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Teresio Olivelli: un giovane meraviglioso,  la persona forse più intelligente che io abbia mai conosciuto

Il 25 dicembre 1944, giorno di Natale, nel lager di Hersbruck non si lavora. Vitto abbondante: ben cinque piccole patate, che Teresio divide tra i compagni. Proprio il giorno di Natale, come racconta un compagno di prigionia: ‘Teresio venne in infermeria ad augurarci buone feste, sollevando il nostro spirito depresso con parole di vivissima fede. Per noi fu una visione del cielo. Ma egli era entrato in infermeria arbitrariamente allo scopo di sollevare le nostre anime. Era proibito a tutti entrare. Ma a Teresio importava consolare i compagni di sventura. Nell’uscire fu picchiato, schiaffeggiato, preso a calci’.

Questo episodio ci illustra bene come Teresio Olivelli nel lager sia stato pienamente un ‘uomo per gli altri’, per usare un’immagine cara al grande martire di Flossenbürg, Dietrich Bonhoeffer. Il Dio di Gesù Cristo, nel lager è pienamente anche per Olivelli, come lo era per Bonhoeffer, è il Dio dell’essere ‘per gli altri’, che cammina sulle strade degli uomini, che aiuta e serve, che condivide, che si schiera con i più svantaggiati e oltraggiati. Il Dio dunque che di fronte alle aberrazioni della storia non può non schierarsi dalla parte delle vittime.

Il 31 dicembre 1944, mentre tenta di difendere un giovane picchiato ferocemente da un kapò, Olivelli riceve un bestiale calcio allo stomaco. Su suo corpo martoriato, questa ennesima violenza produce un effetto devastante. Trasportato in infermeria, vi trascorre due settimane in agonia. Muore il 17 gennaio 1945. Aveva solo 29 anni.  

Il corpo di Teresio Olivelli finisce nel forno crematorio, poi le sue ceneri sono disperse. Di lui non c’è dunque nessuna tomba, nessuna stele che indichi il luogo del suo martirio, nessuna pietra sepolcrale, nessuna scritta che ricordi il suo sacrificio. Lo stesso destino di milioni di altre persone.

Il lager di Hersbruck è stato la tappa finale di un cammino di maturazione e di crescita: cresciuto in Azione cattolica, nella Fuci e nella San Vincenzo, il giovane Olivelli abbracciò il fascismo, nell’ingenua convinzione che fosse possibile una sua coniugazione con il cristianesimo, e partecipò alla seconda guerra mondiale sul fronte russo con gli alpini, dove comprese la follia della politica del regime.  

Tornato in Italia, nella frequentazione dell’Oratorio della Pace di Brescia maturò la sua definitiva fuoriuscita dal fascismo e dopo l’8 settembre 1943 divenne esponente di primo piano della Resistenza nelle file delle Fiamme Verdi, con il compito di tenere i contatti fra i vari gruppi e di contribuire alla realizzazione e diffusione della stampa clandestina, soprattutto del foglio ‘Il Ribelle’.

Arrestato a Milano il 27 aprile 1944 a seguito di una soffiata, Olivelli nei lager in cui si trovò detenuto giunse alla completa offerta di sé, vittima sacrificale della barbarie nazista, agnello immolato per i propri compagni di prigionia e, più in generale, per tutti coloro che si trovavano coinvolti nel dramma della guerra.

Teresio Olivelli, indicato da padre David Maria Turoldo come ‘una persona meravigliosa, uno degli uomini più intelligenti che io abbia mai conosciuto’, il 3 febbraio 2018 a Vigevano è stato beatificato. La Chiesa lo indica così come modello da imitare, come persona che nel sacrificio supremo ha compiuto il senso della sua vita, immolandosi per gli altri. La testimonianza di Teresio Olivelli è dunque quanto mai preziosa anche oggi, in un tempo in cui pare risuonare solamente il rumore assordante delle armi.

Wlodzimierz Redzioch racconta Padre Jerzy Popiełuszko

“Le mie omelie non sono dirette contro nessuno. Sono dirette contro la menzogna, contro l’ingiustizia, contro l’abuso della dignità umana, contro certe azioni contrarie alla dignità umana e alla libertà umana; ma non attacco mai nessuno direttamente perché ritengo che ci sia un pò di bene in ogni essere umano, ma a volte l’uomo si lega molto fortemente al sistema del male e io piuttosto combatto contro il sistema del male e non contro l’uomo. Alla Santa Messa, preghiamo anche per coloro che si sono venduti alla menzogna, all’ingiustizia e alla violenza… Quando un uomo perde la speranza perde tutto. Allora è facile maltrattarlo. Le persone devono sapere che le loro difficoltà hanno un significato.  Io sono continuamente in mezzo agli operai”.

Partiamo da questa intervista apparsa nel documentario prodotto da ‘Video Studio Gdańsk 1990’ su p. Jerzy Popieluszko per iniziare l’intervista con l’autore del libro ‘Jerzy Popieluszko: martire del comunismo’ (https://www.edizioniares.it/prodotto/jerzy-popieluszko/), Włodzimierz Rędzioch, con i testi del giornalista Grzegorz Górny, che descrivono la realtà dei tempi in cui visse e svolse il suo ministero, a 40 dal suo omicidio avvenuto il 19 ottobre 1984.

Il libro, che contiene le foto del fotografo polacco Janusz Rosikoń, si basa su 15 conversazioni che il vaticanista Włodzimierz Rędzioch ha condotto con i testimoni della vita e del martirio di Popiełuszko. Tra i suoi interlocutori ci sono parenti, parrocchiani e collaboratori, ma anche coloro che da una prospettiva diversa hanno osservato il suo cammino verso la santità come il card. Angelo Amato, prefetto emerito del Dicastero per le Cause dei Santi, che ha presieduto la cerimonia di beatificazione, ed il card. Stanisław Dziwisz, testimone del legame che legava il beato Popiełuszko e san Giovanni Paolo II.

Wlodzimierz Redzioch è un ingegnere polacco prestato al giornalismo: dal 1981 al 2012 ha lavorato all’amministrazione de L’Osservatore romano e dal 1995 collabora con il più diffuso settimanale cattolico polacco Niedziela, con il mensile americano d’ispirazione cattolica Inside the Vatican e con l’agenzia d’informazione Zenit. Per la sua attività di vaticanista nel 2000 ha ricevuto in Polonia il premio cattolico per il giornalismo ‘Mater Verbi’; mentre nel 2006 papa Benedetto XVI gli ha conferito il titolo di commendatore dell’Ordine di san Silvestro papa; è autore di diverse pubblicazioni.

Nell’udienza generale dello scorso 16 ottobre papa Francesco aveva invitato i fedeli polacchi a non dimenticare l’eredità spirituale e sociale di p. Popieluszko: ‘Questo Beato, che ha insegnato a vincere il male con il bene, vi sostenga nel costruire l’unità nello spirito della verità e del rispetto per la dignità della persona umana’. Come accogliere questo invito del papa?

“Il Papa si riferiva al più significativo messaggio che ci ha lasciato il beato Popieluszko che si trova nell’ultima omelia pronunciata il giorno del suo rapimento e assassinio. Il 19 ottobre 1984 don Jerzy aveva celebrato la Messa e invitato i fedeli a ‘chiedere di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene – aveva detto – e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza’. Nella società si può costruire l’unità rinunciando alla spirale delle vendette e sopraffazioni, ma senza rinunciare alla difesa della verità e della dignità dell’uomo”.   

Quali sono le finalità di questo libro?

“Volevo far conoscere meglio un martire dei nostri tempi, un martire del comunismo. Lo spiega nella sua introduzione al libro anche il card. Semeraro: Auspico di cuore che l’edizione in lingua italiana di questo lavoro contribuisca a diffondere ulteriormente e accrescere la conoscenza di questo sacerdote, beato e martire. E spiega perché: Sarà davvero un bene per tutti, perché attraverso il sacrificio dei martiri, Dio cambia i cuori degli uomini”.

Per quale motivo diede vita alle ‘Messe per la Patria’?

“L’iniziativa di celebrare ‘Messe per la Patria’ fu avviata da don Teofil Bogucki, parroco della parrocchia di san Stanislao Kostka, nell’ottobre 1980, ma acquisirono una particolare importanza dopo l’introduzione della legge marziale. Il 28 febbraio 1982, ebbe luogo la prima ‘Messa per la Patria’ (‘e per coloro che per essa soffrono maggiormente’, dizione aggiunta dopo l’introduzione della legge marziale il 13 dicembre 1981) celebrata da don Jerzy Popiełuszko. Alle funzioni partecipavano residenti di Varsavia, oppositori provenienti da tutta la Polonia, lavoratori e intellettuali. Si pregava per la Polonia, per la libertà, per i perseguitati, per i prigionieri politici.

Nel periodo della legge marziale la gente trovava nella Chiesa ‘un’isola di libertà nell’oceano della schiavitù’. La gente, andando alla Messa, trovava l’incoraggiamento, le parole di verità nel mondo della menzogna, il conforto, non soltanto religioso. Ma bisogna sottolineare che nelle omelie di don Jerzy non c’era alcun contenuto politico. Esse si basavano soprattutto sugli scritti di san Giovanni Paolo II, del primate beato Stefan Wyszyński e sul magistero sociale della Chiesa, oltre ad attingere ai testi di grandi poeti e pensatori polacchi. Come mi ha confidato l’amico di don Jerzy, l’imprenditore Adam Nowosad i capi del regime comunista polacco ‘capirono che era arrivato qualcuno estremamente carismatico, che in futuro avrebbe potuto minacciare il sistema basato sulla schiavitù, sulla menzogna e sulla paura’”.

‘Compito del cristiano è rimanere attaccato alla verità, anche se dovesse costargli molto. Solo la pula non costa niente. Per il buon seme della verità a volte bisogna pagare un prezzo molto alto’, diceva prima di essere ucciso, raccolto nel libro ‘Non si può uccidere la speranza’ a cura di Annalia Guglielmi. Perché non si può uccidere la speranza?

“Perché l’uomo non può vivere senza sperare nel mondo di giustizia, della verità, dell’amore. Per questo motivo il sindacato ‘Solidarność’ chiedeva non soltanto il pane quotidiano ma prima di tutto la giustizia. Don Popieluszko ricordava che ‘fonte della giustizia è Dio stesso’, ma spiegava che ‘l’uomo giusto è colui che si lascia guidare dalla verità e dall’amore, poiché più verità e amore ci sono in una persona, più giustizia c’è in essa’”.

A 40 anni dalla sua uccisione cosa resta della sua memoria?

“Quando la sera del 30 ottobre 1984 la notizia del ritrovamento del corpo di don Jerzy Popieluszko nelle acque della Vistola giunse alla parrocchia di san Stanislao Kostka proprio mentre si celebrava una Messa solenne, tanti fedeli cominciarono a piangere ed a disperarsi. In questo momento drammatico il padre pallottino Feliks Folejewski disse al microfono: ‘Gente, ci rendiamo conto di quanto è successo? Stiamo vivendo un evento storico. Abbiamo un martire, un nuovo santo. Ringraziamo Dio e preghiamo affinché noi sopportiamo questa separazione coraggiosamente’. Quattro giorni dopo quasi 1.000.000 di polacchi partecipavano al funerale: fu il più grande funerale nella storia della Polonia.

La sua tomba fu preparata sul prato, presso la parrocchia di san Stanislao Kostka, dove risiedeva, e dal primo giorno fu luogo di pellegrinaggio. Fino ad oggi più di 23.000.000 persone si sono recato presso la tomba di don Jerzy Popieluszko. E’ un segno evidente che la gente ha sempre bisogno della sua testimonianza di fede fino al martirio, del suo messaggio di vincere il male con il bene e della sua intercessione presso Dio (la Chiesa l’ha già dichiarato beato)”.    

(Tratto da Aci Stampa)

A Milano un Rosario di Aiuto alla Chiesa che Soffre per i cristiani perseguitati

Domani sera alle ore 19 in piazza della Scala a Milano, mons. Carlo Azzimonti, Moderator Curiae dell’Arcidiocesi, presiederà il Rosario per i Cristiani perseguitati promosso da Aiuto alla Chiesa che Soffre. L’iniziativa si inserisce nella 10^ ‘RedWeek per la libertà religiosa’. Durante la preghiera verranno accesi ceri rossi in ricordo del sangue dei martiri di ieri e di oggi, come ha spiegato una nota della diocesi di Milano:

“L’iniziativa RedWeek di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) per la libertà religiosa ha inizio nel 2015, durante la persecuzione dei cristiani in Iraq per mano dell’Isis, per sensibilizzare la società civile e le istituzioni in tema di violazioni alla libertà religiosa e sulla persecuzione religiosa ai danni dei cristiani nel mondo”.

Consiste in momenti di liturgia e di preghiera per i cristiani perseguitati, testimonianze, concerti e mostre, accompagnati dall’illuminazione di rosso di edifici di culto o civili, o di monumenti salienti, per ricordare simbolicamente il sangue dei martiri di ieri e di oggi. Finora sono stati illuminati di rosso complessivamente circa 600 tra edifici di culto e civili nei 24 Paesi dove Acs è presente con una sede.

Mons. Trevisi: san Giusto un innamorato della sua città

Ieri Trieste ha festeggiato il patrono san Giusto, martirizzato il 2 novembre 303 durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano per le sue opere ed elemosine, fu denunciato di empietà (sacrilegium) da alcuni suoi concittadini. Secondo la legge romana il giudice doveva verificare di persona l’accusa. Perciò Giusto fu convocato nello studio privato (consistorium) del magistrato ed invitato a sacrificare agli dèi romani, a cui oppose un fermo rifiuto. Nella scrupolosa osservanza delle procedure, il magistrato Manazio mandò Giusto in carcere per una pausa di riflessione. Il giorno seguente Giusto, nuovamente esortato a sacrificare, rifiutò; venne quindi fustigato e, poiché persisteva nel suo rifiuto, condannato alla morte per annegamento.

Nell’omelia per il pontificale della festa patronale mons. Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, ha rappresentato il patrono come cittadino: “Mi piace pensare a san Giusto come a un cittadino che non ha fatto mancare il suo apporto per costruire la città. La tradizione ce lo presenta come un uomo conosciuto per le sue opere e le sue elemosine. La fede non si riduce a un sentimento ma è vita che si esprime in tutte le dimensioni, e dunque anche nelle opere e pure nella carità verso i poveri. Nella settimana sociale siamo stati sollecitati a prenderci cura della città, a partecipare attivamente e nelle forme più svariate e in tutte le direzioni. Il papa ha parlato della crisi della democrazia come di un cuore ferito, infartuato”.

Ed ha sottolineato l’importanza data da san Giusto per le opere di carità: “Mi piace pensare a San Giusto come a un cittadino che si è dato da fare con le opere e con la carità. Non viene ricordato come uno che si distingueva per le polemiche ma come uno che viveva facendo del bene, prendendosi cura dei poveri”.

Quindi ha invitato la comunità ad imparare dal patrono: “Talvolta, è così in tutto il mondo e anche a Trieste, si rischia di scivolare in riletture dove tutto è polemica e scontro. Dove fatichiamo a convertirci ad uno stile di confronto sereno e aperto, a un dialogo delle buone pratiche che non devono essere interpretate contro qualcuno, ma a favore del Bene comune, a favore di chi rischia di essere scartato… A me piace una comunità cristiana che sull’esempio di San Giusto è parte viva della città e si spende coraggiosamente per le persone vulnerabili. Non con lo spirito partitico, di una parte contro l’altra, ma nella ricerca delle tracce del Dio incarnato nella storia di tanti crocifissi che ci abitano a fianco, che ci camminano a fianco”.

San Giusto ha compiuto le opere di carità in quanto la fede rende liberi: “La fede in Gesù mi rende libero dalla preoccupazione del mio successo individuale, e dunque libero di prendermi cura dei fratelli. Libero di rischiare la vita nell’amore, come Gesù. Liberi anche di andare oltre i pregiudizi del tempo, per osare con Gesù lo scandalo dell’amore evangelico. Fino a dare totalmente noi stessi: nell’essere appassionati per la vita, per il bene comune, per la pace e la giustizia, per dare compagnia ai malati, nel rilanciare attenzione alle famiglie, nell’affrontare l’inverno demografico, nello sfidare l’emergenza freddo”.

Per questo mons. Trevisi ha chiesto ai fedeli di imparare a credere in Gesù, che rende liberi, dall’esempio di san Giusto: “Da san Giusto (il chicco di grano, caduto in terra e che dà molto frutto) impariamo a credere in Gesù smisuratamente: Gesù ci rivela il volto del Padre e dunque il volto del vero Dio: il Dio che ci ama e vuole la nostra vita, la nostra pienezza di vita; ed è Lui che ci rivela come guardare ai fratelli e uscire dallo stereotipo dello scontro, dell’essere gli uni contro gli altri. Credere in Gesù ci fa liberi dalle ideologie, liberi dal consenso a tutti i costi (anche a prezzo delle menzogne), liberi di spenderci nell’amore, fino a dare la vita”.

E per questa fede liberante è stato martirizzato: “Di fronte alle prepotenze del suo tempo san Giusto non è indietreggiato. Ha continuato a professare la sua fede in Gesù Cristo e a vivere spargendo buone opere e carità. Non possiamo continuare a ripetere che i nostri sono tempi difficili, quasi a giustificarci di una fede vissuta con mediocrità, anteponendo ad essa lo spirito del mondo. San Giusto vive la sua appartenenza a Gesù fino a morire martire, cioè a morire amando Dio ed il prossimo. Oggi assistiamo a tante persone che muoiono uccidendo sia nelle guerre come nella criminalità organizzata ma anche in relazioni malate che ci sono talvolta tra uomini e donne. E altre persone che muoiono mentre il mondo resta indifferente e distratto!”

San Giusto invita ad una fede coraggiosa:  “Niente di meno di questo: dare la vita con Gesù, nel nome di Gesù. San Giusto questo insegna anche oggi a tutta Trieste. Non una fede mediocre, non una fede tiepida e accomodante. Invece una fede viva, appassionata, radicale, coraggiosa, entusiasta, contagiosa… Come ci insegnano anche tanti cristiani del nostro tempo, martiri in tante parti del mondo anche in questo nostro tempo”.

Mentre nella veglia di preghiera mons. Trevisi aveva invitato i cittadini alla carità: “Troverete così il vostro modo personale di vivere la carità, senza ipocrisia, detestando il male, con affetto fraterno, gareggiando nella stima reciproca. Abbiamo bisogno di giovani che non sono pigri nel fare il bene. Che non sono lieti nella speranza… premurosi nell’ospitalità. A questo riguardo invito a divenire volontari nel dormitorio di via Sant’Anastasio. Trovate l’emozione del fare un puzzle con dei bambini che hanno bisogno di recuperare la loro infanzia perduta. Oppure sogno di poter rilanciare volontariato giovanile con i bambini al Burlo. E vi educheranno a quello che dice san Paolo: a rallegrarvi con chi è nella gioia e a piangere con quelli che sono nel pianto!”

Papa Francesco: i santi hanno servito Dio

“La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e più vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla canonizzazione odierna. Faccio appello alle autorità politiche e civili, affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori”: al termine della recita dell’Angelus per la canonizzazione dei santi papa Francesco ha invitato le autorità civili alla protezione dei popoli più fragili come ha operato san Giuseppe Allamano”.

Ed ha ricordato il tema della Giornata Missionaria: “Oggi celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale, il cui tema (‘Andate e invitate al banchetto tutti’) ci ricorda che l’annuncio missionario è portare a tutti l’invito all’incontro festoso con il Signore, che ci ama e che ci vuole partecipi della sua gioia sponsale… Sosteniamo, con la nostra preghiera e con il nostro aiuto, tutti i missionari che, spesso con grande sacrificio, portano l’annuncio luminoso del Vangelo in ogni parte della terra”.

Nella celebrazione eucaristica papa Francesco ha proclamato santi Manuel Ruiz Lopez e Sette Compagni; Francesco, Abdel Mooti e Raffaele Massabki; Giuseppe Allamano; Marie-Leonie Paradis ed Elena Guerra e nell’omelia ha sottolineato che Gesù ‘ci aiuta a fare discernimento’, attraverso specifiche domande: “Attraverso queste domande, Gesù fa emergere il legame e le attese che i discepoli hanno verso di lui, con le luci e le ombre tipiche di ogni relazione.

Infatti, Giacomo e Giovanni, sono legati a Gesù ma hanno delle pretese. Essi esprimono il desiderio di stare vicino a Lui, ma solo per occupare un posto d’onore, per rivestire un ruolo importante, per ‘sedere, nella sua gloria, alla destra e alla sinistra’. Evidentemente pensano a Gesù come Messia, un Messia vittorioso, glorioso e da Lui si aspettano che condivida la sua gloria con loro. Vedono in Gesù il Messia, ma lo immaginano secondo la logica del potere”.

Le domande di Gesù è un invito alla conversione: “Poi, con la seconda domanda, Gesù smentisce questa immagine di Messia e in questo modo li aiuta a cambiare sguardo, cioè a convertirsi: ‘Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?’ In questo modo, svela a loro che Egli non è il Messia che essi pensano; è il Dio dell’amore, che si abbassa per raggiungere chi è in basso; che si fa debole per rialzare i deboli, che opera per la pace e non per la guerra, che è venuto per servire e non per essere servito. Il calice che il Signore berrà è l’offerta della sua vita, è la sua vita donata a noi per amore, fino alla morte e alla morte di croce”.

E’ un modo differente di guardare la realtà: “Ed, allora, alla sua destra e alla sua sinistra staranno due ladroni, appesi come Lui alla croce e non accomodati nei posti di potere; due ladroni inchiodati con Cristo nel dolore e non seduti nella gloria. Il re crocifisso, il giusto condannato si fa schiavo di tutti: costui è davvero il Figlio di Dio!  Vince non chi domina, ma chi serve per amore”.

In questo modo Gesù mette a nudo la voglia di potenza di ciascuno: “Fratelli e sorelle, Gesù svela pensieri, svela desideri e proiezioni del nostro cuore, smascherando talvolta le nostre attese di gloria, di dominio, di potere, di vanità. Egli ci aiuta a pensare non più secondo i criteri del mondo, ma secondo lo stile di Dio, che si fa ultimo perché gli ultimi vengano rialzati e diventino i primi. E queste domande di Gesù, con il suo insegnamento sul servizio, spesso sono incomprensibili, incomprensibili per noi come lo erano per i discepoli”.

Con tali domande Gesù manifesta lo stile di Dio: “Ma seguendo Lui, camminando alla Sua sequela e accogliendo il dono del Suo amore che trasforma il nostro modo di pensare, possiamo anche noi imparare lo stile di Dio: lo stile di Dio, il servizio. Non dimentichiamo le tre parole che fanno vedere lo stile di Dio per servire: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio si fa vicino per servire; si fa compassionevole per servire; si fa tenero per servire. Vicinanza, compassione e tenerezza”.

E lo stile di Dio si manifesta nel servizio: “Il servizio è lo stile di vita cristiano. Non riguarda un elenco di cose da fare, quasi che, una volta fatte, possiamo ritenere finito il nostro turno; chi serve con amore non dice: ‘adesso toccherà qualcun altro’. Questo è un pensiero da impiegati, non da testimoni. Il servizio nasce dall’amore e l’amore non conosce confini, non fa calcoli, si spende e si dona. L’amore non si limita a produrre per portare risultati, non è una prestazione occasionale, ma è qualcosa che nasce dal cuore, un cuore rinnovato dall’amore e nell’amore”.

Tale servizio è stato vissuto dai nuovi santi: “Lungo la storia tormentata dell’umanità, essi sono stati servi fedeli, uomini e donne che hanno servito nel martirio e nella gioia, come fra Manuel Ruiz Lopez e i suoi compagni. Sono sacerdoti e consacrate ferventi, e ferventi di passione missionaria, come don Giuseppe Allamano, suor Paradis Marie Leonie e suor Elena Guerra.

Questi nuovi santi hanno vissuto lo stile di Gesù: il servizio. La fede e l’apostolato che hanno portato avanti non ha alimentato in loro desideri mondani e smanie di potere ma, al contrario, essi si sono fatti servi dei fratelli, creativi nel fare il bene, saldi nelle difficoltà, generosi fino alla fine”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco: la presenza di cristiani in Terra Santa è speranza

“Cari fratelli e sorelle, penso a voi e prego per voi. Desidero raggiungervi in questo giorno triste. Un anno fa è divampata la miccia dell’odio; non si è spenta, ma è deflagrata in una spirale di violenza, nella vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi e di mettere fine alla tragedia della guerra. Il sangue scorre, come le lacrime; la rabbia aumenta, insieme alla voglia di vendetta, mentre pare che a pochi interessi ciò che più serve e che la gente vuole: dialogo, pace. Non mi stanco di ripetere che la guerra è una sconfitta, che le armi non costruiscono il futuro ma lo distruggono, che la violenza non porta mai pace. La storia lo dimostra, eppure anni e anni di conflitti sembrano non aver insegnato nulla”.

In questo giorno, ad un anno dall’attacco di Hamas ad Israele, papa Francesco ha scritto una lettera ai cristiani della Terra Santa in cui ha ribadito che la violenza non conduce alla pace, ringraziandoli della loro testimonianza: “E voi, fratelli e sorelle in Cristo che dimorate nei Luoghi di cui più parlano le Scritture, siete un piccolo gregge inerme, assetato di pace. Grazie per quello che siete, grazie perché volete rimanere nelle vostre terre, grazie perché sapete pregare e amare nonostante tutto. Siete un seme amato da Dio”.

Questa presenza in Terra Santa è un germoglio di speranza: “E come un seme, apparentemente soffocato dalla terra che lo ricopre, sa sempre trovare la strada verso l’alto, verso la luce, per portare frutto e dare vita, così voi non vi lasciate inghiottire dall’oscurità che vi circonda ma, piantati nelle vostre sacre terre, diventate germogli di speranza, perché la luce della fede vi porta a testimoniare l’amore mentre si parla d’odio, l’incontro mentre dilaga lo scontro, l’unità mentre tutto volge alla contrapposizione”.

Con questa lettera il papa si è rivolto specificamente a queste Chiese ‘martiri’, chiedendo di essere testimoni di una pace ‘non armata’: “Gli uomini oggi non sanno trovare la pace e noi cristiani non dobbiamo stancarci di chiederla a Dio. Perciò oggi ho invitato tutti a vivere una giornata di preghiera e digiuno. Preghiera e digiuno sono le armi dell’amore che cambiano la storia, le armi che sconfiggono il nostro unico vero nemico: lo spirito del male che fomenta la guerra, perché è ‘omicida fin da principio’, ‘menzognero e padre della menzogna’. Per favore, dedichiamo tempo alla preghiera e riscopriamo la potenza salvifica del digiuno!”

Ed ha espresso ‘vicinanza’ ai popoli del Medio Oriente: “Ho nel cuore una cosa che voglio dire a voi, fratelli e sorelle, ma anche a tutti gli uomini e le donne di ogni confessione e religione che in Medio Oriente soffrono per la follia della guerra: vi sono vicino, sono con voi. Sono con voi, abitanti di Gaza, martoriati e allo stremo, che siete ogni giorno nei miei pensieri e nelle mie preghiere. Sono con voi, forzati a lasciare le vostre case, ad abbandonare la scuola e il lavoro, a vagare in cerca di una meta per scappare dalle bombe.

Sono con voi, madri che versate lacrime guardando i vostri figli morti o feriti, come Maria vedendo Gesù; con voi, piccoli che abitate le grandi terre del Medio Oriente, dove le trame dei potenti vi tolgono il diritto di giocare. Sono con voi, che avete paura ad alzare lo sguardo in alto, perché dal cielo piove fuoco. Sono con voi, che non avete voce, perché si parla tanto di piani e strategie, ma poco della situazione concreta di chi patisce la guerra, che i potenti fanno fare agli altri; su di loro, però, incombe l’indagine inflessibile di Dio”.

Infine una richiesta agli altri popoli a non dimenticare chi abita in Terra Santa: “Grazie a voi, figli della pace, perché consolate il cuore di Dio, ferito dal male dell’uomo. E grazie a quanti, in tutto il mondo, vi aiutano; a loro, che curano in voi Cristo affamato, ammalato, forestiero, abbandonato, povero e bisognoso, chiedo di continuare a farlo con generosità. E grazie, fratelli vescovi e sacerdoti, che portate la consolazione di Dio nelle solitudini umane.

Vi prego di guardare al popolo santo che siete chiamati a servire e a lasciarvi toccare il cuore, lasciando, per amore dei vostri fedeli, ogni divisione e ambizione. Sono con voi, assetati di pace e di giustizia, che non vi arrendete alla logica del male e nel nome di Gesù amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”.

In una lettera a ‘Mondo e Missione’ suor Mariolina Cattaneo, missionaria comboniana della comunità di Betania, racconta la vita in Terra Santa: “Vivendo qui a Gerusalemme non possiamo dire di avere paura. I missili dell’altra sera sono stati più una curiosità che vera e propria paura; anche se le sirene della città, le strade completamente vuote, hanno sicuramente avuto un impatto anche su di noi. Ma poi, il giorno dopo la vita è ricominciata come se nulla fosse successo.

Eppure a un centinaio di chilometri da noi, a Gaza, il 95% delle costruzioni sono distrutte, un popolo è costretto a vivere da rifugiato ‘interno’… che poi oramai cosa significa? Vivere sulla spiaggia? Buttarsi direttamente in mare? Eppure nel vicino Libano si fa esperienza dell’incursione di un esercito straniero.

Eppure dall’altra parte del muro, nei territori occupati, i coloni sono sempre più violenti e sempre meno sanzionati dalle autorità. Così villaggi e popolazioni locali vengono minacciate in continuazione, gli ulivi pronti per la raccolta vengono distrutti. Certamente non dimentichiamo la profonda ferita del popolo israeliano che ha vissuto il 7 ottobre come reminiscenza di una possibilità di sterminio, come una ferita al proprio cuore”.

Ed ha raccontato la ‘forza’ di chi ha deciso di restare nella speranza della pace: “Ci sono però altre storie importanti che dobbiamo raccontare: la resilienza di un popolo che vive nell’apartheid ma che ha deciso di non fuggire, di resistere, di continuare a vivere; la forza del popolo di Gaza che continua a vivere malgrado le condizioni sempre più disumane in cui è costretto; l’opposizione ad un’ideologia che nega il diritto all’altro e all’altra di vivere, da qualunque parte ci si trovi.

Siamo qui nella speranza e nella convinzione che ci sarà un dopo, che sarà difficile e doloroso ma l’odio e la violenza non avranno l’ultima parola. Siamo qui nella fede che ci sarà la possibilità di costruire una Terra Santa migliore, un Israele, una Palestina in cui si può vivere in pace e nella mutua accoglienza”.

Il card. Semeraro ha ricordato i martiri del Congo

Si celebrano quest’anno i 60 anni dall’uccisione di centinaia di religiosi e di migliaia di persone, dopo l’indipendenza della Repubblica democratica del Congo, provocati dalle tensioni politiche e sociali, da lotte di potere e conflitti tribali alimentati dall’Occidente, dall’Unione Sovietica e dalla Cina. E sabato 21 settembre a Parma il card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, ha celebrato la messa di ringraziamento ricordando quell’avvenimento:

“Ero un giovane seminarista, quell’anno, e nel Seminario giungevano, lasciandoci addolorati, le notizie dei missionari che morivano nel Congo violentemente uccisi nel corso dei tragici eventi di quel Paese. Ho poi riletto, in vista di questo nostro incontro a più titoli ‘eucaristico’, le cronache quasi quotidiane de ‘L’Osservatore Romano’ di quei giorni e ho trovato scritto: ‘I nomi di questi caduti per Cristo rimarranno nella Chiesa e negli annali delle famiglie religiose e torneranno sulle labbra, nella preghiera e nei discorsi non per inveire ma per rianimare la carità’.

In quegli stessi giorni il papa Paolo VI consegnava al Primo Ministro congolese un messaggio dove sottolineava che quei missionari, religiosi e religiose, che avevano testimoniato con il sangue la loro fedeltà al Vangelo e il loro amore per la patria congolese, vi erano giunti solo per mettere le loro migliori energie al servizio della nuova nazione e certamente non desideravano altro che la sua prosperità e il suo sviluppo pacifico”.

Ed ha ricordato due elementi della liturgia: “Il primo è l’ufficiale riconoscimento della Chiesa del loro martirio, come disse papa Francesco dopo la preghiera dell’Angelus nello stesso giorno, ‘è stato il coronamento di una vita spesa per il Signore e per i fratelli’. L’altro scopo è onorare questi Beati riconoscendo attivo e presente in loro il mistero evangelico del granello di senape…

Nella beatificazione dei martiri Luigi Carrara e Giovanni Didonè, religiosi sacerdoti, e Vittorio Faccin, religioso professo, la famiglia saveriana troverà certamente impulso e motivi di fervore apostolico. A questi tre questi Beati, che hanno vissuto la loro vocazione missionaria con gioia ed entusiasmo apostolici, è associato il beato Alber Jovet, uno dei primi sacerdoti della regione congolese, anch’egli animato da profondo spirito missionario”.

Nel ricordare il viaggio apostolico del papa in Asia ed Oceania, il prefetto del dicastero delle cause dei santi ha parlato della gioia del Vangelo: “Cosa sia la gioia del Vangelo possiamo coglierlo nel racconto del vangelo che è stato proclamato e trovarlo particolarmente nel gesto di Gesù che, dopo avere chiamato Matteo alla sua sequela, lo vede prontamente alzarsi e seguirlo.

Narrando lo stesso episodio, gli altri due evangelisti, Marco e Luca, ci riferiscono che Matteo invitò Gesù a casa sua e con lui invitò pure i suoi amici, magari nella fiducia che anche loro sperimentassero la sua medesima chiamata. Si dà, dunque, inizio a un banchetto cui Gesù prende parte con gioia evidente ed espansiva, al punto da destare le critiche dei farisei: ‘mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori’. Com’è bella, com’è esemplare questa gioia di Gesù: è la gioia del Vangelo!”

La pagina evangelica è un invito per i missionari saveriani nel ricordo di mons. Biguzzi: “Voi, missionari saveriani, avete il dovere di evidenziare nella Chiesa certamente lo zelo, ma pure la gioia del vangelo. Mentre vi guardo, carissimi, sento il cuore riscaldarsi per la memoria di un vostro confratello, il vescovo Giorgio Biguzzi che, all’epoca del mio ministero episcopale nella Chiesa di Albano, ho più volte incontrato e per due volte ho visitato nella diocesi di Makeni, in Sierra Leone. E’ morto da poco ed io lo ricordo come un vescovo gioioso, che della gioia del vangelo è stato davvero un singolare testimone”.

(Foto: Savveriani)

Beato Giuseppe Puglisi Sacerdote e martire

Giuseppe Puglisi nasce a Palermo, nel quartiere Brancaccio, il 15 settembre 1937, figlio di Carmelo Puglisi, calzolaio, e di Giuseppa Fana, sarta. Entrato nel seminario diocesano di Palermo nel 1953, viene ordinato sacerdote il 2 luglio 1960. Riceve quindi i primi incarichi come vicario parrocchiale e vicerettore del seminario minore. Si occupa anche dell’insegnamento della Religione nelle scuole. Comincia a sorgere in lui una vera preoccupazione per le condizioni di vita degli abitanti nei quartieri più emarginati del capoluogo siciliano.

Carlo Alberto Dalla Chiesa ed Emanuela Setti Carraro: martiri per la giustizia

Carlo Alberto Dalla Chiesa (Saluzzo, Cuneo, 27 settembre 1920 -Palermo, 3 settembre 1982)  ed Emanuela Setti Carraro (Borgosesia, 9 ottobre 1950 – Palermo, 3 settembre 1982) sono Sposi e martiri della giustizia, annoverati tra i Testimoni di Fede.

La Chiesa festeggia san Massimiliano Maria Kolbe

“Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore. Ecco infatti, verso la fine di luglio del 1941, quando per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame, quest’uomo, Massimiliano Maria Kolbe, si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro. Questa disponibilità fu accolta, e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941”.

Così iniziava l’omelia di san Giovanni Paolo II per la canonizzazione di p. Massimiliano Kolbe, celebrata in piazza san Pietro il 10 ottobre 1982, che ‘diede la vita… per il fratello’, ricorrenza che si celebra oggi, nel giorno della sua morte, avvenuta il 14 agosto 1941, mentre recitava la preghiera dell’Ave Maria.

Nell’omelia san Giovanni Paolo II ha ricordato che con quel gesto si rese simile a Gesù: “Dando la sua vita per un fratello, padre Massimiliano, che la Chiesa già sin dal 1971 venera come ‘beato’, in modo particolare si è reso simile a Cristo.

Noi, dunque, che oggi, domenica 10 ottobre, siamo riuniti davanti alla Basilica di san Pietro in Roma, desideriamo esprimere il valore speciale che ha agli occhi di Dio la morte per martirio del padre Massimiliano Kolbe: ‘Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli’, così abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale.

Veramente è preziosa ed inestimabile! Mediante la morte, che Cristo ha subìto sulla Croce, si è compiuta la redenzione del mondo, poiché questa morte ha il valore dell’amore supremo. Mediante la morte, subìta dal padre Massimiliano Kolbe, un limpido segno di tale amore si è rinnovato nel nostro secolo, che in grado tanto alto e in molteplici modi è minacciato dal peccato e dalla morte”.

Ma quest’imitazione di Gesù fu sempre presente nella sua vita: “A questo definitivo sacrificio Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. Da quegli anni proviene l’arcano sogno di due corone: una bianca e una rossa, fra le quali il nostro santo non sceglie, ma le accetta entrambe. Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio.

Quest’amore e questo desiderio l’accompagnarono sulla via della vocazione francescana e sacerdotale, alla quale si preparava sia in Polonia che a Roma. Quest’amore e questo desiderio lo seguirono attraverso tutti i luoghi del servizio sacerdotale e francescano in Polonia, ed anche del servizio missionario nel Giappone”.

Ciò avvenne perché si affidò completamente alla Madre di Dio: “L’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo.

La fede e le opere di tutta la vita di padre Massimiliano indicano che egli concepiva la sua collaborazione con la Grazia divina come una milizia sotto il segno dell’Immacolata Concezione. La caratteristica mariana è particolarmente espressiva nella vita e nella santità di padre Kolbe. Con questo contrassegno è stato marcato anche tutto il suo apostolato, sia nella patria come nelle missioni. Sia in Polonia come nel Giappone furono centro di quest’apostolato le speciali città dell’Immacolata”.

Spontaneamente p. Kolbe offrì la sua vita per la vita di un altro: “V’era in questa morte, terribile dal punto di vista umano, tutta la definitiva grandezza dell’atto umano e della scelta umana: egli da sé si offrì alla morte per amore. Ed in questa sua morte umana c’era la trasparente testimonianza data a Cristo: la testimonianza data in Cristo alla dignità dell’uomo, alla santità della sua vita e alla forza salvifica della morte, nella quale si manifesta la potenza dell’amore.

Proprio per questo la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. E’ stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario”.

Mentre nell’omelia per la sua beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971, papa san Paolo II ha spiegato il motivo per cui p. Kolbe era beato: “Chi non ricorda l’episodio incomparabile? ‘Sono un sacerdote cattolico’, egli disse offrendo la propria vita alla morte (e quale morte!) per risparmiare alla sopravvivenza uno sconosciuto compagno di sventura, già designato per la cieca vendetta. Fu un momento grande: l’offerta era accettata. Essa nasceva dal cuore allenato al dono di sé, come naturale e spontanea quasi come una conseguenza logica del proprio Sacerdozio.

Non è un Sacerdote un ‘altro Cristo’? Non è stato Cristo Sacerdote la vittima redentrice del genere umano? Quale gloria, quale esempio per noi Sacerdoti ravvisare in questo nuovo Beato un interprete della nostra consacrazione e della nostra missione! Quale ammonimento in quest’ora d’incertezza nella quale la natura umana vorrebbe tal volta far prevalere i suoi diritti sopra la vocazione soprannaturale al dono totale a Cristo in chi è chiamato alla sua sequela!”

Inoltre ha spiegato il suo culto per l’Immacolata Concezione: “Massimiliano Kolbe è stato un apostolo del culto alla Madonna, vista nel suo primo, originario, privilegiato splendore, quello della sua definizione di Lourdes: l’Immacolata Concezione. Impossibile disgiungere il nome, l’attività, la missione del Beato Kolbe da quello di Maria Immacolata. E’ lui che istituì la Milizia dell’Immacolata, qui a Roma, ancora prima d’essere ordinato Sacerdote, il 16 ottobre 1917…

Nessuna competizione. Cristo, nel pensiero del Kolbe, conserva non solo il primo posto, ma l’unico posto necessario e sufficiente, assolutamente parlando, nell’economia della salvezza; né l’amore alla Chiesa e alla sua missione è dimenticato nella concezione dottrinale o nella finalità apostolica del nuovo Beato. Anzi proprio dalla complementarietà subordinata della Madonna, rispetto al disegno cosmologico, antropologico, soteriologico di Cristo, Ella deriva ogni sua prerogativa, ogni sua grandezza”.

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