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Con il prof. Adriano Dell’Asta per non dimenticare Aleksej Naval’nyj

“Contro che cosa si era battuto il Signore? Contro la menzogna, l’ipocrisia, la schiavitù, l’usurpazione del potere da parte di delinquenti e ladri. Contro tutto quello che maggiormente ci disgusta, che ha disgustato molti prima di noi e disgusterà molti dopo di noi. Non aveva chi potesse sostenerlo, cose come i nostri meeting erano proibite, gli ‘omon’ (unità speciali antiterrorismo della polizia russa dipendenti dal Ministero dell’Interno della Federazione Russa e, in passato dell’Unione Sovietica, ndr.) lo tormentavano con le lance, i mass media erano sotto il controllo dei farisei, al potere c’erano dei furfanti con proprietà immobiliari all’estero.

E dei dodici che componevano il comitato centrale del suo partito, uno era un provocatore, un traditore che si era venduto per soldi e si era messo al servizio della Sezione ‘E’ del tempo. I malvagi distrussero tutto quello che era stato fatto. I discepoli furono costretti a rinnegarlo. Lui stesso fu torturato e ucciso. E tutto crollò e calarono le tenebre. Cosa sono tutte le nostre ‘difficoltà’ ed i nostri ‘problemi’ in confronto a ciò che ha dovuto provare lui? Ma il Bene, la Giustizia, la Fede, la Speranza e la Carità ebbero comunque la meglio”.

Partiamo da questa frase che Aleksej Naval’nyj scrisse nel periodo pasquale 2014, ora raccolto nel volume ‘Io non ho paura, non abbiatene neanche voi’, curato da Marta Carletti Dell’Asta e da Adriano Dell’Asta, che insegna Lingua, cultura e letteratura russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, già direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca dal 2010 al 2014, e presidente dell’associazione ‘Russia cristiana’, a cui chiediamo di raccontarci la situazione dei diritti umani in Russia ad un anno dalla morte di Aleksej Naval’nyj, avvenuta il 16 febbraio 2024:

“Se è possibile, peggiora ogni giorno di più. A metà gennaio, gli stessi avvocati di Naval’nyj sono stati condannati a pene detentive tra i tre e i cinque anni, sotto l’accusa di far parte di un’organizzazione ‘estremista’, ma in realtà unicamente per aver svolto le loro mansioni professionali. Alla fine del luglio scorso, un prigioniero di coscienza come il pianista Pavel Kušnir è morto facendo uno sciopero della sete in prigione. Altri detenuti, come lo storico Jurij Dmitriev, sono gravemente malati e non ricevono assistenza adeguata. E potremmo continuare a lungo”.

‘Ecco la ricetta (breve) della felicità: scegliere qualcosa che si ama molto, privarsene per un po’ e poi riprenderla. Solo ricordatevi che questo non si applica alle persone: dimostrate sempre amore alle persone che vi sono care’: quale era la ricetta della felicità di Naval’nyj?

“Lo diceva lui stesso in uno dei suoi messaggi dalla prigione: ‘ho un immenso e raro privilegio nella Russia di oggi: dico ciò che ritengo giusto e faccio ciò che considero necessario’: la felicità per lui era essere uscito dal regno della menzogna di regime e dire la verità, quale che fosse il costo, perché l’uomo è felice se realizza se stesso nel suo servizio ai figli, alla famiglia, alla sua gente, per costruire, lo diceva ancora lui stesso, la bellissima Russia del futuro”.

Giorni fa è stato il primo anniversario della sua morte: è vero che in Occidente non lo si è ricordato abbastanza?

“Non direi che lo si sia ricordato poco: grandi quotidiani e televisioni gli hanno dedicato servizi anche importanti. E’ tuttavia vero che molto spesso si è rischiato di dimenticare il cuore della sua testimonianza: Naval’nyj è stato sicuramente un oppositore politico ma, soprattutto, come gli riconosceva un grande difensore dei diritti civili dell’epoca sovietica, è stato un ‘dissidente di classe’, intendendo con questa espressione un uomo che aveva lottato innanzi tutto non per degli ideali astratti o per qualche idea politica particolare, ma per la verità dell’umano nella sua interezza e aveva capito che per sostenere una simile battaglia, in una situazione come quella russa attuale (dove chi si oppone al regime rischia letteralmente la vita), bisognava avere una motivazione capace di andare ben oltre l’immediato e approdare all’eterno.

Nelle commemorazioni, pur importanti, si è avuto molto pudore a ricordare questa ispirazione esplicitamente religiosa del suo agire, un’ispirazione che però non è frutto delle nostre interpretazioni, ma è nelle sue stesse parole, ripetute più volte; lui stesso lo dice testualmente: ‘l’espressione ‘beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati’ sembra alquanto esotica, bizzarra, ma in realtà è l’idea politica più importante che abbiamo oggi in Russia”.

Intanto la repressione dei giornalisti continua: quanto è scomoda la libertà di stampa?

“La libertà di stampa non è solo scomoda per il potere, ma gli fa paura: il regime teme innanzitutto la verità perché si regge totalmente sulla menzogna e non può accettare alcuna dialettica e libertà di discussione sul presente e sul passato del Paese”.

Inoltre sono stati chiusi anche alcuni luoghi ‘simbolo’: quale segnale è la chiusura del Museo della storia del Gulag?

“La chiusura del Museo della storia del Gulag è solo uno degli innumerevoli segnali della paura della verità di cui stiamo parlando; prima era stata preceduta, nel dicembre del 2021, dalla chiusura di Memorial (l’associazione che dalla fine degli anni ‘80, con il riconoscimento ufficiale e la legalizzazione voluta da Gorbačëv, si era occupata di mantenere viva la memoria delle repressioni in epoca sovietica, raccogliendo materiali, testimonianze e un archivio enormi e stimati in tutto il mondo);

contemporaneamente era venuta l’adozione del testo unico per le lezioni di storia in tutti i livelli d’istruzione, che presenta una vera e propria riscrittura della storia sovietica (con al centro la rivalutazione della figura di Stalin). Negli ultimi mesi si era avuta la rimozione sempre più frequente delle targhe dell’ ‘Ultimo indirizzo’ (un’iniziativa sul tipo delle nostre ‘pietre d’inciampo’, con la differenza che nel caso russo venivano ricordati i deportati nei campi sovietici). E anche qui potremmo continuare a lungo”.

‘Io non ho paura, non abbiatene neanche voi’: cosa resta del suo pensiero?

“Resta letteralmente quello che viene detto in questa espressione che dà il titolo alla raccolta che ho curato per la casa editrice ‘Morcelliana – Scholè’: il regime si regge sulla paura, e per superare la tragedia di una vita governata dalla paura basta superare innanzitutto la paura, molto semplicemente non avere paura e non credere che questo possa essere un privilegio di pochi eroi; Naval’nyj era molto realista, sapeva perfettamente che tutti possiamo avere paura, ma sapeva anche che il regime poteva reggersi solo finché i suoi sudditi non scoprivano di non essere soli nell’amore per la verità. Ricordare Naval’nyj è un modo per dire a ciascuno di noi e al mondo che l’amore per la verità è possibile in ogni circostanza”.

Mons. Anselmi: amare per essere felici

“In questi mesi ho appreso che durante la Seconda Guerra Mondiale anche Rimini e i territori circostanti sono stati teatro di guerra; i nostri nonni e bisnonni, ottant’anni fa hanno vissuto scene di morte e distruzione; nella storia rimangono i quasi quattrocento bombardamenti, l’80 % della città distrutta, i morti della battaglia di Rimini, circa 20.000 tedeschi e 15.00 alleati, i campi di prigionia per più di 150.00 persone allestiti sul litorale.

Una tragedia testimoniata da rovine ancora presenti in città, dai cimiteri di guerra di Rimini e Coriano, dal ricordo vivo dei tre giovani martiri impiccati in piazza, dai resti della chiesa della Pace di Trarivi e soprattutto dal ricordo di tanti testimoni oculari. Grazie alla Repubblica di san Marino che ha accolto decine di migliaia di profughi sfollati. Signore, dona la pace al mondo e aiutaci ad essere operatori di pace”: dopo l’invocazione allo Spirito Santo, così inizia la lettera pastorale del vescovo della diocesi di Rimini, mons. Nicolò Anselmi, intitolata ‘Amerai, sarai felice e godrai di ogni bene, ora e nei secoli eterni’.

Nella lettera pastorale il vescovo ha spiegato il titolo della lettera: “Ho scelto questo titolo per sottolineare il fatto che la felicità è lo scopo della vita, è il grande desiderio di Dio e che l’amore è la strada per essere felici. Penso che tutti possiamo essere concordi nel riconoscere l’importanza

dell’amore come strada verso la felicità, a prescindere da ogni religione e cultura; qualcuno può essere indifferente al fatto religioso ma tutti siamo interessati all’amore. Non ho mai ascoltato persone teorizzare l’odio verso gli altri esseri umani; tutti siamo in fondo convinti che l’amore sia la strada maestra verso una vita bella e gioiosa. Chi è credente sa che il vero modo di amare Dio, di renderlo felice, è quello di amarci fra noi; la gioia di Dio è quella di vederci uniti come fratelli e sorelle. In questa situazione di unità l’amore per Dio e l’amore per il prossimo coincidono”.

Inoltre il vescovo ha sottolineato che la religione cristiana discende da un fatto storico: “La religione cristiana è prima di tutto figlia di un fatto storico: la Resurrezione di Gesù il giorno di Pasqua; Gesù è vivo, è risorto, è Dio. Gli apostoli e molti discepoli sono i testimoni oculari di Gesù risorto e lo hanno comunicato ai loro successori, oralmente e scrivendo testi chiamati vangeli; dai cosiddetti Padri Apostolici, coloro che hanno conosciuto personalmente gli apostoli ma non hanno incontrato direttamente Gesù, attraverso una lunga catena di fedeltà, pagata fino al sangue del martirio, questa certezza di Fede è arrivata fino a noi. E i vescovi sono i successori dei dodici apostoli. Ogni settimana, la domenica, celebriamo la Pasqua basandoci su questa catena di testimonianza comunitaria che collega gli apostoli e la comunità primitiva con i vescovi e la comunità cristiana di oggi: la chiesa è il popolo che da duemila anni trasmette la verità della resurrezione di Gesù e quindi la sua divinità”. 

La lettera è un invito ad ‘essere costruttori del Regno di Dio: “Essere costruttori del Regno di Dio, il regno dell’amore, della pace, della gioia è la vocazione più bella che abbiamo ricevuto, è il senso della vita; tutti siamo invitati a fare la nostra parte, a lavorare nella vigna del Signore, sani e malati, ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e adulti, bambini e anziani, sacerdoti e laici, di qualunque nazione e cultura.

Un modo per essere costruttori del regno, messaggeri di amore, missionari di pace è raccontare la presenza trasformante di Dio nelle nostre giornate, nelle grandi svolte della nostra esistenza, le luci quotidiane, la gioia dei piccoli gesti d’amore, l’essere guidati, aiutati, consolati dallo Spirito Santo; è importante raccontare con umiltà, con le parole e le opere, la gioia che abbiamo provato nel compiere gesti di carità, di bontà, di perdono, di servizio verso gli ultimi, verso chi soffre, sostenuti dallo Spirito Santo”.

Al contempo mons. Anselmi ha evidenziato la necessità di pregare: “Pregare è un atteggiamento del cuore sempre presente durante la giornata. Pregare è un modo di vivere; pregando ogni ghiaccio si scioglie, ogni durezza si ammorbidisce, ogni paura svanisce, le parole incomprensibili diventano chiare, la stanchezza diventa vigore, le lacrime puliscono gli occhi e ci aiutano a vedere meglio. Lo Spirito Santo di Gesù prega in noi. La preghiera personale ci è necessaria per assaporare il senso della vita”.

Ed ecco la necessità del discernimento per porsi in ascolto dello Spirito Santo: “Se lo Spirito Santo è presente in ogni essere umano, per scoprire ed ascoltare la voce dello Spirito, è necessario che le persone siano capaci di ascoltare gli altri, nel silenzio, nella profondità, nella verità e nella libertà. Lo stare insieme fra persone dovrebbe sempre avere le caratteristiche dell’ascolto e della scoperta di ciò che è più luminoso, brillante, profumato. Sarebbe bello che, quando ci si ritrova, tutti avessero la possibilità di parlare e di essere ascoltati.

Chi è più espansivo, esperto, preparato deve saper dare spazio agli altri, a tutti, ai più giovani; tutti devono potersi esprimere. La conversazione spirituale in cui tutti parlano e sono ascoltati è una scuola per non giudicare rapidamente, per non voler imporre a tutti i costi la propria idea. Ogni conversazione dovrebbe iniziare con l’invocazione dello Spirito, proseguire con l’ascolto della Parola di Dio, essere pacata, leggera, mite, buona, sottolineare ciò che hanno detto gli altri e concludersi con un rendimento di grazie a Dio. La conversazione spirituale può aiutare a scegliere attraverso il discernimento personale e comunitario”.

Non poteva mancare un capitolo dedicato a don Oreste Benzi: “Lo Spirito Santo attraverso don Oreste ha donato al mondo l’intuizione pastorale che la famiglia è il grembo originario in cui il Vangelo si incarna e può essere vissuto. Le Case-Famiglia da lui volute sono luci che brillano, illuminano la Chiesa e la società, suscitano il desiderio in altre famiglie di essere aperte, accoglienti, vere chiese domestiche, sacramenti dell’amore di Dio, scaldate dalla presenza eucaristica.

Don Oreste, e tante persone con lui, hanno risposto a una molteplicità infinita di domande di amore; i preti e i giovani sono stati le sue grandi passioni testimoniate dalla vita comune da lui vissuta con alcuni fratelli sacerdoti e dall’impegno costante con e verso i giovani, nei campi estivi ed in mille esperienze. Con i giovani e per i giovani si è speso in tutte le situazioni invitandoli ad essere santi e ad affidarsi a Gesù.

Ha seminato il Vangelo in tutti i terreni possibili: la dipendenza dalle droghe, la sofferenza del carcere, la schiavitù della prostituzione, la cura della disabilità, l’accoglienza dello straniero, l’amicizia con le persone nomadi e Rom, l’amore per la vita nascente, l’impegno per evitare ogni interruzione di gravidanza e la disponibilità ad aiutare le famiglie e ad accogliere i neonati, la gratitudine verso gli anziani, l’operatività a favore della pace, l’animazione missionaria.

La molteplicità di queste risposte e l’opera dello Spirito Santo ha fatto nascere un’associazione di laici e consacrati, ispirata alla bontà di San Giovanni XXIII che chiedeva ai giovani porte, finestre, chiese e case aperte”.

Un capitolo è dedicato alla famiglia, che Dio chiama attraverso il matrimonio: “Il matrimonio è una chiamata di Dio, nasce nella comunità cristiana. Tutti devono pregare perché i ragazzi scoprano questa vocazione. Le persone si innamorano se sentono che qualcuno le ama, si prende cura di loro.

Il sacramento del matrimonio è la presenza di Dio nella vita dei due coniugi; c’è chi dice che l’amore può spegnersi e finire, ma la preghiera, la Parola di Dio, i sacramenti dell’Eucarestia e della Confessione sono Amerai, sarai felice e godrai di ogni bene ora e nei secoli eterni sostegni sicuri perché il fuoco dell’amore e dell’unità continuino ad ardere incessantemente”.

Un pensiero anche per le famiglie separate e divorziate: “Un caro abbraccio alle coppie separate, divorziate, risposate civilmente e ai vostri figli; la Chiesa di cui fate parte vi è vicina, prega per voi e con voi desidera cercare nuove strade di presenza nella comunità cristiana perché possiate far fruttificare il dono che ogni essere umano porta con sé; cercate un accompagnatore spirituale e cominciate a camminare secondo lo Spirito di Gesù.

In alcuni casi, dopo un percorso sempre doloroso, gli sposi hanno scoperto che alla base della loro separazione c’era una scelta non pienamente consapevole; in queste situazioni si può arrivare a una dichiarazione di nullità del matrimonio che non consiste nella cancellazione del sacramento bensì nell’affermazione che il sacramento, per vari motivi, non c’è mai stato. Oggi il percorso per la dichiarazione di nullità è più semplice di un tempo”.

Inoltre il vescovo ha sollecitato ad una presenza in politica: “L’impegno in politica è una vera e propria vocazione; gli amministratori locali hanno la possibilità di ben operare per la vita delle persone; invito giovani e adulti a rendersi disponibili ad assumere ruoli di responsabilità e coordinamento nell’associazionismo, nel volontariato, nelle organizzazioni di categoria, negli organismi di partecipazione a scuola e nelle università; servire il bene comune può essere faticoso ma dona gioia.

Anche studiare, leggere, informarsi, partecipare, andare a votare nei vari turni elettorali, cercando di sostenere le realtà e le persone che portano idee in armonia con il vangelo, sono gesti di amore per il bene comune”.

La lettera si chiude con una visione giubilare: “E’ bello che tutte le persone sappiano ascoltare le richieste di aiuto che silenziosamente ci raggiungono, che tutti sappiano dare speranza, senza giudicare, perché la persona è più grande anche delle proprie fragilità. La storia della nostra salvezza è piena di peccatori convertiti, perdonati: Mosè, il grande re Davide, San Paolo persecutore della Chiesa.

Una persona mi ha confidato che vorrebbe vivere un giubileo cantato, un inno di lode alla presenza di Dio. Le chiese aperte, abitate dal canto e dalla preghiera, anche in pausa pranzo o di sera, sarebbero un segno bello del Giubileo. Il Giubileo ha bisogno di tutti, ed in particolare, di volontari, disponibili ad accompagnare i pellegrini nella visita ai luoghi giubilari ed a proporre un cammino spirituale”.

(Foto: Diocesi di Rimini)

Papa Francesco invita ad essere felici nell’annuncio di Cristo

Oggi giornata di incontri per papa Francesco che ha ricevuto in udienza i rappresentanti dell’Arma Trasporti e Materiali dell’Esercito Italiano, in occasione del 70° anniversario della proclamazione di san Cristoforo come patrono, rivelando che anche lui porta una sua medaglia, sottolineando la necessità di una protezione divina:

“Mi rallegro che un corpo militare abbia chiesto e ottenuto l’alto patrocinio di un Santo martire, che ha donato la vita per testimoniare Cristo. Questo significa in primo luogo riconoscere che non vi è professione o stato di vita che non abbia la necessità di ancorarsi a valori veri, e non abbia bisogno della protezione divina.

Anzi, si potrebbe affermare che, quanto più la propria professione comporta la possibilità di salvare vite o di perderle, di portare sostegno, aiuto e protezione, tanto più ha bisogno di mantenere un codice etico elevato e un’ispirazione che attinge dall’alto”.

Inoltre ha sottolineato l’importanza di un patrono: “Avere un Santo patrono e andarne fieri vuol dire impegnarsi, nel servire la Patria, a operare con uno stile che pone al vertice la dignità di ogni persona umana, che è immagine del Creatore: noi siamo immagini di Dio. Uno stile che si distingue per la difesa dei più deboli e di coloro che si trovano in pericolo sia a causa delle guerre, sia per le catastrofi naturali o le pandemie.

Onorare il vostro Patrono significa anche riconoscere che la perizia, il senso del dovere, l’abnegazione di tutti e di ciascuno sono certo necessari, ma che oltre tutto questo occorre anche impetrare dal Cielo quel supplemento di Grazia, indispensabile per compiere al meglio le missioni che si intraprendono. Significa, in breve, riconoscere che non siamo onnipotenti, che non tutto è nelle nostre mani e abbiamo bisogno della benedizione divina”.

Inoltre si è congratulato per la presenza accanto alla popolazione durante le calamità naturali: “Mi congratulo per questa vostra sensibilità, per il fatto che avete la consapevolezza del valore e della delicatezza dei vostri compiti, i quali non sarebbero in sé straordinari, ma lo possono improvvisamente diventare. Voi lo sapete bene: lo diventano quando siete chiamati a intervenire in operazioni di salvaguardia della pace, o per far fronte alle conseguenze di disastri naturali, assolvendo a compiti di protezione civile e alle indispensabili attività logistiche”.

Presenza sia in Italia che all’estero: “Infatti, voi avete prestato la vostra opera a sostegno dei cittadini e degli Enti locali e territoriali in diversi momenti di emergenza quali terremoti, alluvioni, pandemia. Avete allestito campi, attendamenti e ospedali da campo, avete trasportato generi di prima necessità, materiali utili per la ricostruzione e le vaccinazioni.

Siete stati inoltre presenti anche fuori dai confini nazionali nell’ambito delle missioni di pace, garantendo l’attività di rifornimento, sia per la logistica militare sia per il trasporto e la distribuzione di materiali e generi vari a scopo umanitario”.

Un servizio essenziale per il ‘bene comune’: “Esso comporta il porsi a disposizione del bene comune, non risparmiando energie e fatiche, non retrocedendo davanti ai pericoli per portare a termine il proprio compito, che spesso ha come risultato la salvezza di vite umane e può comportare il sacrificio della propria incolumità. Servizio, servire, e il servizio ci dà dignità. Qual è la tua dignità? Sono servitore: questa è la grande dignità!”

Ed una volta terminato il proprio ‘dovere’ molti scelgono di restare volontari: “A questo proposito, è significativo che molti uomini e donne, alla conclusione del loro servizio attivo, non si allontanino dall’Arma Trasporti e Materiali, ma scelgano di far parte dell’Associazione Nazionale Autieri d’Italia.

In qualità di volontari, offrono il loro aiuto alla collettività, testimoniando che la disposizione a servire è divenuta in loro un abito naturale, come una caratteristica normale della loro esistenza, che non si può dismettere da un momento all’altro, ma che invece va calibrata a seconda dell’età e delle condizioni di ciascuno, perché tutti, ad ogni età, possono dare il loro contributo, continuando a servire”.

Quindi la scelta del patrono san Cristoforo, che significa ‘colui che porta Cristo’ è stata scelta bene per tale ‘corpo’: “Quando vi impegnate quotidianamente senza risparmio per la funzionalità dei vostri reparti; quando andate in aiuto a popolazioni provate dalle calamità naturali o dai conflitti armati, voi, a volte senza saperlo, portate in un certo senso lo stile di Cristo, venuto per servire e non per essere servito: questo è Gesù, che passò su questa Terra beneficando e risanando tutti”.

Sempre in mattinata il papa ha incontrato i seminaristi di Toledo, invitandoli ad essere vicini al popolo di Dio: “Voi sapete che i preti devono essere vicini, devono favorire la vicinanza: innanzitutto la vicinanza a Dio, in modo tale che ci sia questa capacità di trovare il Signore, di essere vicini al Signore. In secondo luogo, la vicinanza ai vescovi e la vicinanza dei vescovi ai sacerdoti. Un prete che non è vicino al suo vescovo è zoppo, gli manca qualcosa. Terzo, la vicinanza tra voi sacerdoti, che inizia dal seminario e quarto, la vicinanza al santo popolo fedele di Dio. Non dimenticare questi quattro quartieri”.

Ed ha rievocato la processione del ‘Reservado’: “Una tradizione antica che ricorda la prima volta che il Santissimo Sacramento fu conservato nel Tabernacolo della sua cappella. Notate come si genuflettono quando vanno lì. Aspetto.

Questa interessante rievocazione prevede tre momenti: la celebrazione dell’Eucaristia, l’esposizione del Santissimo Sacramento durante tutta la giornata e, infine, la processione. Queste tappe possono servire a ricordarci gli elementi fondamentali del sacerdozio al quale vi preparate. Innanzitutto la celebrazione eucaristica. Gesù che viene nella nostra vita per darci la prova dell’amore più grande. Gesù ci chiama, come Chiesa, ad essere presenti nel sacerdozio e nel popolo, nel sacramento e nella Parola. Spero che averlo sulla terra assorba le vostre vite e i vostri cuori”.

Nella prima mattinata il papa aveva incontrato le agostiniane del convento di Talavera de la Reina, che lo scorso anno hanno festeggiato 450 anni dalla fondazione, con l’invito a non perdere l’umorismo: “E per favore, non perdere la gioia, non perdere il senso dell’umorismo. Quando un cristiano, ancor più una suora, un religioso, perde il senso dell’umorismo, si ‘inaridisce’, ed è tanto triste vedere un prete, un religioso, una suora ‘inaridito’. Si conservano sott’aceto. Bisogna sempre essere con il sorriso e il buon umore. Ti consiglio di recitare ogni giorno una bellissima preghiera di san Tommaso Moro per chiedere il senso dell’umorismo”.

(Foto: Santa Sede)

Solennità di tutti i Santi: Festa della Chiesa: una, santa, cattolica, apostolica

La solennità di ‘Tutti i Santi’, che si celebra il 1° novembre, ci invita ad innalzare gli occhi al cielo e a meditare la vita divina che ci attende. Con il Battesimo ci siamo innestati a Cristo, ‘siamo  divenuti figli di Dio, ma ciò che ci attende non ci è stato ancora rivelato’ (1 Gv., 3,2). Veri figli amati da Dio, riceviamo anche la grazia e gli aiuti per sopportare tutte le prove della vita. Come veri figli di Dio, raggiungere la santità è lo scopo primario della vita sulla terra; d’altronde non si può dimenticare che con il  battesimo siamo divenuti tralci dell’unica feconda ‘vite’ che è Cristo Gesù: ‘Io sono la vite, voi siete i tralci’ insegna Gesù; membra del corpo mistico che è Cristo Gesù.

La solennità di oggi è pertanto la festa della Chiesa, di tutti i cristiani sia che sono gi passati attraverso la grande tribolazione, sia quelli che ci troviamo ancora in questo cammino  terreno  ma diretti tutti verso l’unica meta che è la vita eterna. Così oggi, solennità di tutti i Santi, siamo chiamati a contemplare la città del cielo, che è nostra vera patria eterna. Per raggiungere questa meta Dio ha conferito a ciascuno di noi talenti, carismi e vari doni celesti, doni mirabili della sua misericordia divina.

Ciascuno di noi è chiamato a mettere a fuoco i doni ricevuti  e con la forza dello Spirito santo, che abbiamo ricevuto nel Battesimo, a vivere la nostra vita terrena nella gioia cristiana. La vita infatti è un cammino verso la meta,  la patria eterna. Ciascuno di noi è chiamato a svolgere con santità, slancio, umiltà e fortezza il proprio ministero: papa, vescovi, sacerdoti, coniugi, lavoratori ricchi e poveri. Realizzare la santità svolgendo nella gioia il proprio ruolo.   

Da qui il discorso sulla montagna di Gesù, che abbiamo ascoltato nella lettura del vangelo; il discorso che è il documento ufficiale con il quale Gesù ha proclamato le ‘beatitudini’, invito chiaro e mirabile a vivere responsabilmente ciascuno la propria vocazione. Gesù non è venuto ad insegnare come si possa stare bene sulla terra ma come si può e si deve conquistare la felicità vera che ci permette di vivere e camminare  per raggiungere la vita eterna.

Nell’annuncio Gesù inizia con il dire ‘beati’; è l’annuncio principale: avere la felicità, la gioia, che non è una conquista umana ma la scoperta e la consapevolezza di essere figli di Dio, perciò vero dono di Dio. Senza gioia la fede è opprimente; in paradiso non c’è posto per i tristi, i musoni, gli arrabbiati: non c’è vera santità senza la gioia.

La vocazione dell’uomo è essere felici; questa felicità si conquista attuando il progetto divino dell’amore: amare Dio creatore e padre, amare i fratelli nel nome di Dio. Ecco in sintesi cosa necessita per avere la vera gioia. Da qui le beatitudini; beati i poveri di spirito, beati coloro che non hanno l’anima legata alla cose terrene, alle ricchezze ma a Dio con l’amore; hanno il cuore libero da ogni impaccio terreno e gli occhi e il cuore rivolti solo alla meta. la vita eterna. 

Beati i miti: non sono i timorosi, i pusillanimi ma quelli che si aprono a Dio senza invidia per i fratelli e sperano solo nel Signore Gesù. Beato (sono felici) quelli che hanno fame e sete della giustizia:  giustizia è rispetto verso Dio e verso i fratelli: dare a ciascuno il suo. Come vedi: la beatitudini sono un messaggio controcorrente; laddove il modo dice e predica ai quattro venti: beati i ricchi, i potenti, quelli che godono fama e successo, quanti si divertono; le beatitudini del Vangelo hanno un tenore  diametralmente opposto. 

Le beatitudini sono la profezia dell’umanità nuova, redenta da Cristo Gesù: costituiscono  la vera regola d’oro dei Figli di Dio. Oggi rendiamo onore a tutti i Santi di tutti i tempi; domani rivolgiamo preghiere e suffragi per i nostri cari defunti. Nella festa di tutti i Santi un posto mirabile è riservato a Maria, la Madre del Verbo incarnato; Maria è al vertice della comunione dei santi, la vera Regina degli angeli e dei santi.

La Beata Vergine, guida sicura alla santità, noi la imploriamo perchè ci prenda per mano, ci copra con il suo manto materno  nel nostro pellegrinaggio terreno verso il cielo.  Non dimentichiamo: se la santità è la comune meta di ciascuno di noi, le Beatitudini enunciate da Gesù indicano la strada che ci viene offerta per raggiungerla.

Chiamati alla vera felicità: abbracciare il sogno di Dio con Maria Assunta in Cielo

L’ultima giornata del Sinodo Salesiano dei Giovani, commemorativa della Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, a Torino si è aperta con una celebrazione eucaristica nella basilica inferiore del Colle Don Bosco, presieduta dal Rettor Maggiore, il card. Ángel Fernández Artime e concelebrata da numerosi salesiani provenienti da tutto il mondo. Aggiungendo un tocco speciale alla liturgia, i partecipanti provenienti dall’India hanno cantato inni durante la messa, in splendida coincidenza con il giorno dell’Indipendenza dell’India.

Nella sua omelia, don Jose Lorbeth ha riflettuto sulla ricerca universale della felicità, una ricerca che spesso porta le persone a ricercare la realizzazione nella ricchezza materiale e nel successo personale. Tuttavia, ha sottolineato che solo in Dio si trova la vera felicità: una verità vividamente esemplificata dalla festa dell’Assunzione. Nel celebrare l’Assunzione di Maria al Cielo, è ricordato che la felicità ultima ci attende alla presenza divina, dove siamo chiamati a essere pienamente uniti a Dio per l’eternità.

Il messaggio di don Lorbeth invitava i giovani a contemplare la natura della felicità e a considerare fugace la soddisfazione che spesso portano i risultati mondani. Ha condiviso una sorprendente analogia con le Olimpiadi, dove le medaglie di bronzo sono risultate essere le più felici tra i vincitori, non perché avevano raggiunto l’apice del successo, ma perché erano contenti di ciò che avevano ottenuto. Al contrario, le medaglie d’argento, che erano arrivate così vicine alla vittoria dell’oro, spesso lasciavano un senso di insoddisfazione.

La testimonianza di un delegato durante il Sinodo ha ulteriormente illustrato questo punto. Il giovane atleta ha raccontato come la sua ricerca iniziale dell’eccellenza sportiva, guidata dalle aspettative del padre, abbia portato felicità. Tuttavia, fu il loro coinvolgimento nelle attività della chiesa e nel servizio ai compagni giovani a portarli a una realizzazione più profonda e, con loro sorpresa, il padre si rallegrò ancora di più di questa ritrovata dedizione spirituale. Questa storia sottolinea che la vera felicità deriva dall’allineare la propria vita al sogno di Dio, proprio come fece Maria.

L’Assunzione di Maria al Cielo è una potente testimonianza della gioia e della realizzazione che derivano da una vita interamente dedicata a Dio. La vita di Maria è stata un continuo ‘sì’ alla volontà di Dio, una scelta fatta anche di fronte alle difficoltà e all’incertezza. La sua Assunzione, in corpo e anima, al Cielo è un privilegio concessole grazie alla sua fede incrollabile e al completo abbandono al piano di Dio. Ricorda a tutti noi che il paradiso è la ricompensa per coloro che scelgono Dio come fonte ultima di felicità.

Nel pomeriggio il card. Ángel Fernández Artime, Rettor Maggiore, ha dialogato con i giovani delegati di tutto il mondo, offrendo saggezza e orientamento, radicati nella sua proprie esperienze di vita. Sei delegati, in rappresentanza di diverse regioni del mondo, si sono uniti al card. Ángel Fernández Artime sul palco, leggendo domande attentamente selezionate in anticipo.

Nelle sue risposte, il cardinale ha parlato con trasporto dell’importanza di allineare la propria vita alla volontà di Dio. Ha ricordato ai giovani delegati che la vita è intrinsecamente impegnativa, ma con la presenza di Dio queste sfide possono essere affrontate con gioia e resilienza. Ha esortato i partecipanti a non lasciare il Sinodo senza porsi la domanda vitale: ‘Dio, qual è il tuo sogno per me?’ Cedendo il controllo a Dio, ha assicurato loro, si viene condotti a esperienze e luoghi oltre l’immaginazione.

Ai giovani il card. Artime ha dato un consiglio essenziale: ‘Non potete dare ciò che non avete’. Ha sottolineato la necessità di centrare la propria vita in Cristo affinché possano veramente offrirlo ai giovani che servono. Le opere salesiane devono portare a profonde esperienze di vita che avvicinino i giovani a Cristo. Ha avvertito con forza che qualsiasi opera salesiana che provoca burnout dovrebbe essere riconsiderata o addirittura chiusa: “Il cuore della pastorale salesiana è offrire incontri vivificanti che nutrono sia coloro che servono, sia i serviti”.

Citando san Giovanni Paolo II, ha esortato i delegati ad abbracciare il coraggio e la fiducia in Dio, anche nei momenti di paura. Ha riconosciuto che la paura è una parte naturale della vita, ma è anche un’opportunità per crescere e approfondire la propria fiducia in Dio. Interrogato sul suo timore più grande per la Congregazione Salesiana, il cardinale ha candidamente espresso che sarebbe molto preoccupato se i Salesiani di Don Bosco e le Figlie di Maria Ausiliatrice si allontanassero mai dall’identità carismatica che a loro ha affidato san Giovanni Bosco:

“Un salesiano consacrato dovrebbe poter affermare quotidianamente che la sua vita è interamente dedicata ai giovani. Anche in età avanzata, quando la partecipazione fisica alla missione può venir meno, il loro cuore deve restare colmo di amore per i giovani”.

Nelle sue ultime parole, il Card. Ángel Fernández Artimel ha ricordato ai giovani delegati l’immenso privilegio che hanno nel far parte di questo storico Sinodo: “Tra i 2.000.000 di giovani impegnati nelle opere salesiane nel mondo, sono stati scelti proprio loro per rappresentarli in questo significativo incontro”.

Mentre nella celebrazione eucaristica di apertura del Sinodo dei giovani il Rettor Maggiore ha sottolineato che lo scopo del Sinodo va ben oltre i giochi e i canti: “Questo incontro è un’opportunità unica per lavorare insieme, ascoltarsi reciprocamente con grande attenzione e impegnarsi in un dialogo significativo sui sogni e le aspirazioni dei giovani di oggi”.

Durante l’omelia, il Rettor Maggiore ha richiamato l’attenzione sul potente messaggio della prima lettura, in cui un angelo parla al profeta Elia, esortandolo ad ‘alzarsi e mangiare’ (1Re 19:5) mentre affronta una disperazione schiacciante per incoraggiare i giovani a non arrendersi di fronte alle sfide. Ha ricordato loro che Dio chiama ogni persona a compiere una missione unica, ed è solo Dio che segnalerà quando la missione è completa.

Riflettendo sulla propria esperienza di salesiano, il Rettor Maggiore ha condiviso un’osservazione. Ha parlato di come le persone spesso si chiedano se sia possibile vivere senza Dio. Ha riconosciuto che, sebbene sia possibile, una vita del genere non è appagante. L’ha paragonata alla perdita dell’amore di una madre: chi ha conosciuto l’amore di una madre non potrà mai sentirsi veramente completo senza di esso, mentre chi non ha mai conosciuto tale amore non può comprendere appieno ciò che gli manca.

Il Sinodo Salesiano dei Giovani è coinciso con il bicentenario del ‘Sogno dei nove anni’ di don Bosco, un momento cruciale che avrebbe ispirato il carisma salesiano. Nel suo caloroso benvenuto, don Jose Lorbeth Vivo, coordinatore dell’evento, ha sottolineato che questo sogno è la ragione stessa per cui i convenuti si sono riuniti a Valdocco: una potente testimonianza dell’influenza duratura dei sogni quando si allineano alla volontà di Dio.

Don Vivo ha sottolineato il significato simbolico del logo del Sinodo, spiegando che l’evento è concepito come un’esperienza coinvolgente di preghiera, comunità, riflessione e dialogo: “Il sinodo onora sia il sogno del giovane Giovanni Bosco, sia le aspirazioni della gioventù salesiana di oggi. Incarna lo spirito salesiano della sinodalità, unendo i giovani sotto il manto protettivo di Maria, simboleggiato dal colore blu nel logo. Questa immagine riflette il loro cammino di discernimento e di preghiera, guidandoli verso Cristo, il Buon Pastore”.

Il tema ‘Guardare il sogno’ ha guidato i partecipanti nelle loro riflessioni, ricordando loro che sono parte di un sogno più grande e divino: “Un sogno che è iniziato ai nove anni di vita di Giovanni Bosco e continua a ispirare milioni di persone in tutto il mondo. Il Sinodo dei Giovani Salesiani 2024 è più di un evento: è un movimento, una celebrazione e una testimonianza del potere dei sogni allineati con la visione di Dio”.

(Foto: Ans)

‘Sono speciale’: nuovo brano della pop rock band Kantiere Kairòs con l’etichetta discografica La Gloria

“La canzone parla del sentirsi amati da Dio. Per Dio ciascuno di noi è speciale, al punto che per Lui è valsa la pena morire per ciascuno di noi in croce. Che ci vuole bene oltre ogni misura, che ci ama personalmente di un amore particolare in una relazione specifica», spiega il gruppo cosentino di musica cristiana”.

Gabriele Di Nardo (batterista), Davide Capitano (basso), Giuseppe Di Nardo (chitarre) e Antonello Armieri (voce e chitarra acustica) hanno iniziato a lanciare i loro #SONOSPECIALE PER LUI… sui profili della band, raccontando in che modo e quando si sono sentiti amati da Dio in maniera speciale.

“Prendere consapevolezza della propria normalità rende felici e fa stare bene. Quando guardo la mia storia da un’altra prospettiva mi rendo conto che forse non è tutto sbagliato. Guardo indietro e vedo le rovine di una vita disordinata, per meglio dire ‘sfiduciata’, dalle nostre parti diremmo un ‘Kantiere sempre aperto’, scrive Gabriele.

Ma basta cambiare prospettiva: un altro punto di vista mi fa cogliere dettagli che fra quelle rovine non vedevo. Oggi Qualcuno mi ha detto che sono ‘il migliore del mondo’ ed è in quell’istante che ho capito che stavo guardando nella direzione sbagliata. La mia vita ‘banalmente normale’ per qualcuno è davvero importante. Vorrei che anche tu provassi solo per un istante a guardare con occhi diversi la tua vita per scoprire quanto importante tu sia per gli altri”.

Riflette Davide: “C’è stato un momento della mia vita in cui mi sentivo invincibile e pieno di forza, ma non mi rendevo conto della pochezza delle mie azioni. Ho preso consapevolezza della mia ‘povertà’ quando un giorno mi sono trovato davanti a Gesù Eucarestia, travolto da un abbraccio di emozioni indescrivibili. A 36 anni, dopo più di 10 passati a lodarLo, mi sento speciale, particolarmente in questi giorni, perché sono stato testimone del miracolo della vita con l’arrivo di mia figlia Chiara”.

Incalza Jo: “A quasi 50 anni, rifletto sui passaggi decisivi della mia vita, belli e dolorosi. Ogni esperienza, apparentemente scollegata dalle altre, è in realtà un tassello di un mosaico più grande. Mi rendo conto che c’è una mano amorevole che guida quest’opera, portandomi a vivere con serenità e fiducia, sicuro che tutto concorra al mio bene. Comprendo così che anche il dolore ha un senso: Dio può anche deludere le nostre aspettative, succede! Ma, per dirla con le parole di Epicoco, lo fa solo per realizzare i nostri sogni! Lui ci conosce più di noi stessi e sa di cosa abbiamo veramente bisogno! Questo mi fa sentire speciale!”

“Per gran parte della mia esistenza mi sono sentito nel posto sbagliato, inadeguato, in ritardo rispetto a ciò che avrei potuto ottenere, fuori posto. Cercavo conferme ed approvazioni in situazioni, luoghi e persone che non potevano dissetare quella sete di vita che solo Dio può dare, testimonia Antonello. Ho capito di essere speciale e che Dio mi ama a prescindere dai miei difetti e limiti, in seguito ad una profonda e sincera confessione a Medjugorje, dopo la quale mi sono sentito finalmente libero, accolto, amato e non giudicato.

Ho preso coscienza che il primo passo per tutte le guarigioni è sapermi voluto da Dio, desiderato da Lui. Certo, ho dovuto sperimentare la fiducia in Lui, perché i Suoi piani non erano i miei, e c’ho messo anni, diversi anni a mollare la presa. Ma Lui era lì, sempre, paziente e fedele. Voleva donarmi molto più di quello che Gli chiedevo. Oggi, se chiudo gli occhi, sento nel cuore la Sua voce che dice: Sei speciale, perché sono morto per te!”

Si può inserire la propria testimonianza, raccontando in quale momento della propria vita ci si è sentiti amati da Dio in modo speciale, con un post sui propri canali usando l’hashtag #sonospeciale e il tag del profilo del Kantiere Kairòs. Il brano ‘Sono speciale’ è disponibile su tutte le piattaforme on line da ieri 10 agosto.

Papa Francesco: la temperanza rende bella la vita

“Ed anche il nostro pensiero, di tutti noi, in questo momento va alle popolazioni in guerra. Pensiamo alla Terra Santa, alla Palestina, a Israele. Pensiamo all’Ucraina, la martoriata Ucraina. Pensiamo ai prigionieri di guerra: che il Signore muova la volontà per liberarli tutti. E parlando dei prigionieri, mi vengono in mente coloro che sono torturati. La tortura dei prigionieri è una cosa bruttissima, non è umana. Pensiamo a tante torture che feriscono la dignità della persona, e a tanti torturati. Il Signore aiuti tutti e benedica tutti”: così al termine dell’Udienza Generale di oggi papa Francesco ha rivolto un appello per la liberazione di tutti i prigionieri di guerra, come aveva già chiesto nella benedizione ‘Urbi et Orbi’ della domenica di Pasqua.

Ed oggi nella catechesi dedicata ai vizi ed alle virtù il papa ha affrontato l’ultima virtù cardinale, che è la temperanza: “Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità.

Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente ‘potere su sé stessi’. La temperanza è un potere su sé stessi”.

Quindi la temperanza è una virtù di ‘autodominio’, come è definito anche dal Catechismo della Chiesa cattolica al n^ 1809: “Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che ‘la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà.

La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore’. Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura”.

La temperanza è una virtù saggia e ‘preparata’: “In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare”.

Per questo il papa tratteggia la fisionomia della persona temperante: “Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Q

uanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo”.

La persona temperante pensa alle parole giuste: “La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite.

Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli”.

La persona temperante è empatica, pur restando fedele ai principi ‘non negoziabili’: “Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera.

Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse”.

Infine è ‘equilibrata’ e non cerca popolarità: “Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola.

E’ sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri”.

Quindi papa Francesco ha concluso la catechesi affermando che la temperanza rende pieni di gioia: “Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato.

La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza”.

(Foto: Santa Sede)

‘E’ Gesù che cercate quando sognate la felicità’: la Missione Popolare dei Missionari del Preziosissimo Sangue a Celano

“La Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue fondata da San Gaspare del Bufalo il 15 agosto 1815, fedele al carisma del Fondatore e alla tradizione secolare delle missioni popolari, continua anche oggi, da oltre 200 anni, questo servizio alla Chiesa attraverso l’attività apostolica e missionaria del ministero della Parola”: spiega don Flavio Calicchia, direttore del Centro per la Predicazione della Provincia Italiana. 

“La missione popolare, continua don Flavio, è un tempo di predicazione straordinaria che mira a raggiungere tutti, non lasciando indietro nessuno: famiglie, scuole, associazioni sportive, ospedali, RSA, persone anziane o comunque in condizioni di fragilità, carceri… e poi ancora, i luoghi di vita quotidiana: attività commerciali, piazze, bar, sale giochi, centri di aggregazione…

I missionari, in stretta collaborazione con i Vescovi e i Parroci, organizzano il tempo e il modo dello svolgimento della missione tenendo conto della motivazione di tale richiesta e i bisogni reali della parrocchia e del territorio dove essa quotidianamente svolge il suo servizio. L’obiettivo centrale della missione? La prossimità, che nasce dalla consapevolezza di un bisogno e l’incontro personale con Gesù, il prossimo per eccellenza! E’ Lui l’unica fonte di ogni nostra ispirazione! La missione è un vero e proprio tempo di Grazia!”

Don Gabriele Guerra, parroco del Sacro Cuore, a Celano, in una lettera rivolta a tutta la comunità parrocchiale condivide: “Carissimi, la missione popolare che vivremo qui in Parrocchia dal 2 al 17 marzo, è un momento di Grazia che il Signore ci offre. Mi torna alla mente il versetto del Libro dei Re, quando Elia cerca di cogliere la presenza di Dio nei grandi segni e invece Dio si rende presente in un leggero soffio di vento.

Sappiamo riconoscere in questi giorni il Signore che passa nelle nostre vite. Saranno molti gli appuntamenti che ci vedranno coinvolti e saremo cosi aiutati dai Missionari del Preziosissimo Sangue a saper cogliere quello che Dio vuole dirci, affidando a Maria la nostra vita. Faccio mio quello che san Gaspare del Bufalo scrisse: Maria, non abbia mai da accadere che questa Missione che è riposta sotto il vostro patrocinio debba finire restando qualche peccatore interessato ma non convertito.

 Dicono i Dottori che come quella buona donna Ruth andava dietro ai mietitori, raccogliendo le spighe sfuggite di mano ad essi, così la Madonna ha questo uffizio nella Chiesa di convertire quelle Anime che son sfuggite di mano ai predicatori. Voi crederete che per chi non si è convertito a quest’ora non rimanga altra possibilità per lui. Ma che dite mai? Rimane l’arma più potente! Rimane Maria!”

Durante le due settimane di predicazione, ci sarà la presenza di nove Missionari del Preziosissimo Sangue, due seminaristi della stessa Congregazione, una suora Adoratrice del Sangue di Cristo, una famiglia missionaria e numerosi laici.

Papa Francesco: operare per il bene comune

Prima di intraprendere il viaggio apostolico in Mongolia papa Francesco ha inviato un messaggio agli imprenditori francesi, riuniti fino ad ieri presso l’ippodromo di Longchamp (Parigi), il cui testo è stato letto da mons. Matthieu Rougé, vescovo di Nanterre, in cui ha affermato che anche gli imprenditori operano per il bene comune:

La Resurrezione nel dramma teatrale di p. Giuseppe Scalella

“Pilato: Non mi parli? (pausa) Non è la prima condanna a morte che esegui, no? Che ti succede? Oltre alla parola hai perso anche il coraggio? E il tuo valore di soldato? E la grandezza di Roma?

Gallio: Quando finirà?…

Pilato: Finirà cosa, Gallio?… Com’è andata l’esecuzione?…

Gallio: Quando la smetteremo di uccidere innocenti?

Pilato: Gallio, la grandezza di Roma… ti sembra una cosa giusta mettersi contro i Giudei? In fondo… sono stati loro a volerlo, no?

Gallio: Tu non hai visto quell’uomo… Non lo hai visto morire… Io non ho mai visto morire uno, così… non l’ho mai visto… Gli altri due imprecavano atterriti dalla morte… lui… ‘Accoglimi’, ha detto…”.

Così inizia il dramma in ‘tre quarti’ per il teatro scritto dall’agostiniano p. Giuseppe Scalella, ‘Perché cercate tra i morti’, in collaborazione con l’attrice Giulia Merelli, che nasce “da una mia domanda che mi porto dentro da anni: delle lunghe ore trascorse a Gerusalemme tra la sera del venerdì (la morte di Cristo) e l’alba del primo giorno dopo il sabato (la resurrezione) nessuno ha mai parlato. Neppure coloro che scrissero i Vangeli”, specifica nella prefazione l’autore.

A lui chiediamo di raccontare come è nato questo testo: “Come scrivo nella prefazione questo lavoro nasce alla fine degli anni ’90. C’era una domanda che mi portavo dentro e che non riusciva mai a trovare una risposta: ma chi ha incontrato e conosciuto Gesù di Nazareth in Palestina duemila anni fa come avrà vissuto i giorni e le ore terribili, dall’arresto nel Getsemani fino al mattino del primo giorno dopo il sabato?

Il Vangelo non ci dice niente, ci racconta i fatti che si sono succeduti tra cui il rinnegamento di Pietro e i due di Emmaus che tornano a casa delusi e tristi. Ma niente di più. Sappiamo dal Vangelo che gli apostoli, dopo l’arresto, sono scappati tutti, eccetto Giovanni e Pietro che forse l’avranno seguito ma senza farsi vedere. Dei due di Emmaus il Vangelo di Luca dice che erano ‘col volto triste’ e quella tristezza mi ha sempre intrigato perché non sarà stato facile capire il senso di quegli eventi, come non è facile per noi, nonostante duemila anni di storia.

Come succede spesso a chi scrive, è facile non essere soddisfatti delle prime stesure e allora si lascia che l’idea decanti. Come il vino. Così è stato per me. Poi sopravvengono gli impegni e poi un periodo di calma in cui si riprende. Mi è capitato poi di incontrare Giulia Merelli, un’attrice di teatro e con lei ho potuto procedere alla stesura definitiva. Adesso forse bisognerà metterlo in scena. Chissà?”

Perché hai raccontato proprio le ore del Venerdì Santo?

“Più che raccontare ho cercato di immaginare il luogo dove possono essersi ritrovati e le cose che si son detti in quelle ore. E anche perché è l’evento più drammatico di tutta la vicenda di Gesù e di quelli che l’hanno seguito. Ho immaginato tre luoghi: il pretorio di Pilato e il dialogo con Gallio, il tribuno che ha eseguito la crocifissione e che si converte dopo aver visto non tanto la morte di Gesù ma il modo con cui Gesù affronta il supplizio e muore;

la casa di Maria, madre di Giacomo dove si sono ritrovati la Maddalena, Lazzaro e le sorelle e la loro disperazione di fronte a quello che è successo; e poi il cenacolo con qualcuno dei dodici e con Maria, la madre di Gesù. Sono i tre quadri del dramma ma forse il più bello è quest’ultimo perché Maria che aveva capito più degli altri il senso di quello che era accaduto, cerca in tutti i modi di prepararli a quello che sarebbe accaduto dopo”.  

Cosa muove i protagonisti del dramma?

“Secondo me, quello che muove noi. Perché noi seguiamo Cristo? Perché l’umanità oggi lo cerca? Se lui non c’entrasse niente con la vita non lo cercherebbe più nessuno, neppure noi. Loro si domandavano: il Maestro è morto… e noi? Che ne sarà di noi? Se Cristo ci venisse tolto, sarebbe così anche per noi?”

In quale modo si può credere che la morte è vinta?

“C’è un solo modo: se si incontra un uomo risorto. Quegli uomini e quelle donne avevano bisogno di vedere Gesù risorto. Come noi oggi abbiamo bisogno di vederlo presente. Si può morire in tanti modi nella vita, come per esempio uno che si droga o si dà al gioco e all’alcol, ma anche chi ha perso la speranza, ma vederlo rinascere (e io ne ho visti tanti) è davvero sconvolgente. Ma non basta. Anche gli apostoli hanno visto Gesù risorto ma non è bastato. Ci vuole qualcosa che Dio fa accadere come per loro l’evento dello Spirito a Pentecoste”.

‘Ma adesso chiediamo tutti… chiediamo che la morte non vinca in noi… che lo sconforto e la devastazione siano le occasioni buone per partecipare della sua vittoria… e la sua vittoria in noi verrà… verrà come l’alba… ma verrà…’: con queste parole Maria si rivolge al pubblico nella scena conclusiva che lascia spazio alla speranza. Cosa ci si attende dall’alba della Resurrezione?

“Una cosa soltanto: incontrare la risposta alle domande che la vita pone. La vita è spietata e non dà tregua e continuamente sfida la nostra umanità. E pone domande. Lo vediamo oggi più che mai. Tutti attendiamo una risposta ma non una risposta qualsiasi o teorica. Deve essere una risposta all’altezza di quelle domande. E non può essere mai scontata. Insomma: chi può rendermi davvero felice?”

(Tratto da Aci Stampa)

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