Tag Archives: Genocidio
Il genocidio rwandese nel racconto di Gianrenato Riccioni

“Il genocidio in Rwanda era iniziato il 6 aprile, il giorno stesso in cui era stato abbattuto l’aereo dell’allora presidente Habyarimana… Era stato tutto premeditato, addirittura dalla Cina erano stati importati centinaia di migliaia di machete, arma rudimentale e feroce, ma anche economica… A dare inizio alla carneficina fu la radio nazionale, che incitò a seviziare e uccidere ‘gli scarafaggi Tutsi’. In questo contesto, immagina un manipolo di volontari, armati solo di tanta fede e di speranza, che accettavano di entrare in Rwanda per riportare una goccia di umanità in quell’oceano di male. Avevo 38 anni, e tanta paura, ma dissi di sì e reclutai chi mi potesse seguire”:
così inizia il colloquio con il dott. Gianrenato Riccioni, medico anestesista e rianimatore all’ospedale di Macerata, ora in pensione, che con la moglie Letizia, insegnante (genitori di tre bambini), decise al termine degli anni ’80 di partire come responsabile dei progetti di Avsi, organizzazione non governativa cattolica presente in 38 Paesi, per l’Uganda.
Ed il ricordo resta ancora indelebile: “Non era una normale guerra, in Rwanda, era l’inferno. Quelli che fino a poco prima erano stati amici, parenti, addirittura sposi, ora venivano massacrati senza distinzione, con machete, bastoni chiodati, martelli. Perfino le chiese dove i Tutsi si erano rifugiati per sfuggire agli Hutu avevano le pareti rosse di sangue, sembravano dipinte. In quel delirio ero stato chiamato a organizzare in qualche modo una presenza di pace e di ricostruzione… L’estate del 1994, trent’anni fa, segnò indelebilmente la mia vita”.
Allora incominciamo dall’inizio: per quale motivo in quel tempo avete scelto di partire per l’Uganda?
“Il 29 settembre 1984, in un’udienza per i 30 anni del movimento di Comunione e Liberazione, papa san Giovanni Paolo II disse: ‘Andate in tutto il mondo è ciò che Cristo ha detto ai suoi discepoli. Ed io ripeto a voi: Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza, la pace, che si incontrano in Cristo Redentore’. Poi, nel 1985 incontrai il dott. Enrico Guffanti che aveva vissuto 4 anni in Uganda. Io e Maria Letizia, che era diventata mia moglie pochi mesi prima, fummo molto colpiti dalla sua testimonianza. Si percepiva, un’umanità, un’intensità di vita ed una gioia assolutamente desiderabili: diventammo amici”.
E quale è stato il contatto con l’Avsi?
“L’amicizia crebbe e agli inizi del 1986 offrimmo la nostra disponibilità, di medico e di insegnante, per la missione. Enrico ci presentò il dott. Arturo Alberti che, nel 1972, aveva fondato l’Avsi, una ONG nata per sostenere chi partiva per la missione”.
Quando siete partiti eravate consapevoli di ciò che stava per succedere?
“Certamente consapevoli di una realtà totalmente altro da ciò a cui eravamo abituati. Ma l’idea della guerra con le sue atrocità, anche se sapevamo dell’instabilità socio politica di quelle zone, non era nei nostri pensieri. Partimmo quindi per l’Uganda: era il 1987. Fummo mandati nel nord del Paese, a Kitgum. Incontrammo i missionari comboniani, uomini con cui nacque una compagnia stringente, che privilegio averli conosciuti.
Dopo un primo periodo scoppiò la guerra, che forse in quella terra così martoriata non era mai terminata. Centinaia di cadaveri accatastati ovunque. Ci battemmo per ottenere il diritto a curare tutti i feriti senza distinzione, amici o nemici. Alla fine delle ostilità ci chiesero di andare ad Hoima, nel sud ovest dell’Uganda. Eravamo fra i primi bianchi ad entrare nel triangolo di Luweero, territorio famoso per le atrocità avvenute fino a tutto il 1986”.
E come avete vissuto il genocidio che stava avvenendo in Rwanda?
“Nel 1994, quando scoppiò il genocidio, l’ambasciatore ci chiese di valutare, come cooperazione italiana, una disponibilità a promuovere un progetto di emergenza in Rwanda. Tornando a casa ne parlai subito con Maria Letizia. Dissi: ‘Ma io non ci penso nemmeno. Troppo pericoloso, per me e per i miei volontari!’ Ma padre Tiboni, un nostro carissimo amico missionario comboniano, mi invitò invece a considerare la possibilità di iniziare una presenza in Rwanda.
Disse che negli anni era nata un’amicizia con moltissimi ugandesi di origine hutu e tutsi. Cresciuti in Uganda desideravano tornare a casa e lui aveva a cuore queste persone. Mi chiese proprio di accettare, chiese il ‘miracolo’. Accettai, poi la realtà si sarebbe rivelata molto più drammatica di quanto avessi temuto. In quei 100 giorni più di 800.000 persone vennero uccise all’arma bianca”.
In tale situazione avete incontrato il console in Rwanda, Pierantonio Costa: “Mi portò a vedere ciò che stava accadendo, affinché io potessi costruire un progetto fattibile di presenza. Il console Costa mi condusse fuori Kigali nelle baracche di fango sulle colline, dove si erano rifugiati i Tutsi, e là dentro vidi i sopravvissuti amputati col machete, gli occhi impazziti di orrore. Soprattutto però mi impressionò l’orfanotrofio dei padri Rogazionisti a Nyanza: lì erano stati raccolti 800 bambini tutti dai 2 anni in su, perché sotto i 2 anni erano morti, uccisi o dagli Hutu o dalla diarrea. Erano hutu e tutsi insieme, chi morente, chi senza più gli arti, terrorizzati per ciò che avevano visto.
Molti erano scappati ai loro stessi parenti (zii, cugini, persino padri e fratelli) componenti di quel 40% di famiglie miste hutu e tutsi che avevano preso a massacrarsi. Costa era andato a Nyanza per portare in salvo i padri Rogazionisti, tra i quali padre Tiziano Pegorari cui gli Hutu avevano promesso la decapitazione, ma questi non se ne volevano andare. Per salvare gli 800 bambini dalla strage il console Costa circondò l’orfanotrofio con bandiere italiane e la scritta ‘Consolato d’Italia’. Funzionò e salvò le vite di questi bambini”.
Quindi cosa significò salvare la vita dei bambini?
“Significò accogliere i bisogni del bambino traumatizzato che poi sono i bisogni del bambino in qualsiasi momento della vita: essere ascoltato, essere accolto in quello che si è vissuto e si vive e aver qualcuno da guardare e da seguire. I bambini portavano i segni di quei mesi terribili: amputazioni, ferite agli arti e/o in testa, alcuni erano rimasti settimane appollaiati sugli alberi, molti non parlavano più.
Ad Avsi venne affidato l’orfanatrofio di Nyanza dove c’erano circa 800 bambini hutu e tutsi. Visitando la struttura con padre Tiziano, che ci affidò la realtà, chiesi: ‘Si, ma dove sono i bambini?’ e lui: ‘Ma sono qua!’ Entrai nelle camerate ed erano tutti lì, 800 bambini in un silenzio irreale. Il gruppo di volontari AVSI era formato da personale italiano, belga e ugandese di origine hutu e tutsi. Iniziarono i primi progetti di sostegno ai bambini traumatizzati dalla guerra e, contemporaneamente, anche un’attività di ricerca per rintracciare le famiglie originarie. Più di 500 bambini ritrovarono le loro famiglie”.
A distanza di 30 anni quale ricordo conservate di quella missione?
“Il volto e i nomi di questi amici hutu e tutsi che furono e sono la più grande testimonianza di speranza per quei bambini. La nostra esperienza si riassume bene con una espressione che stava a cuore a p. Tiboni ed a tutti noi: ‘E’ nata una nuova tribù … la tribù di Gesù Cristo e questa è la speranza per noi e per questo popolo’. Qualcuno di noi ebbe a dire: ‘Il clima di amicizia e di unità che la gente vede tra noi meraviglia tutti, e a volte meraviglia anche noi stessi’. La presenza di personale ugandese di origine hutu e tutsi, italiano, belga è stato segno tangibile e prezioso di una novità dentro la tragedia: questo amore, fuori da ogni logica umana e previsione, capace di generare speranza”.
(Tratto da Aci Stampa)
Da Pescara un impegno condiviso contro l’odio, per rammendare il mondo

Con grande entusiasmo e partecipazione si è concluso il GariwoNetwork 2024, evento che ha riunito centinaia di persone a Pescara, presso l’Auditorium Flaiano e gli spazi dell’Aurum, per due giornate di riflessione, dialogo e impegno. Una manifestazione che, partendo dal tema del ‘rammendare il mondo’, ha chiamato a raccolta giovani, educatori, intellettuali e referenti della rete internazionale dei Giardini dei Giusti per confrontarsi su come affrontare le sfide del nostro tempo: divisioni, odio, ingiustizie e crisi ambientale.
I rappresentanti di oltre 80 giardini dei Giusti (compresi quelli in Ruanda e Polonia) e circa 700 persone che hanno assistito alla plenaria e a gli altri momenti della due-giorni hanno vissuto un GariwoNetwork storico per tanti motivi, tra cui:
a) la prima volta lontano da Milano, in un’area culturalmente sempre più viva come quella della costa abruzzese, dove i partecipanti sono stati accolti in maniera encomiabile dal Comune di Pescara e dal suo sindaco, dalla Fondazione PescaraAbruzzo e da tutte le persone coinvolte nell’organizzazione. A Pescara – grazie anche all’instancabile lavoro di Oscar Buonamano, consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e ambasciatore di Gariwo proprio nella città abruzzese, nascerà un nuovo Giardino dei Giusti che fungerà da raccordo per tante altre realtà del centro-sud intenzionate ad entrare nella rete di Gariwo;
b) durante il Network di Pescara è stato firmato un memorandum d’intesa tra l’Ufficio del Consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio e la Fondazione Gariwo: da oggi lavoreranno congiuntamente per prevenire i genocidi attraverso progetti educativi e i Giardini dei Giusti.
L’evento si è aperto nell’Auditorium Flaiano con una plenaria di grande intensità. Le parole di benvenuto del sindaco di Pescara, Carlo Masci, hanno evocato la metafora del pescatore che, all’alba, ricuce le reti strappate per continuare a pescare: un’immagine perfetta per descrivere il lavoro quotidiano dei Giusti, che curano le ferite dell’umanità. Il presidente della Fondazione Gariwo, Gabriele Nissim, ha inviato un messaggio di grande significato, nonostante la sua assenza per motivi di salute:
“Oggi viviamo in un mondo in crisi un mondo che ha perso l’idea di collaborazione, segnato dal ritorno di nazionalismi e autocrazie. I Giardini dei Giusti, oggi, possono essere la base per ricostruire una nuova utopia, come è accaduto nel passato. Non sono monumenti, ma strumenti educativi per prevenire quegli strappi che poi, con fatica, vanno rattoppati”.
Le parole di Alice Wairimu Nderitu, special adviser delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi, hanno arricchito ulteriormente il dibattito. Sebbene impossibilitata a partecipare, ha inviato un messaggio, letto da Simona Cruciani, in cui ha ricordato il potere universale dei Giusti. “I Giusti – ha scritto Nderitu – con le loro azioni riuniscono e aggiustano le parti spezzate del mondo, ispirando il bene in luoghi anche molto lontani da noi. I principi su cui si fonda il concetto di Giusto sono universali e ci rimandano alla Carta delle Nazioni Unite, alla Convenzione per la Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.
La mattinata si è conclusa con la partecipazione appassionata degli studenti, che hanno rivolto numerose domande agli ospiti presenti, dimostrando un forte interesse per il ruolo dei Giusti e il loro valore educativo. Nel pomeriggio, i workshop intitolati “La scelta” hanno esplorato temi cruciali come i Giusti dell’ambiente, i Giusti dello sport e la filosofia dei Giusti. Filippo Giorgi, climatologo e premio Nobel per la Pace nel 2007 con IPCC, ha sottolineato che “non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale”, mentre Joanna Borella, allenatrice e presidente di A.S.D. Bimbe nel Pallone, ha raccontato come smontare il razzismo nello sport, promuovendo inclusione e abbattendo pregiudizi. Chiudendo la giornata, Erminio Maglione, ricercatore in Storia della filosofia, ha spiegato qual è la filosofia dei Giusti: “Il Giusto è un silenzioso quanto pervicace presidio contro gli orrori che possono nascere nell’uomo”.
La seconda giornata ha visto i lavori proseguire presso l’Aurum, con il laboratorio dedicato ai referenti della Rete dei Giardini dei Giusti. Grazie alla guida esperta dei facilitatori di JoyLab, i partecipanti hanno discusso e condiviso buone pratiche per rafforzare la rete globale dei Giardini. Questo momento di scambio ha rappresentato una straordinaria opportunità per generare nuove idee e sinergie.
Nel pomeriggio, la tavola rotonda conclusiva, intitolata “Ogni persona può rammendare il mondo”, ha riunito ospiti di spicco: Eraldo Affinati, scrittore e cofondatore della scuola Penny Wirton; Simona Cruciani delle Nazioni Unite; Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale; Franco Vaccari, presidente di Rondine Cittadella della Pace; e Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione Pescarabruzzo. Moderati da Oscar Buonamano, gli interventi hanno intrecciato storie, riflessioni e testimonianze che hanno toccato profondamente il pubblico.
Eraldo Affinati ha ricordato che ‘non dobbiamo idealizzare il Giusto’, portando esempi di ragazzi ordinari che, con azioni concrete, rammendano il tessuto sociale: Michelle, una giovane madrelingua che insegna italiano a minori non accompagnati, e Giorgio, uno studente ribelle che si trasforma in un pedagogo nei progetti della Penny Wirton. Per Affinati, è fondamentale riconoscere e valorizzare chi si assume responsabilità in contesti difficili.
Claudia Mazzucato ha parlato del legame tra Giusti e giustizia riparativa, definendo quest’ultima come ‘un rammendo che unisce i lembi spezzati, tessendo relazioni, persino tra nemici’. Ha ammonito contro i pericoli del giustizialismo, sottolineando che ‘anche la giustizia, se portata all’estremo, può diventare radicalizzazione’.
Franco Vaccari ha presentato il lavoro di riconciliazione di Rondine, ricordando che “finché l’altro è solo un nemico non si rammenda niente, perché non ci consideriamo della stessa stoffa. Dire sì alla pace è la vera svolta per il cambiamento”.
L’evento si è chiuso con l’intervento di Martina Landi, direttrice generale di Gariwo, che ha portato i saluti del presidente Nissim, assente per motivi di salute, e ha ringraziato tutti i partecipanti per aver contribuito a due giorni di straordinaria intensità: “Il Giusto non giudica, non soppesa. Il Giusto cura. Ed è grazie a questa cura che possiamo costruire un mondo migliore”.
In apertura lo storico Marcello Flores ha descritto le caratteristiche dei discorsi dell’odio: “Ecco, i discorsi di odio oggi hanno le stesse caratteristiche: si fondano al tempo stesso su un’idea di inevitabile discriminazione; su una convinzione che non è di tutti, ma solo di poche minoranze, ma che contagia anche una maggioranza. Lo vediamo, cresce il razzismo, cresce l’antisemitismo e crescono anche tutte quelle forme di odio e avversione verso gruppi di persone ritenute responsabili del nostro disagio o dei nostri mali collettivi.
Questi sentimenti vengono, poi, cavalcati anche dai Governi e dai singoli politici. Anche del nostro Paese, ci sono esponenti politici che, a volte, usano esattamente le stesse parole, pur con qualche piccola modifica, che Hitler aveva usato nel Main Kampf contro gli ebrei. E queste parole d’odio le rivolgono a determinati gruppi di persone”.
Contro tali discorsi le azioni che ognuno può intraprendere: “Ognuno di noi può fare qualcosa, ognuno di noi, nel proprio quotidiano, a partire dalla propria famiglia, nel proprio mondo di lavoro, quando incontriamo altre persone, ma ancora di più quando siamo sui social. È possibile e doveroso intervenire ogni volta che c’è un accenno, anche solo un accenno da parte di qualcuno, a un linguaggio d’odio. Questo è fondamentale, perché, se non c’è questa reazione immediata che mette alla berlina coloro che fanno queste affermazioni, il rischio è che invece, poi, quelle affermazioni si propaghino”.
(Foto: Gariwo)
In Rwanda il Giardino dei Giusti per un percorso di riconciliazione

Lo scorso 27 luglio 2024 è stato inaugurato a Kamonyi, in Rwanda, il primo ‘Giardino dei Giusti’, frutto della collaborazione tra la Fondazione Gariwo, Bene Rwanda Onlus e il partner locale ‘Sevvota’ (Solidarity for the Development of Widows and Orphans to Promote Self-Sufficiency and Livelihoods), come memoria di quelle donne e quegli uomini che hanno messo a rischio la propria vita per salvare persone durante il genocidio del 1994 (800.000 persone in 100 giorni), proteggendo persone tutsi e hutu moderati dalle violenze perpetrate da criminali appartenenti alla maggioranza hutu.
Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato Alice Wairimu Nderitu, consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi; Godeliève Mukasarasi, fondatrice e presidentessa di ‘Sevota’; Françoise Kankindi, presidente di ‘Bene Rwanda Onlus’; Jean Paul Habimana, scrittore, insegnante e sopravvissuto al genocidio; Maria Urayeneza, giusta al Giardino di Milano e Benedetta Macripò, rappresentante di ‘Gariwo Network’.
I primi Giusti onorati nel Giardino sono Raphael Lemkin, Pierantonio Costa e Maria Urayeneza: Raphael Lemkin, ebreo polacco, ideatore della definizione di genocidio, che non smise mai di ricordare al mondo che la prevenzione di tali crimini e responsabilità dell’umanità intera; il console onorario Pierantonio Costa, che riuscì a portare in salvo almeno 2.000 persone; Maria Urayeneza, che con il marito ha nascosto, protetto e aiutato a fuggire moltissimi tutsi.
‘Sevota’ è nata grazie a Godeliève Mukasarasi, ‘giusta’ al Giardino di Milano nel 2022, che nonostante avesse subito orribili violenze e avesse perso gran parte della famiglia ha cercato di ritessere (a partire soprattutto dalle moltissime vedove e dalle migliaia di donne stuprate) il tessuto della società ruandese, coinvolgendo 70.000 persone in attività di formazione e riconciliazione.
Françoise Kankindi ha sottolineato il significato di ‘cattiva memoria’: “Con questa espressione intendiamo la disinformazione, applicata volutamente attorno a un genocidio che è stato programmato, preparato nei minimi dettagli, preannunciato e reiterato. Quando si sono scatenate le violenze del 1994, il mondo ha girato la testa dall’altra parte, tacendo dei massacri che da anni insanguinavano il Ruanda. Questo quindi è il senso del titolo, e purtroppo a vent’anni dal genocidio questa cattiva memoria persiste”.
Allora, quale significato ha l’inaugurazione del Giardino dei Giusti a Kamonyi?
“L’inaugurazione del primo Giardino dei Giusti in Rwanda a Kamonyi ha un significato molto importante: fornire un luogo fisico alle persone che hanno rischiato la propria vita salvando quella degli altri durante il genocidio dei Tutsi nel 1994, dedicando un albero ed una stella, appunto per ricordare a qualsiasi uomo che anche nei momenti più buoi si può optare per una scelta diversa da quello che le autorità prendono, salvando la vita umana invece di uccidere”.
Cosa scatenò il genocidio?
“La sete del governo rwandese di allora di aggrapparsi al potere fino a pianificare lo sterminio della minoranza Tutsi, percepita come pericolo e capro espiatorio rispetto alla richiesta dei profughi Tutsi organizzati nella guerriglia sotto il Fronte Patriottico con l’obiettivo di poter ritornare a casa”.
Cosa significa fare memoria del genocidio?
“Fare memoria del genocidio dei Tutsi in Rwanda significa costruire un futuro per le future generazioni rwandesi in quanto per anni dal 1959, anno in cui per la prima volta i Tutsi sono stati massacrati e sistematicamente ogni 5/10 anni avvenivano i pogrom fino alla soluzione finale del 1994, i governi che organizzavano lo sterminio di una parte della sua popolazione non hanno mai riconosciuto i crimini che avvenivano nell’indifferenza della comunità internazionale”.
Quanto è stato difficile il percorso di riconciliazione?
“La difficoltà è facilmente immaginabile pensando al contesto rwandese dove all’indomani del genocidio, i sopravvissuti Tutsi hanno dovuto convivere con gli assassini delle loro famiglie. Tuttavia, il nuovo governo rwandese guidato dal Fronte Patriottico che ha fermato il genocidio, vincendo la guerra contro il governo Hutu che l’aveva organizzato, ha dovuto far fronte alla necessità di gestire le carceri gremiti di persone accusate di genocidio.
Ha dovuto ricorrere ai gacaca, sistema di giustizia tradizionale ruandese, dove sul prato del villaggio la gente si incontrava sotto la giurisdizione dei saggi, i colpevoli pentiti confessano i loro crimini e chiedevano perdono. Dietro la prestazione di lavori collettivi e aiuto diretto alle vittime erano reintegrati nella comunità e così lentamente sulle colline i rwandesi hanno potuto ritrovare di nuovo il gusto del vivere insieme”.
A 30 anni dal genocidio quale Paese è il Rwanda?
“Il Rwanda di oggi è un paese pacificato ed è il più sicuro dell’Africa. Sono appena tornata da casa, ho vissuto in prima persona la voglia di farcela che anima ogni rwandese, la fiducia incondizionata che la popolazione nutre nei confronti del loro presidente Paul Kagame, che li ha tirato fuori dalle macerie del genocidio e sta ricostruendo il Paese con una tenacia e ordine invidiabile”.
Cosa si propone l’associazione ‘Bene Rwanda Onlus’?
“Trasmettere la memoria del genocidio, promuovendo iniziative culturali tesi a fare conoscere la storia del Rwanda secondo il punto di vista dei figli del Rwanda che vivono in Italia”.
(Tratto da Aci Stampa)
La guerra infinita della Repubblica Democratica del Congo

La Repubblica Democratica del Congo è uno degli Stati più grandi e più ricchi di risorse naturali del continente africano, ma i molteplici conflitti interni nel Paese hanno prodotto una forte instabilità che ha portato con sé una crisi umanitaria complessa, tantoché al termine dell’Angelus dell’ultima domenica dello scorso febbraio papa Francesco aveva chiesto la pace: “Seguo con preoccupazione l’aumento delle violenze nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Mi unisco all’invito dei Vescovi a pregare per la pace, auspicando la cessazione degli scontri e la ricerca di un dialogo sincero e costruttivo”.
Infatti nell’ultimo giorno di febbraio è iniziato il ritiro ufficiale della Monusco dall’est della Repubblica Democratica del Congo, istituita nel 2005 con il mandato di proteggere i civili e mantenere la sicurezza nell’area, con il processo di smobilitazione che si concluderà entro il 31 dicembre 2024 e metterà fine alla presenza della missione nel paese, durata 25 anni. Attualmente sono circa 15.000 i peacekeeper Onu dispiegati nelle tre province più problematiche della regione, Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri.
Per comprendere meglio la situazione nella Repubblica Democratica del Congo abbiamo contattato Claudio Ceravolo, presidente di ‘COOPI – Cooperazione Internazionale’: “Proprio in questi giorni è ricorso il 30* anniversario del genocidio che ha sconvolto il Rwanda nel 1994 e che ha fatto precipitare la situazione politica e militare nella vicina Repubblica Democratica. del Congo. Trent’anni di guerra hanno causato quella che probabilmente è la crisi umanitaria più complessa al mondo, un susseguirsi di guerre locali che hanno causato globalmente più di tre milioni di morti e una situazione di grave insicurezza, particolarmente nelle regioni orientali del Paese”.
Perché è una guerra ‘infinita’?
“La Repubblica Democratica del Congo non ha mai vissuto un periodo di pace duraturo e stabile. L’indipendenza del Paese dalla colonizzazione belga, nel 1960, ha fatto precipitare il paese nella guerra civile; con l’ascesa al potere del presidente Mobutu la situazione securitaria è migliorata, ma a prezzo di una dittatura che ha mantenuto le tensioni nascoste sotto la cenere. La guerra nel vicino Rwanda nel 1994 ha riversato nel paese oltre due milioni di rifugiati, che hanno fatto nuovamente precipitare la situazione politica e scatenare nel 1996 quella che viene chiamata la ‘prima guerra del Congo’, estesa su tutte le regioni del paese”.
E’ possibile un percorso di pace?
“Percorsi di pace sono sempre possibili, se lo si vuole veramente. Qualche elemento di speranza è dato dal fatto che oramai si è instaurato un meccanismo democratico abbastanza consolidato, che ha portato nel 2019 ad una alternanza pacifica alla Presidenza della Repubblica tra Joseph Kabila e Felix Tshisekedi. In tutto il Paese in questi giorni si stanno svolgendo le elezioni regionali e questo si sta svolgendo senza particolari tensioni. Ciò detto, non migliora la situazione nelle regioni orientali, dove forti interessi economici legati al controllo delle risorse minerarie rendono pessimisti sulla possibilità di un percorso di pace”.
Anche l’Europa, qualche mese fa, aveva condannato l’incitamento all’odio ed alla xenofobia, nonché le politiche basate sull’etnia: quale ruolo può avere l’Europa nella riappacificazione?
“Se è vero, come è vero, che le cause del conflitto nell’Est del Congo sono essenzialmente economiche, l’Europa potrebbe fare molto. Un esempio ci può aiutare: negli anni ’90 del secolo scorso, in Liberia e Sierra Leone è scoppiata una guerra civile motivata soprattutto dalla volontà di controllare le miniere di diamanti, che venivano poi esportati illegalmente dai gruppi armati con la complicità di alcune società multinazionali.
Nel 2000 a Kimberly gli Stati esportatori ed importatori si sono accordati su un processo di certificazione (il cosiddetto ‘Kimberley Process’) volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili, e questo ha portato all’estinguersi della violenza in quei paesi. Un accordo simile dovrebbe essere esteso anche alle terre rare, all’oro, e a tutte le ricchezze esportate illegalmente dall’Est del Congo.
Purtroppo però il 19 febbraio l’Unione Europea ha firmato un accordo di cooperazione per lo sfruttamento delle materie prime con il Rwanda; ora, il Rwanda non ha praticamente nessuna risorsa mineraria, e i minerali da essa esportati provengono quasi esclusivamente dal contrabbando, che serve poi a finanziare i gruppi ribelli che spadroneggiano nell’est del Congo. Aldilà di un ruolo politico per contrastare in modo efficace le attività illegali, non va però dimenticato che l’Unione Europea è oggi il più importante finanziatore delle attività umanitarie nella Repubblica Democratica del Congo: moltissime attività in sostegno dei gruppi più vulnerabili, svolte da COOPI o da altre organizzazioni della società civile, non esisterebbero senza i fondi europei. E’ evidente che questo aiuto non può e non deve affievolirsi”.
Come aiutare in ‘casa loro’?
“Per prima cosa ascoltando, analizzando le diverse situazioni per trovare le soluzioni meglio adattate alle diverse realtà. Nel campo della cooperazione non ci sono modelli prefabbricati da applicare, ma è necessario aver sempre presente che noi siamo ospiti in casa altrui”.
Cosa fa il Coopi per le popolazioni del Congo?
“Siamo presenti nella Repubblica Democratica del Congo dal 1977; questo ci ha permesso di conoscere profondamente il Paese e di rispondere in maniera efficace ai bisogni della popolazione. Per migliaia di bambini e mamme malnutrite svolgiamo attività di prevenzione, cura e supporto nutrizionale; svolgiamo attività di formazione sulle buone pratiche igieniche e riabilitiamo pozzi e latrine; per far fronte alle crisi alimentari forniamo cibo e sementi e formiamo gli agricoltori sulle tecniche di coltivazione e vendita dei prodotti agricoli.
Riserviamo particolare attenzione alle donne e ai bambini sopravvissuti/e alle violenze attraverso un supporto psico-sociale e l’assistenza sanitaria gratuita; gestiamo progetti di prevenzione e protezione contro il reclutamento forzato dei bambini nei gruppi armati, il sostegno ai sopravvissuti alle violenze di genere e ad altri casi di violazioni dei diritti umani in contesti di conflitto integrando l’assistenza per il reinserimento scolastico e professionale.
Oggi abbiamo 19 progetti che coinvolgono circa 700.000 persone in Kasai Centrale, Kasai Orientale, Haut-Katanga, Bas-Uelé, Nord-Kivu e Ituri. I nostri principali settori d’intervento sono il contrasto alla malnutrizione infantile e la protezione di bambini e donne vittime di violenza, attraverso un’assistenza trasversale che include attività di sostegno psicosociale, reinserimento educativo e reintegrazione socio-economica”.
(Tratto da Aci Stampa)
Holodomor: un eccidio da non dimenticare

“Ieri la martoriata Ucraina ha commemorato l’Holodomor, il genocidio perpetrato dal regime sovietico che, 90 anni fa, causò la morte per fame di milioni di persone. Quella lacerante ferita, anziché rimarginarsi, è resa ancora più dolorosa dalle atrocità della guerra che continua a far soffrire quel caro popolo. Per tutti i popoli dilaniati dai conflitti continuiamo a pregare senza stancarci, perché la preghiera è la forza di pace che infrange la spirale dell’odio, spezza il circolo della vendetta e apre vie insperate di riconciliazione”: con queste parole, pronunciate ieri al termine della recita dell’Angelo, papa Francesco ha ricordato il genocidio dell’esercito sovietico ai danni degli ucraini, che continua ancora oggi con l’invasione dei russi.
Si fermi il genocidio nel Nagorno-Karabakh

Oltre 4.000 civili sono entrati in Armenia dal Nagorno-Karabakh, dopo l’offensiva militare azera delle scorse settimane che ha provocato centinaia di vittime, feriti e dispersi. Lunghe code di macchine sono cominciate ad affluire dal corridoio di Lachin (che connette la regione contesa al territorio armeno) riaperto dalle autorità di Baku dopo un anno di chiusura.
Per non dimenticare l’Olocausto

Anche quest’anno per il Giorno della Memoria Gariwo propone una ricca offerta di iniziative pensate per la cittadinanza e per le scuole, perché esattamente 20 anni fa, il 24 gennaio 2003, nasceva a Milano il Giardino dei Giusti di tutto il mondo nella grande area verde del Monte Stella, sorta sulle macerie della città bombardata, con l’intento di riservare un luogo simbolico alla memoria delle figure esemplari di resistenza morale di ogni parte del mondo.
A Milano il ‘GariwoNetwork’

Fino al 25 novembre al ‘Milano Luiss Hub’ torna l’appuntamento annuale con ‘GariwoNetwork’, sia in presenza che in streaming sul canale YouTube di Gariwo. L’edizione 2022 di GariwoNetwork, la rete di tutti coloro che si occupano di Giusti, sarà una rassegna di una settimana fatta di incontri con ospiti d’eccezione, attività per gli insegnanti, un estratto dello spettacolo teatrale ‘Il Memorioso. Breve guida alla memoria del Bene’ e workshop insieme al team di Gariwo: in una parola la Gariwo NetWeek!
Papa Francesco vuole andare in Ucraina

Ieri mattina, come di consueto al termine di ogni viaggio apostolico, papa Francesco si è recato nella Basilica di Santa Maria Maggiore, sostando in preghiera davanti all’icona della Vergine Salus Populi Romani. Al termine della visita, il Pontefice è rientrato in Vaticano. E’ dall’inizio del pontificato nel marzo 2013 che il papa Francesco, prima e dopo ogni partenza all’estero, si raccoglie per diversi minuti in preghiera davanti alla icona mariana custodita nella Cappella Borghese, cara al popolo di Roma.
Card. Sandri: non dimenticare il genocidio armeno

Domenica 24 aprile nella chiesa di san Nicola da Tolentino, presso il Pontificio Collegio Armeno, si è celebrata la divina liturgia in rito armeno presieduta dal card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, e officiata dal rettore del Collegio, p. Naamo Nareg Luis, in occasione del 107^ anniversario del genocidio armeno.