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Gianfranco Brunelli: Il Regno ha raccontato in modo responsabile gli avvenimenti

“In questo 2025, Il Regno fa 70. I settant’anni di una rivista sono una breve buona notizia. Oggi lo possiamo dire, soprattutto perché quel merito è in gran parte di altri che ci hanno preceduto: la rivista rappresenta un valore in sé per la Chiesa italiana, per il movimento cattolico e per il nostro paese. La rivista è stata ed è uno strumento libero d’informazione e di documentazione religiosa e culturale; un luogo d’analisi, d’incontro tra coloro che hanno la stessa ispirazione cristiana; di dialogo ecumenico tra chi riconosce nel cristianesimo una fede di storia e di salvezza; di confronto con persone di culture e di fedi diverse, che tuttavia hanno a cuore il principio della libertà e della dignità umana, perché queste sono lo specchio umano di Dio… Una tenuta nel tempo è sempre una tenuta del tempo. Tenere il tempo significa stare in una condizione di confronto continuo con le vicende della storia in un tentativo inevitabile, incerto, rischioso di corrispondenza interpretativa. Il tempo, la storia, il linguaggio”.

Iniziamo da questa riflessione del direttore de ‘Il Regno’, Gianfranco Brunelli, a cui chiediamo di raccontarci cosa significa compiere 70 anni per una rivista: “Compiere 70 anni significa aver raccolto il testimone di una generazione, in particolare di quella dei fondatori, che nel nostro caso sono stati i religiosi dehoniani, rielaborando oggi, a partire da una prospettiva necessariamente laicale, quanto ricevuto, avendo in mente chiavi di lettura multiple per un mondo che si è fatto complesso.

Abbiamo di fronte a noi segni di un tempo incognito, incerto, minaccioso. Mentre gli strumenti a disposizione delle comunità cristiane nelle società democratiche appaiono deboli, e in molti altri regimi tornano le persecuzioni. Tra le nuove questioni e le nuove dinamiche in atto, la grande rivoluzione nella comunicazione, l’ecosistema della Rete, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale rappresentano, nel bene e nel male, la maggiore criticità, dal momento che esse tengono assieme tre livelli di trasformazione: antropologica, economico-scientifica, politica”.

Nella lettera inviatavi papa Francesco ha scritto che la rivista ha accompagnato la vita della Chiesa: Il Regno è stata ed è la rivista del Concilio Vaticano II e del post Concilio in Italia: ha accompagnato la vita della Chiesa alimentandone le istanze riformatrici, secondo lo spirito di rinnovamento del Concilio; ha documentato con cura i testi e gli interventi del magistero della Chiesa; ha stimolato il cammino ecumenico delle Chiese; ha incoraggiato il dialogo interreligioso; ha intercettato i cambiamenti sociali e politici in atto, confrontandosi criticamente con le ideologie del nostro tempo’. In quale modo la rivista ha raccontato questa vita ecclesiale?

“Il Regno si è caratterizzato con un proprio stile che ha due connotazioni principali. La prima è quella della fatica delle fonti. Il fatto di lavorare su due sezioni, ‘Attualità’ e ‘Documenti’ significa che le notizie, le interviste e gli approfondimenti della prima non possono prescindere dalle voci della seconda: la Chiesa universale, le Chiese locali, gli studi, le ricerche, i protagonisti.

Il magistero del papa, i cosiddetti testi ‘ufficiali’, le dichiarazioni, tutto ciò che fa di questo grande organismo un’istituzione complessa, sul piano del pensiero e dell’azione, devono poter essere presentati nel loro insieme unitario e tensionale, e nella loro volontà dichiarata di ridire il Vangelo nella storia degli uomini. La seconda è quella del confronto critico: solo da un onesto confronto, da uno scambio intellettuale può maturare un’informazione a servizio alla Chiesa, impegno che la rivista si è sempre assunto sin dall’inizio della sua storia. Il che ha fatto de ‘Il Regno’ una voce libera ma sempre fedele alla Chiesa, nonostante i momenti di difficoltà e le insufficienze”.

Anche il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha scritto: ‘Potremmo dire che quella del Regno è stata una parola che è cresciuta autorevolmente nel panorama dell’informazione e in specifico dell’informazione religiosa. La rivista ha dato un contributo innegabile alla formazione di diverse generazioni di cattolici… Forniva le parole, accompagnava i pensieri nell’interpretare le istanze di rinnovamento, che erano quelle di una nuova generazione, ma erano comunque sempre iscritte nella lunga tradizione della Chiesa’. In quale modo è possibile fare informazione religiosa’?

“Autorevole significa responsabile. Col peso di quella definizione, la rivista (non senza errori) ha sempre cercato di fare una proposta interpretativa non gridata, ma senza dissimulazioni. Si tratta di un compito quotidiano, che riflette un equilibrio sempre incerto. Penso che l’unica strada per fare informazione religiosa libera e onesta oggi sia proprio questa. Oggi tutto è reso più complesso dal ‘presentismo’ dell’informazione, che se è molto facilitata dai nuovi media, ne è anche condizionata proprio sul piano e sui tempi dell’interpretazione”.

Quale è la ‘missione’ de Il Regno?

“Nè ‘missione’, né ‘mission’. Ricercare piuttosto. Il tentativo professionale di leggere, capire, interpretare. Quella de ‘Il Regno’ è la ‘scommessa’ di una doppia fedeltà: da un lato alla città degli uomini, invitandoli a guardare al fenomeno religioso non come a qualcosa d’intimistico, ma come a un aspetto dell’umanità che può fare la qualità del vivere civile anche per i non credenti; dall’altro alla città di Dio, come a quell’ ‘altro da sé’, che interroga continuamente la coscienza personale e istituisce il principio di libertà”.

Il messaggio del papa per la giornata delle comunicazioni sociali invita a condividere ‘con mitezza la speranza che sta nei vostri cuor’: in quale modo la rivista racconta la speranza?

“La speranza non è un facile ottimismo, un ‘andrà tutto bene’; la speranza è un pessimismo vinto nel varco divino della realtà, che rimane drammatica. Sul piano dell’informazione è la virtù che sa guardare e raccontare con realismo sano anche laddove pare non esserci più nessuna uscita di sicurezza per ipotizzare sentieri nuovi, per dare voce a chi non ce l’ha (pensiamo a certe zone del mondo di cui i media mainstream occidentali non si interessano). La nostra piccola lampada, fatta di analisi e di fonti, vuole continuare a dare corpo a questo esercizio della virtù”.

(Foto: Il Regno)

Mons. Enrique Angelelli ricordato a Montegiorgio, paese di suo padre

Nelle scorse settimane il vescovo argentino della diocesi di La Rioja, mons. Dante Braida, accogliendo la richiesta di una reliquia da intronizzare nella parrocchia della città, si è recato a Montegiorgio, in provincia di Fermo, città di 7000 abitanti, che diede i natali al padre, mentre la madre era originaria di Cingoli: Enrique, insieme ai fratelli Juanito ed Elena nati tutti in Argentina, sono figli di Giovanni Angelelli originario di Montegiorgio che è partito dall’Italia a soli 15 anni per cercare fortuna in Argentina; proprio lì conobbe Celina Carletti, originaria di Cingoli con cui si sposò. Mons. Angelelli fu trucidato dalla dittatura militare il 4 agosto 1976 ed il 27 aprile 2019 papa Francesco lo ha dichiarato beato. 

Mons. Dante Braida ha sottolineato in quale modo è avvenuto l’invito: “Sono stato invitato dal parroco della Chiesa fermana, don Pierluigi Ciccarè, tramite don Mario Moriconi, sacerdote italiano che ha prestato servizio in Argentina dal 1973 al 1984, nella diocesi di Morón. In questa visita mi accompagna mons. Marcos Pirán, vescovo ausiliare di Holguín a Cuba, originario dell’Argentina (diocesi di San Isidro)”.

All’incontro ha partecipato anche il vescovo di Fermo, mons. Rocco Pennacchio,sottolineando che la testimonianza di mons. Angelelli è un messaggio attuale per la Chiesa. Durante l’omelia della celebrazione eucaristia mons. Dante Braida ha ringraziato la comunità montegiorgese per l’invito: “Ringrazio Dio per questa opportunità di testimoniare non solo la vita del beato martire Enrique Angelelli e dei suoi compagni, ma anche la sua eredità che oggi alimenta la nostra vita e le nostre azioni pastorali”.

Ed ha raccontato l’azione pastorale del beato argentino: “Nella sua azione pastorale, mons. Angelelli confidava in quella presenza di Dio che abita in tutti gli uomini; per questo invitava tutti a partecipare attivamente alla vita sociale, con la certezza che ciascuno ha qualcosa da offrire al bene comune, alla bene degli altri. E quella presenza include soprattutto i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili, tutti coloro che, agli ‘occhi dell’efficienza’ del mondo, possono essere insignificanti”.

Mentre nell’incontro cittadino mons. Braida ha valorizzato le esortazioni di mons. Angelelli ai laici: “Per questo mons. Angelelli nel suo primo messaggio ai laici ha detto: ‘Pensate, riflettete, dialogate, date la vostra opinione, partecipate, ascoltate, imparate, obbedite, intervenite, preoccupatevi, preoccupatevi per gli altri, siate partecipi solidarietà… sentirci corresponsabili insieme al vescovo, ai sacerdoti e alle suore della missione della Chiesa’. Allo stesso tempo, il nostro vescovo ci ha esortato a riconoscere che lo Spirito Santo opera in ogni persona che lavora per la giustizia e la pace, per il bene degli altri, con i quali dobbiamo camminare insieme, siano essi credenti o non credenti, membri delle organizzazioni più diverse anche se non siamo d’accordo su tutto”.

Chi era mons. Enrique Angelelli?

“Mons. Enrique Angelelli era un pastore, che ha cercato in tutti i modi di prendersi cura delle sue pecore, testimoniando il Vangelo, ed ha portato il messaggio del Concilio Vaticano II a tutte le persone della sua diocesi”.

Quale era il suo amore per la Chiesa?

“Ha veramente dato la vita per una Chiesa sinodale e per questo, quando è stato beatificato, il card. Angelo Becciu ha detto che era un martire dei decreti conciliari. Cercava questo, una persona che amava molto la Chiesa, e sebbene non fosse ben compreso ai suoi tempi da alcuni ambienti ecclesiastici, andò comunque avanti, unito alla Chiesa e fedele alla missione che gli era stata affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di rivolgerci di più alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per noi che vogliamo vivere la sinodalità”.

In quale modo si fece interprete del Concilio Vaticano II nell’Argentina?

“Cercò di rendere tutti i fedeli partecipi della vita della Chiesa, affinché la fede li aiutasse a crescere in tutte le dimensioni della loro vita familiare, lavorativa, sociale e culturale, perché ogni persona fosse in grado di scoprire la propria vocazione”.

‘Un orecchio al Vangelo, un orecchio al popolo’: in quale modo applicò questa sua ‘regola’?

“Mons. Angelelli ha applicato questo suo lemma prima nell’ascolto del Vangelo, poi nell’ascolto delle persone nella convinzione di renderle più consapevoli nel vivere il cristianesimo”.

Lei è vescovo di La Rioja, diocesi di mons. Angelelli: cosa rimane di questa eredità in quella particolare chiesa?

“E’ molto bello bere dall’eredità che ci ha dato, perché ha vissuto proprio il Concilio Vaticano II, e nel 1968 quando ha assunto la diocesi ha cercato di applicarlo, e in modo concreto incoraggiando i laici nella propria missione, soprattutto nel mondo, ed anche aiutando ad affrontare le situazioni di povertà, in cui vivono tante persone. Anche nei consigli pastorali, organizzando la diocesi per decanati per renderla più partecipativa. Era una persona che amava molto la Chiesa, e anche se non era molto compreso nel suo tempo da alcuni settori ecclesiali, tuttavia, è andato avanti, fedele alla missione a lui affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di andare oltre alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per quelli di noi che vogliono vivere la sinodalità”.

E come si pone il Sinodo nell’ascolto delle persone?

“Il Sinodo sta cercando un modo per ascoltare tutte le persone e renderle partecipe alla vita della Chiesa. Nella Chiesa ogni battezzato ha un ‘valore’ ed ha un’importanza unica: se quella persona ha una necessità o è povera deve essere al centro della comunità cristiana”.  

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco: appello per l’unità tra i cristiani

“Io ho dato loro la stessa gloria che tu hai dato a me (Gv 17,22). Queste parole della preghiera di Gesù prima della Passione, si possono riferire in modo eminente ai martiri, glorificati per la testimonianza resa a Cristo. In questo luogo ricordiamo i Primi Martiri della Chiesa a Roma: sul loro sangue è stata costruita questa basilica, sul loro sangue è stata edificata la Chiesa. Possano questi Martiri rafforzare la nostra certezza che, avvicinandoci a Cristo, ci avviciniamo gli uni agli altri, sostenuti dalla preghiera di tutti i santi delle nostre Chiese, già perfettamente uniti dalla loro partecipazione al Mistero pasquale”.

Nella memoria liturgica di papa san Giovanni XXIII, che avviò il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962, papa Francesco ha invitato all’unità tra le confessioni cristiane senza pronunciare quest’omelia, che è stata consegnata ai padri sinodali alla conclusione della veglia ecumenica animata dalla Comunità di Taizé nella piazza dei Protomartiri in Vaticano, insieme ai partecipanti al Sinodo ed ai fratelli e sorelle delle altre Chiese.

Ed ha ricordato che unità dei cristiani e sinodalità sono collegate: “In entrambi i processi, si tratta non tanto di costruire qualcosa quanto di accogliere e far fruttare il dono che già abbiamo ricevuto. E come si presenta il dono dell’unità? L’esperienza sinodale ci aiuta a scoprirne alcuni aspetti.

L’unità è una grazia, un dono imprevedibile. Il vero protagonista non siamo noi, ma lo Spirito Santo che ci guida verso una maggiore comunione. Come non sappiamo in anticipo quale sarà l’esito del Sinodo, così non sappiamo esattamente come sarà l’unità a cui siamo chiamati. Il Vangelo ci dice che Gesù, in quella sua grande preghiera, ‘alzò gli occhi al cielo’: l’unità non è innanzitutto un frutto della terra, ma del Cielo”.

Quindi per raggiungere l’unità è necessario un cammino, come è stato scritto nel decreto sull’ecumenismo ‘Unitatis Redintegratio’: “Un altro insegnamento che viene dal processo sinodale è che l’unità è un cammino: matura nel movimento, strada facendo. Cresce nel servizio reciproco, nel dialogo della vita, nella collaborazione di tutti i cristiani che ‘fa emergere più chiaramente il volto di Cristo servitore’.

Ma dobbiamo camminare secondo lo Spirito; o, come dice Sant’Ireneo, come tôn adelphôn synodía, ‘una carovana di fratelli’. L’unione tra i cristiani cresce e matura nel comune pellegrinaggio ‘al ritmo di Dio’, come i pellegrini di Emmaus accompagnati da Gesù risorto”.

Il terzo insegnamento riguarda l’unità come armonia: “Il Sinodo ci sta aiutando a riscoprire la bellezza della Chiesa nella varietà dei suoi volti. Così l’unità non è uniformità, né frutto di compromessi o di equilibrismi. L’unità dei cristiani è armonia nella diversità dei carismi suscitati dallo Spirito per l’edificazione di tutti i cristiani. L’armonia è la via dello Spirito, perché Egli stesso, come dice San Basilio, è armonia. Noi abbiamo bisogno di percorrere il sentiero dell’unità in virtù del nostro amore per Cristo e per tutte le persone che siamo chiamati a servire”.

Ma l’unità dei cristiani può essere ‘raggiunta’ attraverso la testimonianza: “Questa era la convinzione dei Padri conciliari nell’affermare che la nostra divisione ‘è di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura’. Il movimento ecumenico è nato dal desiderio di testimoniare insieme, con gli altri e non lontano gli uni dagli altri, o peggio ancora gli uni contro gli altri”.

Ed ha ricordato i martiri: “In questo luogo i Protomartiri ci ricordano che oggi, in molte parti del mondo, cristiani di diverse tradizioni danno la vita insieme per la fede in Gesù Cristo, vivendo l’ecumenismo del sangue. La loro testimonianza è più forte di qualsiasi parola, perché l’unità viene dalla Croce del Signore”.

Infine ha ricordato lo ‘scandalo’ della divisione tra i cristiani: “Oggi esprimiamo anche la vergogna per lo scandalo della divisione dei cristiani, lo scandalo di non dare insieme testimonianza al Signore Gesù. Questo Sinodo è un’opportunità per fare meglio, superando i muri che ancora esistono tra noi.

Concentriamoci sul terreno comune del nostro comune Battesimo, che ci spinge a diventare discepoli missionari di Cristo, con una comune missione. Il mondo ha bisogno di una testimonianza comune, il mondo ha bisogno che siamo fedeli alla nostra comune missione”.

(Foto: Santa Sede)

Il significato della diversità delle religioni

Nel recente viaggio a Singapore il Santo Padre ha rivolto ai giovani le seguenti parole: «Tutte le religioni sono percorsi per raggiungere Dio. Esse sono, per fare un paragone, come differenti linguaggi, differenti dialetti, per arrivare a quell’obiettivo. Ma Dio è Dio per tutti. Se tu incominci a combattere sostenendo ‘la mia religione è più importante della tua, la mia è vera e la tua non lo è, dove ci porterà tutto ciò? C’è un solo Dio, e ognuno di noi possiede un linguaggio per arrivare a Dio. Alcuni sono sikh, musulmani, hindu, cristiani: sono diverse vie che portano a Dio».

Il Papa non entra qui nella questione di chi ha ragione e di chi ha torto; non pone la questione di distinguere la verità dall’errore; non dice che tutte le religioni posseggono ugualmente, parimenti e sufficientemente lo stesso patrimonio o la medesima pienezza delle verità salvifiche e che sono tutte prive di errori; non suppone una concezione relativistica della verità, per cui è vero ciò che a ciascuno pare vero; non afferma che ognuno è libero di credere quello che vuole o preferisce, senza esser vincolato in coscienza da una verità universale ed oggettiva; non confonde la fede con l’opinione soggettiva;

non afferma che esiste una pluralità di fedi come esiste una molteplicità di opinioni; non nega che la verità è una sola e che la fede è una sola, quella cattolica, come la Chiesa e la fede stessa insegnano; non nega il dovere di illuminare o istruire il fratello che non conosce una certa verità religiosa; non nega il dovere di respingere o confutare le falsità in campo religioso; non nega il dovere di correggere il fratello errante in campo religioso. Non nega il dovere di persuadere il fratello a colmare lacune e ad abbracciare la pienezza della verità, che si trova soltanto nella religione cattolica.

Il suo è un richiamo a tutti i gruppi e comunità religiosi, quale che sia la loro religione, a convergere verso Dio. Chiaramente fa appello alle religioni monoteistiche, per cui possiamo pensare a cristiani, ebrei e musulmani e forse anche buddisti ed induisti. Fa appello ad una testimonianza comune nei confronti di atei, panteisti, agnostici, politeisti, idolatri.

Il paragone che il Papa fa della diversità delle religioni con la varietà delle lingue non ha nulla a che vedere con l’indifferentismo e il relativismo, né intende negare – cosa impensabile – che per salvarsi occorre seguire Cristo. Non intende affatto dire che Cristo sia una via verso Dio tra le altre, alla pari di altre, sicchè uno sarebbe libero di scegliere quella che preferisce certo comunque di salvarsi ed arrivare a Dio.

Il Papa, come Vicario di Cristo, sa benissimo e ci insegna che Cristo non è una via, ma la Via. E le altre vie che cosa valgono? Sono anch’esse vie, ma vie semplicemente umane, che quindi partecipano non senza difetti, di quella  via unica divina che è Cristo. Tuttavia, chi, senza conoscere Cristo, in buona fede, segue la propria religione, si salva comunque di fatto sempre in Cristo, ma senza saperlo.

La varietà si riferisce piuttosto alla via personale di ciascuno di noi verso Dio, nonchè alla varietà dei miti, dei simboli, delle espressioni linguistiche, letterarie, storiche, sociologiche, culturali, artistiche e spirituali delle varie religioni. Qui è possibile una molteplicità di tendenze, dove invece non è possibile nel campo della fede, che non è opinione ma verità e la verità è una sola.

Il Papa porta Singapore ad esempio di pratica e di rispetto del diritto alla libertà religiosa. È evidente il richiamo implicito a quei Paesi islamici integristi, dove il rispetto di questo diritto è disatteso o problematico, affinchè imitino i costumi di questo Paese, imitino i fedeli musulmani ivi residenti ed apprezzino come i musulmani di Singapore sanno rispettare i fedeli di altre religioni.

Il Papa non nega il primato del cristianesimo: sarebbe impensabile una simile eresia in un Papa. Non intende assolutamente negare l’unicità ed universalità della mediazione di Cristo Salvatore dell’umanità e che chi si salva, si salva per i meriti divini di Cristo, lo sappia e non lo sappia, quale che sia la religione alla quale appartiene.

Il Papa semplicemente si riferisce al fatto che la mediazione divina, perfetta ed insuperabile di Cristo, come insegna il Concilio Vaticano II, «non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione», cioè le varie religioni, «che è partecipazione dell’unica fonte». Sarebbe assurdo o ridicolo pensare che quanto hanno fatto o detto per la salvezza dell’uomo il Budda, Maometto o i Veda dell’induismo, opere semplicemente umane, si ponga allo stesso livello dell’opera divina di Cristo, o valga tanto quanto ha fatto e detto Cristo e magari anche lo completa.

Osserviamo d’altra parte che può essere di pari valore ciò che fa per la salvezza un cristiano o il fedele di un’altra religione, dato che sono tutti fallibili e limitate creature umane, ed anzi non è escluso che un cristiano  possa essere privo della grazia e invece può possederla senza saperlo un non-cristiano onesto e in buona fede. Ma ciò non ha niente a che vedere col confronto fra le religioni in se stesse. Il cristiano non è il cristianesimo, il buddista non è il buddismo e l’islamico non è l’islam e così via.

E San Giovanni Paolo II spiega le parole del Concilio in questo modo: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo ed ordine», cioè le altre religioni, «esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari».

Semplicemente Papa Francesco condanna certi atteggianti altezzosi, aggressivi, boriosi e bullistici di superiorità che potrebbero trovarsi anche in certi cattolici, atteggiamenti controproducenti, i quali, umiliando il fratello, sono tali da suscitare una più forte ripugnanza ad avvicinarsi al cristianesimo. Tali atteggiamenti, come fa notare il Papa, ben lungi dall’avvicinare cattolici e non cattolici, dal trasmettere la pace e da creare la pace, suscitano litigi e vane competizioni.

Il Papa non intende escludere dispute e discussioni, condotte secondo le buone regole da osservarsi in questi casi, giacchè il dialogo comporta anche questi aspetti: l’interlocutore deve essere persuaso con carità, garbo, spirito di servizio, prudenza e pazienza, con una sapiente opera di inculturazione proporzionata alle sue capacità di comprensione, senza fretta ma producendo prove e portando esempi adatti, imitabili, attraenti ed efficaci, ragionando con argomenti stringenti e convincenti.

Il modo giusto per far apprezzare all’evangelizzando il primato del cristianesimo è quello di mostrargli la qualità altissima delle virtù da esso predicate e  praticate, i primati del cristianesimo nella storia della civiltà, come esso soddisfi le più alte esigenze dell’uomo e delle altre religioni, come sia privo di quei difetti che si riscontrano nelle altre religioni, come il cristianesimo rappresenti per lui il massimo delle sue aspirazioni non solo con le parole, ma adducendo gli esempi dei Santi.

Queste cose la Chiesa le ha sempre insegnate e praticate in forza della fede in Cristo come unico Salvatore dell’umanità e obbedendo al suo comando di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, un mandato che, nella misura in cui è stato messo in pratica, ha avuto l’effetto di convertire i popoli a Cristo e di espandere e  far crescere numericamente la Chiesa in tutto il mondo. Leggiamo per esempio queste dichiarazioni del Concilio Vaticano II:

 «La Chiesa cattolica annuncia ed è tenuta ad annunziare incessantemente Cristo, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a Sé tutte le cose» (Nostra aetate,2).

«Solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo collegio apostolico con a Capo  Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della Nuova Alleanza, per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli  che già in qualche modo appartengono al Popolo di Dio» (Unitatis redintegratio, 3).

Il che vuol dire che se tale piena appartenenza manca volontariamente e quindi colpevolmente, il non-cattolico, eretico o scismatico non si può salvare. Se invece tale pienezza manca per ignoranza invincibile della sua necessità, allora pensa Dio stesso ad aggregare pienamente il soggetto alla Chiesa affinchè possa salvarsi.

Questi insegnamenti, andando indietro nel tempo, li ritroviamo per esempio nel Concilio di Firenze del 1442: «Sacrosancta Romana Ecclesia firmiter credit, profitetur et praedicat extra Ecclesiam existentes vita aeternae non posse esse participes» (Denz. 1351).

La novità introdotta dal Concilio è quella della distinzione fra appartenenza parziale, propria dei cristiani non cattolici e quella piena, propria dei cattolici. La salvezza dei non cattolici è possibile per coloro che in buona fede non sanno che la salvezza si ottiene per mezzo della Chiesa cattolica.

Costoro si possono implicitamente ma realmente considerare appartenenti alla Chiesa cattolica in forza dell’insegnamento del Beato Pio IX nell’enciclica Quanto conficiamur moerore del 1863, il quale parla di un’appartenenza salvifica implicita ed inconscia ma reale alla Chiesa, di «coloro che patiscono un’ignoranza invincibile della nostra santissima religione» (Denz.2866).

Nessun relativismo. Due proposizioni di fede non possono essere simultaneamente vere se si contraddicono fra di loro.

Se il Filioque è verità di fede, non può essere nello stesso tempo eresia. Se è vero che il Vescovo di Roma ha il primato di giurisdizione su tutte le altre Chiese locali, non può esser vero ad un tempo che il Patriarcato di Costantinopoli o di Mosca sia canonicamente indipendente dal Vescovo di Roma. Se è verità di fede che la Madonna è Immacolata o Assunta in cielo, non può trattarsi simultaneamente di una semplice discutibile opinione teologica.

Se è vero che la ragione armonizza con la fede, non può esser vero che fede e ragione si oppongono a  vicenda; se è vero che credere in Dio è ragionevole, il credere in Dio non può essere un’assurdità; se si dimostra con la ragione che Dio esiste, è falso dire che sappiamo che esiste solo per fede; se è vero che la natura umana decaduta è ferita, non può esser vero che è totalmente corrotta; se è vero che è possibile osservare i comandamenti non può esser vero che è impossibile; se è vero che dobbiamo meritare il paradiso, non può essere altrettanto vero che andiamo in paradiso senza meriti; se è vero che il peccato è perdonato a chi si pente, non può esser vero  che siamo perdonati anche senza pentirci; se è vero che la Messa è un sacrificio, non può esser vero  che la Messa non è un sacrificio; se è vero che Cristo ha espiato e soddisfatto per noi, non può esser vero il contrario.

Se è vero che Cristo è Dio non può essere altrettanto vero che Cristo non è Dio; se è vero che Dio è Trino, non può essere vero che Dio non è Trino; se è vero che Dio dona all’uomo la sua grazia come a figlio di Dio, non può esser vero che non esiste alcuna grazia e alcuna figliolanza divina; se è vero che siamo figli di Dio e fratelli  in Cristo, chi nega ciò non può essere nella verità.

Se è vero che l’anima non è Dio, non può essere altrettanto vero che l’anima è Dio; se è vero che il male non viene da Dio, non può esser altrettanto vero che il male viene da Dio; se è vero che Dio ha creato il mondo, non può esser altrettanto vero che il mondo è l’apparire di Dio; se è vero che esiste la risurrezione del corpo, non può esser giusto negare la risurrezione del corpo; se è vero che la reincarnazione non esiste, non può esser giusto affermare la reincarnazione.

Nel dialogo interreligioso ci si impone sì il rispetto delle diversità, e su ciò il Papa insiste molto, quello che è stato chiamato il principio dell’«et-et», espressione pratica della nozione metafisica dell’analogia dell’essere.

Il dialogo interreligioso però non può limitarsi ad un semplice scambio di idee, a un confronto di opinioni o ad un apprezzamento delle diversità con un arricchimento reciproco, ma ha in fin dei conti lo scopo di appurare chi ha ragione e chi sbaglia, per correggere l’errore e far trionfare la verità.

Ma ci si impone anche e innanzitutto il rispetto del principio del terzo escluso, il cosiddetto principio dell’«aut-aut», «o sì o no», come lo chiama Cristo (Mt 5,37), basato a sua volta sul principio di non-contraddizione, che è la legge fondamentale della verità, della sensatezza e della lealtà del pensiero. Il principio di non-contraddizione poi a sua volta è il riflesso nel pensiero e nel giudizio della percezione dell’essere reale, che costituisce il principio di identità, per il quale ogni ente è ciò che è e non altro da sé.

Per questo è pura stoltezza e insensatezza e autoconfutazione, come alcuni improvvidi o furbi fanno, rifiutare l’aut-aut in nome dell’et-et, col pretesto che altrimenti non si avrebbe il rispetto dell’altro o del pluralismo. Succede invece che si apre la porta alla doppiezza, all’opportunismo e all’ipocrisia.

Per le ragioni suddette il dialogo interreligioso ha il compito iniziale di evidenziare le convinzioni religiose di ragione, comuni a tutta la umanità, circa l’esistenza di Dio, ente supremo, causa prima dell’universo e dell’uomo, principio della legge morale secondo la quale l’uomo deve render conto a Dio del proprio operato.

E certamente è importante mettere in luce le legittime diversità, che costituiscono un arricchimento ed aiuto reciproco, sorgente di concordia e di collaborazione reciproca. Ma una volta creato l’accordo su questa base, occorre affrontare assieme a fondo con franchezza e fiducia, in un clima di reciproca carità, la questione dottrinale, ossia quella della verità.

È lo stesso dovere dell’umiltà davanti a Cristo Verità che obbliga noi cattolici, che, senz’alcun merito, abbiamo ricevuto in Cristo e nella Chiesa la pienezza della verità, a proporre ai fedeli delle altre religioni quella universale e piena verità salvifica, che a tutti deve stare a cuore, perchè non esistono patti di pace basati sull’equivoco o sulla menzogna.

Abbiamo pertanto, come autentici discepoli di Cristo, il dovere, alla luce di quella verità, che non è la nostra, ma quella del Vangelo, di riconoscere le verità delle quali i fedeli delle altre religioni sono già in possesso, e alla luce di questa verità liberare questi fratelli da ogni traccia di tenebra affinchè con noi camminino verso la Luce di Cristo.

(Tratto da padrecavalcoli.blogspot.com)


 

 

 

 

 

Ecclesiam suam: a 60 anni dall’enciclica di Paolo VI quali sono i frutti?

“Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza; appare quindi evidente la ragione per cui ad essa abbiano dato prove di particolare amore, e ad essa abbiano dedicato particolari cure tutti coloro che hanno avuto a cuore sia la gloria di Dio sia la salvezza eterna degli uomini: tra i quali, com’era giusto, rifulsero i Vicari in terra dello stesso Cristo, un numero immenso di Vescovi e di sacerdoti, ed una mirabile schiera di santi cristiani.

A tutti, pertanto, sembrerà quasi naturale che Noi, indirizzando al mondo questa Nostra prima Enciclica dopo che, per inscrutabile disegno di Dio, siamo stati chiamati al Soglio Pontificio, rivolgiamo il nostro pensiero amoroso e reverente alla santa Chiesa. Per tali motivi, Ci proporremo, in questa Enciclica, di sempre più chiarire a tutti quanto, da una parte, sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino”.

Così inizia l’enciclica ‘Ecclesiam Suam’, promulgata da papa san Paolo VI il 6 agosto 1964, che può essere definita un ‘testo programmatico’, rilanciando alcune tematiche fondamentali durante il rinnovamento del Concilio Vaticano II. Infatti papa Paolo VI con tale enciclica ha continuato nel solco ‘dell’aggiornamento’ di papa san Giovanni XXIII, annunciato nel discorso di apertura della prima sessione conciliare, ‘Gaudet Mater Ecclesia’, in cui aveva rimarcato il ‘compito’ della Chiesa, che ‘in questo tempo presente… preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore’.

A distanza di 60 anni questo documento rimane ancora un punto di riferimento per la riforma nella Chiesa, come si evince dal colloquio con il francescano p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università ‘Antonianum’ di Roma, nonché assistente presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense di Roma, a cui chiediamo di raccontarci il motivo, per cui papa san Paolo VI scrisse tale enciclica:

“Il Papa ha meditato a lungo il testo della sua prima Enciclica, la cui traccia fondamentale aveva già anticipato nel Discorso di apertura della seconda sessione del Concilio Vaticano II ‘Salvete fratres’,il 29 settembre 1963. Il documento è stato considerato da molti come un ‘programma’ del suo pontificato, che rivela la profondità del suo animo. Il contesto in cui nacque è quello degli anni Sessanta, ritenuti un’epoca di grandi trasformazione e di sviluppo economico, in cui avvenne una vera ‘rivoluzione copernicana’ e la Chiesa fu necessariamente chiamata a mettersi in relazione con tutti. L’enciclica ‘Ecclesiam suam’ si proponeva di chiarire a ‘tutti’ quanto la Chiesa sia essenziale per la salvezza dell’umana società ed, al contempo, quanto stia a cuore alla comunità ecclesiale l’incontro con l’umanità”.

Per la Chiesa quali sono le vie attraverso le quali può compiere il mandato affidato da Gesù? “La Chiesa è chiamata a riscoprire la coscienza di ciò che il Signore desidera e, di conseguenza, compiere una missione che la trascende, diffondendo l’annuncio del Vangelo, vivendo il mandato missionario del Risorto (cfr. Mt 28,16-20). In questo percorso, innanzitutto, secondo papa Paolo VI era urgente la ‘rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo’, che è il ‘principio’ e la ‘via’. L’ecclesiologia di papa Montini è chiaramente cristocentrica e la Chiesa vive e opera per continuare e diffonderela missione stessa del Maestro”.

Perché papa san Paolo VI ha sottolineato per la Chiesa lo ‘zelo’ per la pace?

“All’interno della sezione dedicata al dialogo, in particolare verso gli ‘uomini di buona volontà’, papa Paolo VI ha affrontato il tema della ‘pace’ come opportunità di incontro tra i popoli ed ha invitato la Chiesa ad avere cura e attenzione per giungere maggiormente a una autentica pace tra gli uomini come via di rinnovamento e riconciliazione. In seguito, il primo gennaio 1968, ha istituito la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace quale occasione di conversione e di preghiera per l’intera umanità”.

Quale è la missione che la Chiesa è chiamata a compiere?

“L’azione missionaria di Cristo ‘continua’ per mezzo della Chiesa e nella Chiesa, in quanto prolunga nel tempo presente la stessa azione salvifica universale del Cristo. Egli sostiene che la Chiesa esiste in quanto ‘testimonianza’ del Vangelo e perciò compie tutti i suoi gesti (annuncio, sacramenti, carità) lasciandosi plasmare dalla forza viva della Parola di Dio con cui si costituisce quale comunità di speranza e fraternità, vivendo la sua dimensione evangelizzatrice come esperienza costitutiva. Non è possibile la missionarietà della Chiesa senza un profondo e continuo “rinnovamento ecclesiale”.

Quale importanza occupa il dialogo ‘missionario’ nell’Enciclica?

“Con il pontificato di papa Paolo VI, il dialogo è diventato un asse portante del compito missionario della Chiesa e nell’enciclica ‘Ecclesiam suam’egli ha chiarito quanto siano necessarie un’autentica autocoscienza ecclesiale ed una conseguente riforma. Papa Paolo VI ha diviso i destinatari del dialogo missionario secondo la logica dei ‘cerchi concentrici’: a) tutti gli uomini di buona volontà; b) tutti gli uomini che adorano il Dio unico e sommo; c) tutti i cristiani delle altre confessioni. In sintesi si può ritenere che papa Montini ha adottato l’evangelizzazione come stile dell’identità della Chiesa e il dialogo come stile della missione”.

A 60 anni di distanza quali sono i frutti di tale Enciclica?

“L’Enciclica ‘Ecclesiam suam’voleva approfondire la ‘coscienza’ della Chiesa, nell’ottica dell’aggiornamentoper intessere delle relazioni autentiche e significative con il mondo contemporaneo. Il testo, dopo 60 anni, riconsegna all’uomo contemporaneo ed all’attuale contesto sinodale l’immagine di una Chiesa alla continua scoperta di se stessa, legata a Cristo ed in continua riforma per aprirsi al dialogo con l’alterità.

Si può affermare, in sintesi, che la centralità di Cristo e l’annuncio del Vangelo possono essere considerate le uniche vie da seguire per un autentico cammino di conversione e rimangono, tuttora, due aspetti essenziali ed insuperati del Magistero montiniano. La testimonianza dell’enciclica ‘Ecclesiam suam’offre una visione ecclesiologica equilibrata che pone al centro l’essere e l’agire della Chiesa, cioè la sua identità e missione specifica”.

(Tratto da Aci Stampa)

La parrocchia ‘San Gregorio VII’ riscopre il Concilio Vaticano II

“Riscopriamo il Concilio Vaticano II per ridare il primato a Dio e a una Chiesa che sia pazza di amore per il suo Signore e per tutti gli uomini, da lui amati; una Chiesa ricca di Gesù e povera di mezzi; una Chiesa libera e liberante. Il Concilio indica  questa rotta: la fa tornare, come Pietro, alle sorgenti del primo amore, per riscoprire nelle sue povertà la santità di Dio, per ritrovare nello sguardo del Signore crocifisso e risorto la gioia smarrita, per concentrarsi su Gesù”: lo aveva detto papa Francesco in occasione della celebrazione del 60^ anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II nella memoria liturgica di san Giovanni XXIII, che confidò di aver seguito ‘una voce dall’Alto’.

Ed aveva soggiunto l’esigenza di ‘studiare’ i documenti del Concilio Vaticano II per evitare rischi ‘pelagiani’: “Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio e dal suo sguardo innamorato su di noi. Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Il progressismo che si accoda al mondo e il tradizionalismo o ‘indietrismo’ che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani che antepongono i propri gusti e piani all’amore che piace a Dio”.

Sollecitata da queste parole del papa la parrocchia ‘San Gregorio VII’ a Roma ha organizzato un ciclo di incontri, ‘In ascolto del Concilio Vaticano II’, le cui relazioni sono svolte dai Frati Minori dell’Umbria, sulle quattro Costituzioni della Chiesa: ‘Sacrosanctum Concilium’, sulla Sacra Liturgia, in compagnia del prof. Angelo Lameri, docente di Liturgia e Sacramentaria alla Pontificia Università Lateranense e decano della Facoltà di Teologia della medesima Università; sulla Costituzione sulla Chiesa, ‘Lumen Gentium’, in compagnia del prof. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia alla Pontificia Università Antonianum, all’Istituto Teologico di Assisi ed assistente presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, a cui seguono la relazione del prof. Giuseppe Pulcinelli, Rettore del Pontificio Collegio Lateranense, che oggi introduce la Costituzione sulla Divina Rivelazione ‘Dei Verbum’; mentre la chiusura sarà affidata al prof. Nicola Ciola, docente di Cristologia alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, che giovedì 9 maggio esaminerà la Costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo ‘Gaudium et Spes’.

A conclusione dell’incontro sulla Costituzione ‘Lumen Gentium’ abbiamo chiesto al vicario parrocchiale, p. Fabio Nardelli, di spiegarci il motivo per cui la parrocchia organizza incontri sulle Costituzioni del Concilio Vaticano II: “In ascolto delle indicazioni di papa Francesco, in preparazione al Giubileo del 2025, e riprendendo le ‘Linee Guida per il cammino pastorale 2023-2024’, che sottolineano l’importanza di riprenderegli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in particolare delle quattro Costituzioni, la Parrocchia di San Gregorio VII ha organizzato quattro incontri di formazione per tutto il ‘santo Popolo fedele di Dio’”.

Quanto sono importanti queste quattro Costituzioni per la Chiesa?

“Le Costituzioni conciliari possono essere considerati i pilastri di una casa fondata sulla roccia, che è Cristo. I testi, ricchi e densi di valore teologico-pastorale, hanno contribuito al rinnovamento della Chiesa nei suoi diversi aspetti. In maniera puntuale, le Costituzioni illuminano la missione della Chiesa e costituiscono una “bussola” per il cammino della Chiesa universale e particolare”.

Cosa significa per una parrocchia mettersi in ascolto del Concilio Vaticano II?

“Il Concilio Vaticano II rappresenta, nell’ottica magisteriale e teologica, un punto di riferimento e di ‘non ritorno’ da cui ‘ripartire’. Come è noto, utilizzando l’espressione ‘aggiornamento’, il Concilio Vaticano II ha inteso rinnovare la Chiesa, per compiere un concreto ‘balzo innanzi’. Pertanto, come ha affermato di recente papa Francesco, ‘si tratta di un lavoro di rinnovamento spirituale, pastorale, ecumenico e missionario’”.

Per quale motivo i cristiani sono chiamati alla santità?

“Il Concilio Vaticano II ha rilanciato in maniera decisa la ‘vocazione universale’ alla santità per tutta la Chiesa. Essa è un dono originario del Signore continuamente rinnovato dallo Spirito e nella Chiesa sono stati depositati i doni della fede e dei sacramenti, i doni gerarchici e carismatici che la rendono segno e strumento di salvezza per tutti gli uomini. Come ha ripetuto anche papa Francesco, ‘la santità è un dono che viene offerto a tutti, nessuno escluso, per cui costituisce il carattere distintivo di ogni cristiano’”.

Qual è la missione dei laici nella Chiesa?

“Il Concilio Vaticano II, oltre ad essere il ‘primo’ Concilio che si è occupato dell’identità e della missione dei laici, ha contribuito anche a chiarire la posizione del laico nella Chiesa. Ha dedicato, infatti, quantitativamente una buona riflessione al tema, valorizzando la dignità battesimale, applicando il ‘triplex munus’e individuando una linea specifica nell’indole secolare. I laici evangelizzano nella ferialità della loro vita cristiana a partire dal loro stato di vita, nel lavoro e nella famiglia, incarnando la relazione Chiesa-mondo. Come ha ribadito la Relazione di sintesi della prima sessione del Sinodo ‘il loro contributo è indispensabile per la missione della Chiesa’”.

Quest’anno verso il Giubileo è dedicato alla preghiera: perché è importante intensificarla?

“Per vivere al meglio questo evento di grazia, nello scorso gennaio si è aperto l’Anno della preghiera, ‘un anno dedicato a riscoprire il grande valore e l’assoluto bisogno della preghiera nella vita personale, nella vitadella Chiesa e del mondo’. La preghiera permette a ogni uomo e donna di questo mondo di rivolgersi all’unico Dio, per esprimergli quanto è riposto nel segreto del cuore. Un intenso anno di preghiera, come via maestra verso la santità, che conduce a vivere la vita cristiana da ‘contemplattivi’, in ascolto di Dio e degli altri”.

(Tratto da Aci Stampa)

Il magistero del Beato Giovanni Paolo I, breve quanto un ciclo lunare

“Il magistero del Beato Giovanni Paolo I, breve quanto un ciclo lunare, si è centrato sulle tre virtù teologali, premettendo tuttavia, quasi come antifona di ingresso, la meditazione sull’umiltà. Questa virtù, lo sappiamo, è stata il filo conduttore della sua esistenza… La sua humilitas contrasta fortemente la moderna ossessione per i ‘followers’ e i ‘like’ dei social, sul cui altare si sacrificano, talvolta, vite, persone, ore di lavoro e di sonno, e purtroppo spesso si immola anche la verità, del dire e del pensare”.

A Tolentino il Ser.Mi.T festeggia 30 anni

Quest’anno il Ser.Mi.T (Servizio Missionario Tolentino) compie 30 anni di volontariato, nato da un’iniziativa di don Rino Ramaccioni e di Maria Antonietta Bartolozzi inizialmente per sostenere i missionari in alcuni Paesi, specialmente in Africa, in India ed in Brasile; negli anni il sostegno è  portato anche in Italia e nella città per sostenere chi ha difficoltà ad arrivare a fine mese: ora il Sermit è attivo, all’estero, con le adozioni a distanza, ed in città con i servizi erogati, quali pacchi alimentari od il ‘Centro di Ascolto’, grazie ad una cinquantina di volontari, di cui la metà attivi.

Papa Francesco agli Oblati: importante un cuore dilatato

La parola ‘oblato’ collega immediatamente all’Offerta che Cristo fece di sè al Padre attraverso il Sacrificio della Croce! La stessa etimologia della parola ‘oblato’, che deriva dal verbo latino fero (ob – fero), rinvia immediatamente alle parole della Consacrazione Eucaristica e al testo di san Paolo ai romani citato in esergo, traducendo così il participio passato oblato/offerto in un’azione che si perpetua nel tempo, soprattutto alla luce degli insegnamenti del Concilio Vaticano II.

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