pontificale per la festa del Santo patrono, nell’omelia il vescovo di Cremona, mons. Antonio Napolioni, ha proposto ai fedeli una riflessione raccolta nella forma di una lettera scritta in prima persona dal Santo, ringraziando per quanto il suo magistero incontri i tratti della sua vita terrena, della vicenda storica e della spiritualità del patrono di Cremona, modello di una santità ‘in uscita’:
“Preghiera, poveri e pace: queste erano le passioni maturate giorno dopo giorno nel mio umile cuore di uomo concreto della piccola borghesia cremonese. Mi fa impressione che poi, nei secoli, sia cresciuta dietro di me una comunità che ha imparato ad ideare e attuare tante iniziative di solidarietà, forme di prossimità, che ancora oggi colpiscono e impegnano”.
Ed ha apprezzato il papa per l’impegno verso i poveri, meditando i brani biblici: “Tu, papa Francesco, anche se vieni da un altro continente, conosci l’operosa generosità della gente di Lombardia. E mi colpisce che tu oggi chieda a tutti di fare un passo in più, quello di ‘fare nostra la preghiera dei poveri e pregare insieme a loro… che hanno un posto privilegiato nel cuore di Dio’…
Io imparai a vivere proprio così: meditavo la legge del Signore giorno e notte, alzandomi nel cuore della notte per lodarlo, pregavo incessantemente… arrivavo in chiesa molto tempo prima della celebrazione delle Ore, a meno che non fossi trattenuto dall’esigenza di riportare la pace in città o di procurare elemosine per i poveri. E a volte trovavo le porte della chiesa spalancate (anche se nessuno era ancora sceso ad aprirle): quella chiesa dalle porte aperte che anche a te piace tanto!”
Inoltre ha ‘elogiato’ il papa per aver ricordato che la povertà è anche spirituale: “Tu ci ricordi che i poveri non hanno bisogno solo di beni materiali essenziali, ma anche di attenzione spirituale, e aggiungi che “tutto questo richiede un cuore umile, che abbia il coraggio di diventare mendicante, un cuore pronto a riconoscersi povero o bisognoso… perché il vero povero è l’umile, che non ha nulla da vantare e nulla pretende, sa di non poter contare su sé stesso, ma crede fermamente di potersi appellare all’amore misericordioso di Dio… il povero, non avendo nulla a cui appoggiarsi, riceve forza da Dio e in Lui pone tutta la sua fiducia. Infatti, l’umiltà genera la fiducia che Dio non ci abbandonerà mai e non ci lascerà senza risposta”.
Questo è un ritratto di un innamorato di Dio: “Senza saperlo, hai fatto il ritratto di un uomo innamorato di Dio, quale sentivo di essere: digiunavo, confessavo ogni settimana le mie colpe, preso da tanta preghiera in chiesa e fuori di chiesa, camminando, vegliando o dormendo! Durante la Messa mi prostravo a terra davanti alla Croce, e sempre durante l’Eucaristia quel 13 novembre spirai, al canto del Gloria, restando a terra in preghiera, come fossi ancora vivo”.
Una sollecitazione particolare è stata posta sul valore della preghiera: “Sono stato felice di vedere quest’anno, nel mese di ottobre, ogni martedì, tanti credenti della nostra città riuniti qui, in cattedrale, per un itinerario di preghiera ‘alla scuola di Maria’, come tu hai proposto loro in preparazione al prossimo Giubileo. E’ stato bello sentirli uniti, nell’adorazione e nella lode, nell’intercessione e nella supplica, cantando le parole e i sentimenti della fede in Cristo Signore. Ed il mio povero corpo era lì, sotto i loro piedi, nella cripta da dove cerco sempre di chiamarli alla mia stessa passione per la preghiera, per i poveri, per la pace”.
E la preghiera non deve essere disgiunta dalla responsabilità: “Guai a noi illuderci di avere ‘imparato a pregare’ solo in base all’emozione di qualche canto o alla cura delle nostre cerimonie! Ieri donne e uomini come me e tanti altri amici del Signore, e oggi come te papa Francesco, ci sentiamo spinti a uscire, ad andare (pregando incessantemente, nel cuore) incontro agli altri, agli emarginati e agli ultimi, alle tante storie di solitudine che si nascondono nelle case e nelle periferie, al disagio di piccoli e grandi che urla, disturba e invoca vero ascolto e concreti gesti di amore”.
Infine un pensiero per la pace: “Ma non basta chiederlo al cielo, tocca a tutti voi, farlo, subito, ovunque… per invertire la drammatica corsa all’odio, alle armi, alle guerre, che entra come un sottile veleno anche nelle vostre anime, vi fa dire parole come pietre, e compiere solo per paura scelte di cui dovrete amaramente pentirvi.
Tu, papa Francesco, indichi un metodo di vita diverso, costruttivo e rigenerante, semplice e praticabile da tutti: ’non dimentichiamo di custodire i piccoli particolari dell’amore: fermarsi, avvicinarsi, dare un po’ di attenzione, un sorriso, una carezza, una parola di conforto’. I miei figli e fratelli della Chiesa di Cremona ti promettono di provarci ancora, ne sono sicuro. Ed io, che benigno proteggo Cremona da secoli, saprò ancora ispirare cristiani e cittadini così, attenti a rammendare le relazioni, a tessere l’armonia delle diversità, a pregare e lavorare per la giustizia e la pace”.