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Mons. Enrique Angelelli ricordato a Montegiorgio, paese di suo padre

Nelle scorse settimane il vescovo argentino della diocesi di La Rioja, mons. Dante Braida, accogliendo la richiesta di una reliquia da intronizzare nella parrocchia della città, si è recato a Montegiorgio, in provincia di Fermo, città di 7000 abitanti, che diede i natali al padre, mentre la madre era originaria di Cingoli: Enrique, insieme ai fratelli Juanito ed Elena nati tutti in Argentina, sono figli di Giovanni Angelelli originario di Montegiorgio che è partito dall’Italia a soli 15 anni per cercare fortuna in Argentina; proprio lì conobbe Celina Carletti, originaria di Cingoli con cui si sposò. Mons. Angelelli fu trucidato dalla dittatura militare il 4 agosto 1976 ed il 27 aprile 2019 papa Francesco lo ha dichiarato beato.
Mons. Dante Braida ha sottolineato in quale modo è avvenuto l’invito: “Sono stato invitato dal parroco della Chiesa fermana, don Pierluigi Ciccarè, tramite don Mario Moriconi, sacerdote italiano che ha prestato servizio in Argentina dal 1973 al 1984, nella diocesi di Morón. In questa visita mi accompagna mons. Marcos Pirán, vescovo ausiliare di Holguín a Cuba, originario dell’Argentina (diocesi di San Isidro)”.
All’incontro ha partecipato anche il vescovo di Fermo, mons. Rocco Pennacchio,sottolineando che la testimonianza di mons. Angelelli è un messaggio attuale per la Chiesa. Durante l’omelia della celebrazione eucaristia mons. Dante Braida ha ringraziato la comunità montegiorgese per l’invito: “Ringrazio Dio per questa opportunità di testimoniare non solo la vita del beato martire Enrique Angelelli e dei suoi compagni, ma anche la sua eredità che oggi alimenta la nostra vita e le nostre azioni pastorali”.
Ed ha raccontato l’azione pastorale del beato argentino: “Nella sua azione pastorale, mons. Angelelli confidava in quella presenza di Dio che abita in tutti gli uomini; per questo invitava tutti a partecipare attivamente alla vita sociale, con la certezza che ciascuno ha qualcosa da offrire al bene comune, alla bene degli altri. E quella presenza include soprattutto i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili, tutti coloro che, agli ‘occhi dell’efficienza’ del mondo, possono essere insignificanti”.
Mentre nell’incontro cittadino mons. Braida ha valorizzato le esortazioni di mons. Angelelli ai laici: “Per questo mons. Angelelli nel suo primo messaggio ai laici ha detto: ‘Pensate, riflettete, dialogate, date la vostra opinione, partecipate, ascoltate, imparate, obbedite, intervenite, preoccupatevi, preoccupatevi per gli altri, siate partecipi solidarietà… sentirci corresponsabili insieme al vescovo, ai sacerdoti e alle suore della missione della Chiesa’. Allo stesso tempo, il nostro vescovo ci ha esortato a riconoscere che lo Spirito Santo opera in ogni persona che lavora per la giustizia e la pace, per il bene degli altri, con i quali dobbiamo camminare insieme, siano essi credenti o non credenti, membri delle organizzazioni più diverse anche se non siamo d’accordo su tutto”.
Chi era mons. Enrique Angelelli?
“Mons. Enrique Angelelli era un pastore, che ha cercato in tutti i modi di prendersi cura delle sue pecore, testimoniando il Vangelo, ed ha portato il messaggio del Concilio Vaticano II a tutte le persone della sua diocesi”.
Quale era il suo amore per la Chiesa?
“Ha veramente dato la vita per una Chiesa sinodale e per questo, quando è stato beatificato, il card. Angelo Becciu ha detto che era un martire dei decreti conciliari. Cercava questo, una persona che amava molto la Chiesa, e sebbene non fosse ben compreso ai suoi tempi da alcuni ambienti ecclesiastici, andò comunque avanti, unito alla Chiesa e fedele alla missione che gli era stata affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di rivolgerci di più alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per noi che vogliamo vivere la sinodalità”.
In quale modo si fece interprete del Concilio Vaticano II nell’Argentina?
“Cercò di rendere tutti i fedeli partecipi della vita della Chiesa, affinché la fede li aiutasse a crescere in tutte le dimensioni della loro vita familiare, lavorativa, sociale e culturale, perché ogni persona fosse in grado di scoprire la propria vocazione”.
‘Un orecchio al Vangelo, un orecchio al popolo’: in quale modo applicò questa sua ‘regola’?
“Mons. Angelelli ha applicato questo suo lemma prima nell’ascolto del Vangelo, poi nell’ascolto delle persone nella convinzione di renderle più consapevoli nel vivere il cristianesimo”.
Lei è vescovo di La Rioja, diocesi di mons. Angelelli: cosa rimane di questa eredità in quella particolare chiesa?
“E’ molto bello bere dall’eredità che ci ha dato, perché ha vissuto proprio il Concilio Vaticano II, e nel 1968 quando ha assunto la diocesi ha cercato di applicarlo, e in modo concreto incoraggiando i laici nella propria missione, soprattutto nel mondo, ed anche aiutando ad affrontare le situazioni di povertà, in cui vivono tante persone. Anche nei consigli pastorali, organizzando la diocesi per decanati per renderla più partecipativa. Era una persona che amava molto la Chiesa, e anche se non era molto compreso nel suo tempo da alcuni settori ecclesiali, tuttavia, è andato avanti, fedele alla missione a lui affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di andare oltre alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per quelli di noi che vogliono vivere la sinodalità”.
E come si pone il Sinodo nell’ascolto delle persone?
“Il Sinodo sta cercando un modo per ascoltare tutte le persone e renderle partecipe alla vita della Chiesa. Nella Chiesa ogni battezzato ha un ‘valore’ ed ha un’importanza unica: se quella persona ha una necessità o è povera deve essere al centro della comunità cristiana”.
(Tratto da Aci Stampa)
Mons. Delpini: non dimenticare l’eredità di sant’Ambrogio

“Come sarà quel giorno in cui si troveranno vicini chi ha bussato alle porte d’Italia e d’Europa e chi ha chiuso la porta; chi ha chiesto di lavorare, di rendersi utile senza morire di fame e di guerra e si è sentito dire: qui non puoi entrare perché non mi fido di te, perché ho paura, vai pure a morire altrove?… Come sarà quel giorno in cui nella luce di Cristo risorto si troveranno vicini l’assassino e la sua vittima, chi ha bombardato e chi è morto sotto i bombardamenti, chi ha subito violenza e chi ha commesso violenza? Signore che cosa sarà quel giorno?”: è stato un monito severo quello che l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha rivolto ai fedeli che hanno gremito la basilica di sant’Ambrogio per il pontificale nella solennità del santo vescovo della città di Milano e della regione Lombardia.
L’arcivescovo ambrosiano ha comunque sottolineato che tale monito deve rendere anche saggi: “Possiamo ancora accogliere la rivelazione del grande mistero affidato all’apostolo Paolo e predicato a tutte le genti: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, a essere partecipi della stessa promessa, per mezzo del Vangelo. Siamo in tempo per convertirci”.
E’ stato un invito a riscoprire il pensiero di sant’Ambrogio: “Sant’Ambrogio amò intensamente i poveri e i prigionieri, per i quali donò tutto l’oro e l’argento che possedeva. Sant’Ambrogio accolse nella Chiesa Agostino, l’illustre intellettuale di origine africana, che proprio a Milano ha portato a compimento il suo cammino di conversione e ha ricevuto il battesimo”.
Ecco la nuova visione, sempre attuale, di sant’Ambrogio: “Sant’Ambrogio aveva una visione del mondo e dei popoli ispirata dalla universalità cattolica e dalla visione politica dell’impero romano. L’impero romano è finito da un pezzo, ma la coscienza della vocazione alla fraternità universale è irrinunciabile per la coscienza cattolica”.
E’ stato un richiamo a non dimenticare l’eredità del santo vescovo ambrosiano: “Per essere degni dell’eredità di Ambrogio noi siamo chiamati a condividere questa visione cattolica. La radice del nostro desiderio di costruire una comunità unita nella fede e nella carità ha la sua radice e la sua forza nel desiderio di Gesù: ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.
La fraternità universale in cui tutti sono accolti non è una confusione indistinta, ma un superamento della separazione tra le genti che genera la contrapposizione, i nazionalismi e infine persino le guerre (così insegna Paolo nella lettera agli Efesini). Occorre resistere alla divisione che contrappone i fratelli, i popoli. ‘Attenzione al lupo’: c’è un nemico che insidia il gregge, rapisce le pecore e le disperde. La rovina è la divisione, che si conclude con l’essere schiavi di padrone, invece che abitare nella casa della libertà”.
Quindi la fraternità è solidarietà, che pone interrogativi: “La fraternità universale in cui tutti sono accolti, e hanno tutto in comune, non è una forma di comunismo, ma una pratica della solidarietà in cui i ricchi non sono troppo ricchi ed i poveri non sono troppo poveri. Come sarà quel giorno? Come incroceremo lo sguardo degli altri? Come incroceremo lo sguardo di Gesù?”
Anche nel ‘discorso alla città’ mons. Delpini ha invitato a lasciare ‘riposare la terra. Il Giubileo 2025, tempo propizio per una società amica del futuro’, perché la gente è stanca: “La gente non è stanca della vita, perché la vita è un dono di Dio che continua a essere motivo di stupore e di gratitudine. La gente è stanca di una vita senza senso, che è interpretata come un ineluttabile andare verso la morte. E’ stanca di una previsione di futuro che non lascia speranza. E’ stanca di una vita appiattita sulla terra, tra le cose ridotte a oggetti, nei rapporti ridotti a esperimenti precari. E’ stanca perché è stata derubata dell’ ‘oltre’ che dà senso al presente, sostanza al desiderio, significato al futuro”.
Ed invita ad una riflessione sul valore del lavoro: “La stanchezza della gente non è per la fatica del lavoro, perché la gente lavora con passione e serietà, impegna le sue forze, le sue risorse intellettuali, le sue competenze. Lavora bene ed è fiera del lavoro ben fatto. La gente è stanca di un lavoro che non basta per vivere, di un lavoro che impone orari e spostamenti esasperanti. La gente è stanca degli incidenti sul lavoro. La gente è stanca di constatare che i giovani non trovano lavoro e le pretese del lavoro sono frustranti. La gente è stanca della burocrazia, dell’ossessione dei controlli che tratta ogni cittadino come un soggetto da vigilare, piuttosto che come una persona da coinvolgere nella responsabilità per il bene comune”.
Ed ecco la ‘novità’ del Giubileo: “Non vogliamo e non possiamo, infatti, sottrarci al compito di interpretare e affrontare la crisi antropologica che travaglia la nostra società. Siamo chiamati a comporre le tensioni che sembrano inconciliabili: sviluppo contro sostenibilità, crisi ambientale contro crisi sociale, dimensione globale contro quella locale. Occorre un punto di vista più alto, di tipo culturale e spirituale, capace di abbracciare i vari aspetti che sono contemporaneamente in gioco. Ciò sarà possibile operando tutti insieme attraverso uno sguardo ‘contemplativo’, l’unico in grado di imprimere alla realtà umana, sociale, politica ed economica una direzione che componga aspetti vitali che da soli si presentano in termini conflittuali”.
Il Giubileo è un’occasione per riscoprire il ‘principio sabbatico’: “Il Giubileo, che si sta per aprire, deve essere un’occasione per prestare ascolto al grido di sofferenza che si leva dai popoli e dalla terra. Il Giubileo che il papa ha indetto per l’anno 2025 è un’attuazione storica del ‘principio sabbatico’: se Dio ha sentito l’esigenza di riposare, così occorre lasciare anche agli esseri umani e alla terra la possibilità di farlo.
Il ‘principio sabbatico’ custodisce il mistero del cosmo come dono di benevolenza e creatività. Senza il rispetto di tale principio, non solo non c’è più festa, ma viene a esaurirsi lo spazio dello spirito umano: la stanchezza non trova sollievo, l’umano affaticato non vive le condizioni per una ri-creazione. Il riposo è essenziale agli uomini come alla terra”.
Nel giubileo risiede il significato del riposo: “Lasciare riposare la terra non significa scegliere di assentarsi dalla storia o immaginare un periodo di semplice inerzia. Al contrario, si tratta di un esercizio fortemente attivo: chiede di raccogliere tutte le energie per evitare di continuare a fare quello che si è sempre fatto e riuscire a sospendere le abituali azioni per ascoltare e cogliere il grido di aiuto che si eleva dalla terra”.
In questo senso si può ancora sperare, in quanto nasce dalla responsabilità: “La speranza nasce anche grazie alla (e in conseguenza della) assunzione di responsabilità individuali e collettive. Significa lasciarci guidare da Dio, nel leggere e accogliere tutte le grida e le domande di riparazione che la terra mal coltivata e sfruttata eleva ogni giorno, dentro le nostre vite”.
E’ una benedizione anche per il popolo: “E benedico la gente. Benedetti tutti voi abitanti di questa terra che portate il peso della vita con la dignità operosa di chi fa fronte, di chi ha fiducia nelle istituzioni e con realismo pretende quello che è dovuto perché la stanchezza non esasperi gli animi, non opprima i fragili, non condanni i poveri.
Benedico voi che siete disponibili a portare i pesi gli uni degli altri e vi dedicate ad alimentare la speranza, a praticare una solidarietà senza discriminazioni, perché tutti possano affaticarsi nell’edificare la società e tutti possano trovare ristoro e riposo in questo nostro convivere… Che siate tutti benedetti, voi che vi prendete cura della stanchezza della gente, della città, della terra e cercate come offrire riposo nell’anno del Giubileo e in ogni anno a venire. E riposate un po’ anche voi!”
(Foto: Diocesi di Milano)
Papa Francesco ai cattolici: la memoria apre al Vangelo

Nell’ultimo giorno del viaggio apostolico in Kazakhstan papa Francesco ha incontrato prima in forma privata i gesuiti che lavorano nella regione russa eppoi ha raggiunto la Cattedrale della ‘Madre del Perpetuo Soccorso’, sede dell’arcidiocesi di Maria Santissima, salutato dal presidente della Conferenza episcopale dell’Asia centrale, istituita appena un anno fa, mons. Josè Luis Mumbiela Sierra: