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Papa Francesco: l’incontro è ponte di riconciliazione

“Questa mattina, a causa di una caduta a casa Santa Marta, papa Francesco ha riportato una contusione all’avambraccio destro, senza fratture. Il braccio è stato immobilizzato come misura cautelativa”, è stato reso noto dalla sala stampa vaticana, ma ciò non ha impedito di incontrare una delegazione della Comunità Bektashi, provenienti dall’Albania per un incontro organizzato dal Dicastero per il Dialogo Interreligioso:
“Ogni volta che dei leader religiosi si riuniscono in spirito di mutua stima e si impegnano in favore della cultura dell’incontro, attraverso il dialogo, la comprensione reciproca e la cooperazione, si rinnova e si conferma la nostra speranza in un mondo migliore e più giusto. Quanto il nostro tempo ha bisogno di tale speranza!
Ed ha ricordato le relazioni tra la Santa Sede e l’Albania: “Le relazioni di amicizia tra la Chiesa Cattolica, l’Albania e la Comunità Bektashi sono un bene per tutti noi, e nutro la fiducia che questi legami si rafforzeranno sempre più a servizio della fraternità e della convivenza pacifica tra i popoli. In questi tempi difficili, tutti siamo chiamati a rifiutare la logica della violenza e della discordia, per abbracciare quella dell’incontro, dell’amicizia e della collaborazione nella ricerca del bene comune”.
Inoltre ha ricordato gli incontri avutisi negli ultimi anni: “In proposito, penso con gratitudine ai molti momenti di incontro fraterno che hanno avuto luogo tra la comunità Bektashi e la Chiesa Cattolica, come la Preghiera per la pace nei Balcani del 1993 e la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace di Assisi del 2011. L’inaugurazione del Tempio Bektashi di Tirana, nel 2015, è stata un momento particolarmente fecondo di vicinanza e amicizia”.
Tale momento è stato un’occasione per affermare la necessità di costruire ‘ponti’: “Sono convinto che la Comunità Bektashi, assieme agli altri musulmani, ai cristiani e a tutti gli altri credenti presenti in Albania, possa servire da ponte di riconciliazione e arricchimento reciproco non solo all’interno del vostro Paese, ma anche tra Oriente e Occidente. Nonostante le sfide del presente, il dialogo interreligioso ha un ruolo unico nella costruzione di un futuro di riconciliazione, giustizia e pace che i popoli del mondo, e specialmente i giovani, tanto ardentemente desiderano”.
Inoltre, incontrando la comunità sacerdotale argentina a Roma, il papa ha ricordato il sacerdote Brochero: “In ogni caso, per non tralasciare gli odori della nostra terra, voglio raccontarvi una cosa che ho letto recentemente su Sacerdote Brochero e che ritengo faccia molto comodo a voi, che continuate a prepararvi per affrontare l’ardua battaglia del Vangelo. Ciò che vi illustrerò di lui si riferisce alla sua anima sacerdotale e il primo, essenziale punto è l’affermazione fatta dai suoi amici secondo cui Brochero non avrebbe dovuto essere altro che un prete”.
Per questo è importante la vocazione: “Dobbiamo assumere con fermezza questa identità sacerdotale, prendendo coscienza che la nostra vocazione non è un’appendice, un mezzo per altri fini, anche pii, come quello di essere salvati. Assolutamente no. La vocazione è il progetto di Dio nella nostra vita, ciò che Dio vede in noi, ciò che muove il suo sguardo d’amore, oserei dire che in un certo modo è l’amore che Lui ha per noi e in questo sta la nostra vera essenza”.
Quindi ha spiegato il significato di vocazione secondo tale sacerdote: “Cioè prendersi cura della nostra interiorità, tenere il fuoco acceso, con grande umiltà, ‘abbattuti’, perché ‘stando’ nel nostro orgoglio siamo più vulnerabili. Altra nota importante è la fraternità sacerdotale. Innanzitutto con l’Alfiere, considerato un semplice soldato, per emulare le gesta degli eroi, combattendo al suo fianco, fianco a fianco, fino all’ultima cartuccia. E con i suoi fratelli sacerdoti vuole condividere tutto ciò che ha, li invita a correggerlo con fiducia e lo fa con loro con franchezza, chiedendo loro di condurre una vita di profonda pietà, con la confessione frequente per condividere così tutta la vita, sia materiale che spirituale e apostolica”.
Infine il suo rapporto con l’Eucarestia, senza abbandonare il proprio ‘compito’: “Infine, come non potrebbe essere altrimenti, l’Eucaristia. Per quanto arduo fosse il suo compito, cercava di non lasciarlo mai, trascorrendo gran parte della notte all’aperto, in mezzo ai campi di grano, aspettando che si svegliassero al ranch, poiché non riteneva opportuno disturbarli all’alba) così poteva entrare per festeggiare. Quel rispetto sacrificale per il mistero che, lontano dalle imposizioni, permeava più di mille parole di stucchevole eloquenza”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: missione e sinodalità essenza della Chiesa

“Questo è certamente un giorno di gioia nella lunga storia delle nostre Chiese, perché è la prima volta che il Santo Sinodo della venerabile Chiesa Siro-malankarese Mar Thoma visita la Chiesa di Roma per scambiare l’abbraccio di pace con il Vescovo. Grato per la vostra presenza e per le vostre parole di amicizia, porgo a ciascuno di voi il benvenuto e vi chiedo di trasmettere i miei migliori auguri di buona salute al vostro Metropolita, Sua Beatitudine Teodosius Mar Thoma; così come i miei saluti vanno a tutti i fedeli”: così papa Francesco ha salutato in apertura di settimana i membri del Santo Sinodo della Chiesa Siro-Malankarese Mar Thoma, sorta grazie all’azione evangelizzatrice dell’apostolo Tommaso.
Il papa ha ricordato l’eredità di questa Chiesa: “La vostra Chiesa, erede sia della tradizione siriaca dei cristiani di San Tommaso sia di quella riformata, si definisce giustamente una ‘Chiesa ponte’ tra Oriente e Occidente. Come Vostra Grazia ha sottolineato, la Chiesa Mar Thoma ha una vocazione ecumenica e non è un caso che si sia impegnata ben presto nel movimento ecumenico, stabilendo molti e vari contatti bilaterali con cristiani di diverse tradizioni. I primi incontri con la Chiesa di Roma sono stati ripresi al tempo del Concilio Vaticano II, al quale Sua Grazia Philipose Mar Chrysostom, futuro Metropolita, partecipò come osservatore. E’ l’avvicinamento dei piccoli passi che si fanno”.
Ed ha messo in evidenza le relazioni instaurate: “In questi ultimi anni la Provvidenza ha permesso che si sviluppassero nuove relazioni tra le nostre Chiese. Ricordo in particolare quando nel novembre 2022 ho avuto la gioia di riceverLa, caro Metropolita Barnabas. Questi nostri contatti hanno portato all’avvio di un dialogo ufficiale: il primo incontro si è tenuto lo scorso dicembre in Kerala e il prossimo avrà luogo tra qualche settimana. Mi rallegro per l’inizio di tale dialogo, che affido allo Spirito Santo e che spero possa affrettare il giorno in cui potremo condividere la stessa Eucaristia”.
Tale cammino può avvenire nella prospettiva della missione e della sinodalità, che si realizza attraverso il battesimo: “Riguardo alla sinodalità, è significativo che abbiate voluto compiere questa visita come Santo Sinodo, perché la vostra Chiesa è per tradizione essenzialmente sinodale. Come forse sapete, pochi giorni fa la Chiesa Cattolica ha concluso un Sinodo sulla sinodalità, al quale hanno partecipato anche Delegati fraterni di altre tradizioni cristiane che hanno arricchito le nostre riflessioni. Una delle convinzioni espresse è che la sinodalità è inseparabile dall’ecumenismo, perché entrambi si basano sull’unico Battesimo che abbiamo ricevuto, sul sensus fidei a cui tutti i cristiani partecipano in virtù del Battesimo stesso”.
Quindi è un cammino verso l’unità, che coinvolge le Chiese, riprendendo una frase del vescovo ortodosso Ioannis Zizioulas: “La vostra Chiesa, ne sono sicuro, può aiutarci in questo cammino di sinodalità ecumenica. E mi viene in mente quello che il grande Zizioulas diceva sull’unità dei cristiani. Era un grande quell’uomo, un uomo di Dio. Diceva: “Io so bene la data dell’incontro totale, dell’unione totale fra le Chiese. Qual è la data? Il giorno dopo il giudizio finale”. Così diceva Zizioulas. Ma nel frattempo dobbiamo camminare insieme, pregare insieme e lavorare insieme. All together. All together”.
Per questo la missione non può essere estranea alla sinodalità: “Infatti, sinodalità ed ecumenismo sono inseparabili anche perché entrambi hanno come obiettivo una migliore testimonianza dei cristiani. Tuttavia, la missione non è solamente il fine del cammino ecumenico, ne è anche il mezzo. Sono convinto che lavorare insieme per testimoniare Cristo Risorto sia il modo migliore per avvicinarci.
Per questo, come ha proposto il nostro recente Sinodo, mi auguro che un giorno si possa celebrare un Sinodo ecumenico sull’evangelizzazione, tutti insieme. E questo Sinodo sarà per garantire, per pregare, per riflettere e impegnarsi insieme per una migliore testimonianza cristiana, ‘affinché il mondo creda’. Anche in questo caso, sono certo che la Chiesa Mar Thoma, che porta in sé questa dimensione missionaria, possa offrire molto. Ma tutti insieme, all together”.
Anche nel saluto ai membri del ‘Catholic Philanthropy Network’ il papa ha sottolineato la ‘natura’ del Sinodo: “Recentemente, come sapete, la Chiesa è stata impegnata in un processo di riflessione sulla sua natura di comunità ‘sinodale’, fondata sulla nostra comune dignità di battezzati e sulla corresponsabilità per la sua missione; e questo mentre affrontiamo un momento di cambiamento epocale, con le sue conseguenze per il futuro della famiglia umana.
Sono particolarmente grato del sostegno che date agli uffici della Santa Sede, che cercano di discernere i segni dei tempi e di aiutare la Chiesa universale a rispondere con sapienza, carità e lungimiranza ai bisogni e alle sfide del presente. Al tempo stesso, vi ringrazio per il vostro silenzioso appoggio a tante iniziative che arricchiscono la vita e l’apostolato della Chiesa negli Stati Uniti”.
La giornata ‘papale’ è proseguita con il saluto ai tecnici ed ai partners della Fabbrica di San Pietro: “A proposito, ricordiamo che il nucleo originario della Basilica è la tomba di Pietro, il discepolo che il Signore Gesù ha eletto come primo tra gli Apostoli, affidandogli le chiavi del Regno dei cieli. Lo testimoniano le enormi iscrizioni greche e latine che dall’alto accompagnano i fedeli all’altare della Cattedra.
I lavori in progetto dovranno avere lo stesso scopo: accompagnare gli uomini e le donne di oggi; sostenere il loro cammino di discepoli, sull’esempio di Simon Pietro. Perciò vorrei lasciarvi tre criteri, che guidino la vostra opera: l’ascolto della preghiera, lo sguardo della fede, il tatto del pellegrino. Siano questi sensi, al contempo corporei e spirituali, a ordinare con intelligenza le iniziative da compiere”.
Infine ha chiesto che ci siano i confessori: “E c’è un’altra opera d’arte che si svolge nella Basilica, nascosta: i confessori. Per favore, che ci siano sempre, a portata di mano, i confessori. La gente va, sente qualcosa, anche i non cristiani si avvicinano per chiedere una benedizione… In questo mondo così artistico e bello, c’è anche l’arte della comunicazione personale. E per favore, dite ai confessori di perdonare tutto, tutto! Tutto va perdonato… Perdonare, non tanto predicare; qualche parola si deve dire, ma perdonare; che nessuno vada fuori (senza benedizione)… Date la benedizione sempre a tutti, e coloro che vogliono confessarsi, perdonare tutti, tutti, tutti!”
Infine alla delegazione della diocesi di Aosta ed a quella dei canonici del Gran san Bernardo ha ricordato le caratteristiche dell’arcidiacono di Aosta: “Prima di tutto l’annuncio. Bernardo, arcidiacono della diocesi di Aosta, era un predicatore capace di toccare anche i cuori più induriti, aprendoli al dono della fede e alla conversione”.
Altra caratteristica era l’accoglienza: “L’avventura caritativa che lo avrebbe reso famoso è però legata a un’altra missione affidatagli dall’obbedienza: quella di prendersi cura dei pellegrini e dei viandanti che traversavano i passi alpini vicini al Monte Bianco (valichi che ancora oggi portano il suo nome) per venire in Italia dalla Francia e dalla Svizzera e viceversa, in un cammino di viaggi internazionali. Il viaggio era impervio e comportava il rischio di perdersi, di essere assaliti e di morire tra i ghiacci. Per prendersi cura di queste persone, Bernardo fondò i due noti Ospizi, raccogliendo attorno a sé la vostra comunità di Canonici, che ancora oggi si dedica a tale servizio, fedele al motto: Qui Cristo è adorato e nutrito”.
La terza caratteristica riguarda la pace: “Annuncio, accoglienza e, terzo punto, operatore di pace. Bernardo operatore di pace. L’episodio emblematico, in proposito, è il suo viaggio a Pavia, già malato, per cercare di convincere l’Imperatore Enrico IV a desistere dal proposito di far guerra a Papa Gregorio VII. Fu un viaggio che gli costò la vita. Sarebbe infatti morto poco tempo dopo il ritorno… Promuovere la pace, senza scoraggiarsi, neanche di fronte agli insuccessi. E quanto c’è bisogno anche adesso di questo coraggio!”
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco in Belgio: una vergogna gli abusi della Chiesa

In Belgio papa Francesco è stato accolto dai reali e dalle autorità civili, non dimenticando il dramma degli ‘abusi’ elogiando la centralità del Paese nella storia europea: “Quando si pensa a questo Paese, si evoca contemporaneamente qualcosa di piccolo e di grande, un Paese occidentale e al tempo stesso centrale, come se fosse il cuore pulsante di un gigantesco organismo”.
Ed ha definito il Belgio un ‘ponte’ per l’Europa: “Per il fatto di essere sulla linea di faglia tra mondo germanico e mondo latino, confinante con Francia e Germania, che più avevano incarnato le antitesi nazionalistiche alla base del conflitto, esso apparve come luogo ideale, quasi una sintesi dell’Europa, da cui ripartire per la sua ricostruzione, fisica, morale e spirituale”.
Un ‘ponte’ indispensabile per la pace: “Si direbbe che il Belgio sia un ponte: tra il continente e le isole britanniche, tra l’area di matrice germanica e quella francofona, tra il sud e il nord dell’Europa. Un ponte, per permettere alla concordia di espandersi e di far indietreggiare le controversie. Un ponte dove ciascuno, con la sua lingua, la sua mentalità e le sue convinzioni, incontra l’altro e sceglie la parola, il dialogo, la condivisione come mezzi per relazionarsi.
Un luogo dove si impara a fare della propria identità non un idolo o una barriera, ma uno spazio ospitale da cui partire e a cui ritornare, dove promuovere validi interscambi e cercare insieme nuovi equilibri, costruire nuove sintesi. Il Belgio è un ponte che favorisce i commerci, mette in comunicazione e fa dialogare le civiltà. Un ponte dunque indispensabile per costruire la pace e ripudiare la guerra”.
Ed ha spiegato il motivo per cui il Belgio è necessario per l’Europa: “L’Europa ha bisogno del Belgio per portare avanti il cammino di pace e di fraternità tra i popoli che la compongono. Questo Paese ricorda a tutti gli altri che, quando (sulla base delle più varie e insostenibili scuse) si comincia a non rispettare più confini e trattati e si lascia alle armi il diritto di creare il diritto, sovvertendo quello vigente, si scoperchia il vaso di Pandora e tutti i venti incominciano a soffiare violenti, squassando la casa e minacciando di distruggerla. In questo momento storico credo che il Belgio ha un ruolo molto importante. Siamo vicini a una guerra quasi mondiale”.
Ed ha sottolineato che la pace è una missione: “La concordia e la pace, infatti, non sono una conquista che si ottiene una volta per tutte, bensì un compito e una missione – la concordia e la pace sono un compito e una missione -, una missione incessante da coltivare, da curare con tenacia e pazienza. L’essere umano, infatti, quando smette di fare memoria del passato e di lasciarsene istruire, possiede la sconcertante capacità di tornare a cadere anche dopo che si era finalmente rialzato, dimenticando le sofferenze e i costi spaventosi pagati dalle generazioni precedenti. In questo la memoria non funziona, è curioso, sono altre forze, sia nella società sia nelle persone, che ci fanno cadere sempre nelle stesse cose”.
Per questo è necessaria la memoria: “In questo senso il Belgio è quanto mai prezioso per la memoria del continente europeo. Essa infatti mette a disposizione argomenti inoppugnabili per sviluppare un’azione culturale, sociale e politica costante e tempestiva, coraggiosa e insieme prudente, che escluda un futuro in cui nuovamente l’idea e la prassi della guerra diventino un’opzione percorribile, con conseguenze catastrofiche”.
Ed in questa ‘memoria’ storica si inserisce la Chiesa: “La Chiesa Cattolica vuole essere una presenza che, testimoniando la propria fede in Cristo Risorto, offre alle persone, alle famiglie, alle società e alle Nazioni una speranza antica e sempre nuova; una presenza che aiuta tutti ad affrontare le sfide e le prove, senza facili entusiasmi né cupi pessimismi, ma con la certezza che l’essere umano, amato da Dio, ha una vocazione eterna di pace e di bene e non è destinato alla dissoluzione e al nulla”.
Ed ha ricordato che la Chiesa è ‘santa e peccatrice’: “In questa perenne coesistenza fra santità e peccato, di luce e ombra vive la Chiesa, con esiti spesso di grande generosità e splendida dedizione, e a volte purtroppo con l’emergere di dolorose contro-testimonianze. Penso alle drammatiche vicende degli abusi sui minori (alle quali si sono riferiti il Re e il Primo Ministro), una piaga che la Chiesa sta affrontando con decisione e fermezza, ascoltando e accompagnando le persone ferite e attuando in tutto il mondo un capillare programma di prevenzione”.
Ed a proposito di abusi il papa ha detto che essi sono una vergogna: “Fratelli e sorelle, questa è la vergogna! La vergogna che oggi tutti noi dobbiamo prendere in mano e chiedere perdono e risolvere il problema: la vergogna degli abusi, degli abusi sui minori. Noi pensiamo al tempo dei santi Innocenti… ma oggi nella Chiesa c’è questo crimine; la Chiesa deve vergognarsi e chiedere perdono e cercare di risolvere questa situazione con l’umiltà cristiana. E mettere tutte le condizioni perché questo non succeda più.. Nella Chiesa dobbiamo chiedere perdono di questo; gli altri chiedano perdono per la loro parte. Questa è la nostra vergogna e la nostra umiliazione”.
Un altro scandalo sottolineato è stato quello delle ‘adozioni forzate’: “Sono stato rattristato da un altro fenomeno: le ‘adozioni forzate’, avvenute anche qui in Belgio tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso… Spesso la famiglia e altri attori sociali, compresa la Chiesa, hanno pensato che per togliere lo stigma negativo, che purtroppo a quei tempi colpiva la madre non sposata, fosse preferibile per il bene di entrambi, madre e bambino, che quest’ultimo venisse adottato. Ci furono persino casi nei quali ad alcune donne non venne data la possibilità di scegliere se tenere il bambino o darlo in adozione. E questo succede oggi in alcune culture, in qualche Paese”.
Concludendo il discorso papa Francesco si è soffermato a riflettere sul motto del viaggio, ‘In cammino, con speranza’: “Mi fa riflettere il fatto che Espérance sia scritto con la maiuscola: mi dice che la speranza non è una cosa, che durante il cammino si porta nello zaino; no, la speranza è un dono di Dio, forse è la virtù più umile (diceva lo scrittore) ma è quella che non fallisce mai, non delude mai. La speranza è un dono di Dio e si porta nel cuore! Ed allora voglio lasciare questo augurio a voi e a tutti gli uomini e le donne che vivono in Belgio: possiate sempre chiedere e accogliere questo dono dallo Spirito Santo, la speranza, per camminare insieme con Speranza nella strada della vita e della storia”.
(Foto: Santa Sede)
A Tolentino per conoscere fra Tommaso da Tolentino e p. Matteo Ricci sulla strada della Cina

Nel viaggio apostolico a Singapore papa Francesco ha ricordato l’apporto di p. Matteo Ricci nello stabilire l’amicizia con il popolo cinese, ripetendo quello che aveva sottolineato nell’Udienza generale dello scorso anno: “Il suo amore per il popolo cinese è un modello… Lui ha portato il cristianesimo in Cina; lui è grande sì, perché è un grande scienziato, lui è grande perché è coraggioso, lui è grande perché ha scritto tanti libri, ma soprattutto lui è grande perché è stato coerente con la sua vocazione, coerente con quella voglia di seguire Gesù Cristo”.
E’ quello che cercherà di raccontare l’incontro a cui interverranno p. Gianni Criveller, direttore del Centro missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) di Milano, direttore del giornale online Asianews e già presidente della Commissione storica della causa di beatificazione di padre Matteo Ricci, ed il prof. Dario Grandoni, docente di ‘Business Startup e Corporate Finance’ all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Fondazione internazionale ‘P. Matteo Ricci’ di Macerata, sul tema della serata : ‘Fra Tommaso e Padre Matteo in Asia: diplomatici del Vangelo’, mercoledì 25 settembre alle ore 21.15 nella basilica di san Nicola a Tolentino, organizzato dal Comitato per le celebrazioni in memoria del beato Tommaso da Tolentino, dal Santuario della Basilica di san Nicola da Tolentino e dal Sermit.
L’incontro, che è preludio al convegno del convegno internazionale su ‘Marco Polo e i Francescani in Oriente’ che si svolgerà sempre a Tolentino il 18/19 ottobre, prende spunto da una lettera del venerabile p. Matteo Ricci al padre scritta nel 1599, in cui esprimeva il suo desiderio di entrare nell’ordine dei Gesuiti per partire verso la Cina, dopo aver letto il martirio del beato Tommaso da Tolentino, avvenuto in India nel 1321: “Mio padre non ha mai creduto che io fin da bambino sognavo di venire qua in Cina, il misterioso Katai di cui avevo letto nella nostra biblioteca scolastica su quel famoso libro ‘Il Milione’ di Marco Polo e poi anche nelle ‘Memorie di viaggio’ del francescano Odorico da Pordenone, memoria nelle quali avevo trovato il racconto, tra l’altro, del ritrovamento nel 1326 vicino a Bombay, del corpo incorrotto del beato Tommaso da Tolentino, martirizzato… l’11 aprile 1321”.
E p. Ricci, seguendo l’esempio del beato Tommaso da Tolentino, è stato un ‘ponte’ tra Oriente ed Occidente, che oggi è ancora valido, come aveva sottolineato p. Criveller: “Ricci è, come san Francesco, un uomo universale, una persona che unisce, creando ponti, terreno comune e possibilità di dialogo. Non ci sono alternative all’incontro tra i popoli, culture e religioni diverse. Ma Ricci, come Francesco, non è un uomo neutrale, è portatore di un messaggio: il Vangelo di Gesù”.
Monsignor Pighin: il cardinale Costantini antesignano del dialogo tra Santa Sede e Cina

“Di fronte specialmente ai Cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee”: così, nei suoi memoriali, il card. Celso Costantini ricordava un tratto qualificante della sua missione di primo delegato apostolico in Cina dal 1922 al 1933.
Negli ultimi decenni la memoria di questa figura geniale e profetica della Chiesa cattolica del secolo scorso è stata valorizzata da mons. Bruno Fabio Pighin, professore ordinario nella Facoltà di Diritto Canonico S. Pio X di Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione del cardinale. Ed un volume curato dal prof. Pighin, intitolato ‘Il Cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente’, esplora aspetti poco conosciuti del cardinale friulano.
Il segretario di stato vaticano, card. Pietro Parolin, nella prefazione al volume, aggiunge dettagli preziosi: “Quel percorso ha tracciato una direzione, sulla quale la Chiesa prosegue tutt’oggi, come avvenuto con l’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese riconfermato nel 2022. Tale Accordo, già auspicato da papa Benedetto nel 2007 e firmato sotto il pontificato di papa Francesco nel 2018, riguarda la nomina dei vescovi in Cina, in continuità ideale coi sei primi Vescovi cinesi, consacrati a Roma da Pio XI e dallo stesso Costantini nel 1926”.
Da mons. Pighin ci facciamo spiegare da dove nasce l’idea di pubblicare quest’opera: “L’iniziativa è stata voluta dall’associazione ‘Amici del Cardinale Celso Costantini’, promotrice dell’esposizione permanente dedicata a ‘Celso Costantini e la Cina’, inaugurata nel 2023 nel Museo diocesano di arte sacra di Pordenone, che intende custodire, valorizzare e rendere fruibili, anche per i posteri, i tesori culturali inestimabili legati all’insigne porporato pordenonese, molti dei quali provenienti dalla terra di Confucio”.
Quali sono i contenuti di questa pubblicazione?
“Il testo presenta un originale mosaico letterario, nel quale si evidenziano tre polarità che interagiscono tra loro. Anzitutto emerge la figura geniale di Celso Costantini, oggi riscoperta nei suoi vari profili di vescovo e poi cardinale, di scrittore, scultore, protagonista nell’arte sacra del secolo scorso, di diplomatico e di artefice di carità e di pace. Il secondo filone, intrecciato con il primo, illustra le gesta da lui compiute in Cina, dove rifondò la comunità cattolica con propri vescovi, valorizzò la grande civiltà cinese nella liturgia e nell’arte cristiana e sviluppò il dialogo con le autorità del più grande Stato dell’Asia. La terza dimensione attraversa l’intera pubblicazione con 150 fotografie di valore storico-artistico. In esse viene documentato il patrimonio culturale da lui lasciato e ora esposto permanentemente nel Museo diocesano di Pordenone”.
Per quale motivo il card. Celso Costantini è stato un costruttore di ‘ponte’ tra Oriente ed Occidente?
“Celso Costantini, primo delegato apostolico in Cina, ha creato una svolta ai rapporti della Chiesa cattolica con la terra di Confucio e poi, da segretario di Propaganda Fide, più in generale con l’Estremo Oriente. Ha inaugurato la ‘decolonizzazione’ religiosa trattando la Cina con tutta la dignità che meritava, su un piano di uguaglianza, riconoscendone la sua grande cultura e civiltà con la quale si mise in dialogo. Il suo impegno potrebbe essere definito oggi di carattere ‘transculturale’, nella consapevolezza che il Vangelo si ‘coniuga’ con ogni cultura e funge da veicolo anche per i rapporti socio-culturali a livello mondiale”.
Quale contributo offrì il card. Costantini al Concilio sinense?
“Il Primo Concilio Cinese tenutosi a Shanghai nel 1924 sarebbe stato semplicemente impensabile senza l’opera svolta per esso dal card. Celso Costantini. Anzitutto egli fece compiere una svolta di 180 gradi alla preparazione dell’assise, ponendo le basi della futura opera di evangelizzazione in Cina, mentre in precedenza l’impegno mirava a comporre un compendio delle disposizioni emanate negli ultimi tre secoli. Nella fase della celebrazione conciliare egli fu il grande protagonista nel condurlo a buon fine. Gli atti prodotti sono splendidi, grandiosi e originali nella loro forma e nel loro contenuto, considerati ovviamente nel loro contesto di un secolo fa. Infine il card. Costantini fu l’artefice principale della loro pronta attuazione, prima ancora che i decreti conciliari fossero revisionati dalla Santa Sede e poi pubblicati nel 1929”.
Per il card. Costantini cosa significava ‘evangelizzare’?
“Per il card. Celso Costantini ‘evangelizzare’ voleva dire l’opposto di ‘conquistare’, perché significava far risuonare la bellissima notizia portata da Gesù Cristo all’umanità. Il punto centrale stava nel favorire una relazione diretta delle persone con il Risorto, al fine di sperimentare il suo amore salvifico per ogni essere umano, chiamato alla dignità di diventare figlio di Dio”.
Il dialogo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese ha portato all’accordo per la nomina dei vescovi cinesi: si può dire che il card. Costantini fu antesignano di questo dialogo?
“Il card. Celso Costantini fu più di un ‘antesignano’ di questo dialogo. Infatti, i rapporti tra la Repubblica Cinese e la Santa Sede non sono iniziati oggi, ma si collocano in un tracciato storico. Le piene relazioni diplomatiche tra lo Stato più grande dell’Asia e la Sede Apostolica, stabilite nel 1946, ebbero nel card. Costantini il principale protagonista. Esse furono poi congelate con l’avvento della rivoluzione maoista. Oggi si sta verificando un disgelo fra i due soggetti di diritto internazionale, il quale impone di affrontare problemi simili a quelli risolti con l’apporto determinante del card. Costantini. Si noti poi che l’accordo in vigore tra le due parti sovrane sulla nomina dei vescovi cinesi riguarda i presuli con i successori di quelli portati alla dignità episcopale dallo stesso card. Costantini”.
Cosa è stato il ‘metodo’ Costantini?
“Alcuni storici contemporanei hanno individuato nell’opera di Celso Costantini un metodo nuovo e originale a livello politico e diplomatico della Santa Sede. Detto metodo si basa sull’opportunità di muoversi verso una metà ben chiara tramite percorsi parziali ma sanificativi, ampliando gradualmente le aree condivise e utilizzando canali di dialogo non solo diplomatici, ma anche sociali e culturali. Questo è congeniale alla Santa Sede perché, a differenza degli altri soggetti di diritto internazionale territorialmente delimitati, essa gode di dimensioni planetarie nel governo della Chiesa cattolica che è universale”.
(Tratto da Aci Stampa)
Papa Francesco: la dama apre la mente

“Prendersi cura degli anziani è assumere un’eredità. E quell’eredità, consegnatela. Pertanto, l’altra estremità sono i bambini. Mi stavo divertendo a vedere con quanta gioia succhiava il biberon. Una promessa. Eredità e promessa. E noi siamo un ponte”: con queste pennellate papa Francesco ha incontrato i membri della fondazione ‘Memorial papa Francesco, a cui ha espresso gratitudine.
Inoltre ha ringraziato l’associazione spagnola per le attività che svolge, ricordando che è necessario prendersi cura di anziani e bambini: “Oggi vorrei mettere in risalto queste due cose: eredità e futuro, anziani e bambini; Dobbiamo prenderci cura di entrambi perché la storia continua. E poi, universalità nella collaborazione di tutti”.
Inoltre ha ricevuto anche i membri della Federazione Italiana Dama, in occasione del centenario della Federazione italiana, fondata nel 1924 ed attualmente presieduta da Carlo Andrea Bordini, elogiando questo ‘gioco’: “Il gioco della dama ha due belle caratteristiche: stimola la mente ed è accessibile a tutti. Infatti richiede intelligenza, abilità e attenzione, ma non grandi mezzi e strutture. E’ uno di quei giochi con cui, ovunque ci si trovi, si può facilmente creare un momento di incontro e di divertimento: bastano una scacchiera e le pedine, due giocatori, ed è un modo simpatico di stare insieme”.
Le origini della disciplina sono antiche, risalenti al 5.000 a.C. mentre diagrammi di damiere (le scacchiere su cui si gioca) sono stati trovati nella tomba egizia di Kurna, vicino a Fiv, datata 1350 a.C. Quanto alle moderne regole, il primo Paese ad adottarle fu la Spagna nel XVI secolo. In Italia il primo campionato nazionale si svolse nel 1925 e può essere praticato da tutti, perché sviluppa lalogica: “Questo fa sì che la dama sia un gioco per tutti, praticato in varie parti del mondo.
Ad esempio, risulta che sia uno degli svaghi più comuni tra i migranti che approdano sulle nostre coste: tanti di questi fratelli e sorelle, in situazioni di grande incertezza e apprensione, trovano sollievo giocando a dama, a volte anche insieme alla gente che li accoglie, nella semplicità e nella condivisione. E inoltre è un gioco che fa esercitare la capacità logica, e ce n’è bisogno, perché l’abuso dei nuovi media invece la fa addormentare!”
L’incontro si è concluso con un ringraziamento: “Perciò auguro ogni bene per la vostra attività; e vi incoraggio anche a tenere vivi i momenti di spiritualità che abitualmente associate agli eventi più importanti organizzati dalla Federazione. Vi ringrazio della vostra visita e vi benedico. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. E portate sempre i bambini, che sono una promessa!”
La giornata è stata conclusa dal colloquio con il presidente del Tadjghistan, Emomali Rahmon, piccola nazione dell’Asia Centrale, una delle ex repubbliche socialiste sovietiche, vertente sul dialogo con la Russia e sul rapporto con le altre fedi. Nel colloquio bilaterale in Segreteria di Stato, insieme con il card. Pietro Parolin, segretario di Stato, e mons. Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, sono state “rilevate le buone relazioni tra la Santa Sede e il Tadjikistan, e ci si è soffermati su alcuni aspetti della situazione politica e socioeconomica del Paese”.
(Foto: Santa Sede)
Caritas Italiana: i confini sono ‘zone di contatto’

Giovedì 11 aprile si è concluso a Grado il 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane dedicato al tema dei ‘Confini, zone di contatto, non di separazione’ con la partecipazione di 613 persone, tra direttori e membri di équipe provenienti da 182 Caritas diocesane di tutta Italia, con la testimonianza di don Otello Bisetto, cappellano del carcere minorile di Treviso, alla quale si è aggiunta quella di Giulia Longo, operatrice della Caritas in Turchia, che ha riportato la sua esperienza di impegno ‘al confine’ e nel post terremoto, dando voce ai molti giovani operatori Caritas: “Non su può essere giovani senza gli adulti, non si può essere adulti senza i giovani”.
Mentre mons. Alojzij Cvikl, presidente della Caritas Slovenia, ha raccontato la vita di un’arcidiocesi di ‘confine’: “Dopo il 1991 iniziarono ad aprirsi le frontiere, sia verso l’Italia, sia verso l’Austria e l’Ungheria,.. E’ stato un cambiamento storico. Prima il confine era una barriera, una divisione, lo si attraversava con paura, perché c’erano file e si facevano controlli.
I confini erano un luogo di separazione, anche per le famiglie, i parenti. La politica indicava quelli dall’altra parte del confine come a dei nemici. Insomma, erano tempi difficili e dolorosi. Nella nostra arcidiocesi abbiamo una chiesa filiale, dove il confine scendeva al centro della chiesa, metà dell’altare era in Austria, metà in Slovenia. La chiesa aveva due sacrestie per il sacerdote che veniva dal suo fianco alla chiesa. Le Sante Messe tedesche e slovene erano rigorosamente separate”.
Però il confine è anche un ponte: “Dal 2016, con il vescovo di Graz, concelebriamo la santa messa insieme in questa chiesa, la seconda domenica di luglio. Così i credenti di entrambe le parti ogni anno si sentono sempre più vicini. Il confine è diventato un ponte, un luogo di incontro, di arricchimento e di gioia per stare insieme… I confini non devono dividerci. Possiamo imparare gli uni dagli altri e sostenerci a vicenda. Questo si manifesta soprattutto quando l’altro è nei guai, quando viene messo alla prova”.
Negli ‘orientamenti’ conclusivi il direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, ha indicato le proposte di lavoro per continuare il cammino Caritas nei prossimi mesi, richiamando le parole del primo presidente di Caritas Italiana, mons. Giovanni Nervo, che sottolineava il valore della parola ‘confine’:
“Siamo abituati a dire il Padre nostro e finiamo col non accorgerci che è una preghiera terribilmente impegnativa. Quelli che si rivolgono alla stessa persona chiamandola padre riconoscono di essere fratelli a tutti gli effetti: se poi nella vita di ogni giorno non riconosciamo negli altri uomini i nostri fratelli, abbiamo mentito e offendiamo il padre, che ama gli altri figli come ama noi.
Allora che mio fratello sia ammalato in casa mia, o nel paese vicino, o a diecimila chilometri di distanza sostanzialmente non fa differenza: anzi, se è lontano, la sua malattia mi crea angoscia perché mi è più difficile aiutarlo… Dipende da dove poniamo i confini del mondo. Possiamo porli in noi stessi. Possiamo porli nel nostro gruppo (famiglia, partito, razza, paese). Possiamo togliere ogni confine: allora ogni uomo è mio fratello”.
Per questo don Pagniello ha ricordato che per la Caritas i confini non sono dei limiti, ma delle ‘zone di contatto’, cioè “luoghi in cui fare l’esperienza della presenza di Dio perché ci permettono di aprirci agli altri e di capire che c’è Qualcuno che può fare prima, durante e dopo il nostro servizio… I confini sono tessere cruciali nel mosaico che compone la vita e le relazioni umane. L’ambivalenza del termine ‘Ospite’, che definisce sia chi accoglie, sia chi viene accolto, esprime la dinamica relazionale del confine”.
I confini, per don Pagniello, sono ‘identità’ da custodire da coloro i quali vogliono abbatterli per evitare controlli: “Il commercio delle armi non deve essere ‘semplificato’, come nell’intento dei promotori di questa proposta di legge in discussione in Parlamento (voto già avvenuto al Senato, dibattito in corso alla Camera) se non negli interessi diretti di chi queste armi produce e commercia. E questa ‘semplificazione’ non produrrà nessun miglioramento della sicurezza del nostro Paese. Sarà anzi molto più facile che le armi italiane finiscano a Paesi in guerra, le cui pratiche sono in aperta violazione dei diritti umani”.
Ed ecco il motivo per cui il direttore di Caritas italiana ha lanciato la sfida di ‘difendere’ i confini in modo diverso: “I giovani di oggi vogliono pensare e decidere il loro avvenire. Non è legittimo e doveroso da parte nostra, che apparteniamo alla storia e alla cultura del passato, incoraggiare e sostenere i giovani perché accettino questa sfida di civiltà e si misurino con essa per imparare ad amare la patria e a difenderla in modo diverso più umano, più civile, più cristiano di quello delle armi?”
Infatti dalle parole di mons. Nervo nasce l’opportunità di ‘sconfinare’ in quanto ‘tutto è connesso’: “E’ questa l’opportunità di mons. Giovanni Nervo che scegliamo per imparare a connettere i fenomeni, nella consapevolezza che possiamo meglio affrontare le questioni e le sfide locali solo se teniamo in considerazione il contesto globale. ‘Sconfinare’ è, in questo caso, una scelta che ci definisce”.
Per tale motivo Caritas Italiana ha avviato il ‘Coordinamento Europa’, condividendo l’appello di Caritas Europa su cinque priorità in vista delle elezioni del prossimo giugno, proposte per il Parlamento europeo per un’Europa ‘più giusta’: mercati del lavoro e protezione sociale efficaci, accesso garantito a servizi sociali buoni e di qualità, tutela dei diritti umani e della dignità nelle politiche di migrazione e di asilo, finanziamenti costanti per gli attori locali che svolgono attività di sviluppo e umanitarie, politiche globali più eque per lo sviluppo sostenibile, affrontando questioni come la necessità di sistemi alimentari equi e la finanza per il clima.
Infine il Direttore di Caritas Italiana ha rilanciato l’importanza della presenza dei volontari che sono un indicatore dell’efficacia del lavoro di animazione della comunità cui è chiamata la Caritas. Ha richiamato alla necessità di ‘stare nelle complessità’ e ribadito il senso ed il ruolo della Caritas, ad ogni livello, perché l’efficacia della Caritas non si misura sul fare, ma sull’essere: ‘Il nostro fare nasce dal nostro essere’:
“Riconoscere i nostri confini significa imparare a stare sulla soglia, consapevoli dei nostri limiti e potenzialità, disposti a scoprire parti di sé che solo l’Altro può svelare. Animare la comunità, perché sappia custodire il senso profondo dell’umano che affiora nella capacità di abitare il ‘tra’ di un attraversamento che è anche un intrattenersi… Abitare il confine significa essere testimoni di carità, per seminare speranza ed essere segno, sapendo che “la prima opera segno è lo stile con cui facciamo le cose”.
Nella liturgia di apertura mons. Francesco Moraglia, patriarca di Venezia e presidente della Conferenza episcopale del Triveneto, ha sottolineato che la Chiesa è chiamata a non disgiungere carità e giustizia: “La Chiesa è immersa in una dinamica d’amore concreto e senza confini. E nella nostra società è chiamata sempre più a mostrare e indicare che c’è sì la giustizia ma c’è anche la carità (le due dimensioni non vanno confuse ma vanno tenute insieme) e che la vita dell’uomo non può essere ridotta ad una concezione materialista o spiritualista che, di fatto, porterebbero a ridimensionare o umiliare la dignità dell’uomo stesso”.
In questa ‘immersione’ nel mondo la preghiera è il fondamento dell’azione: “La preghiera ci aiuta così a capire, a discernere, ad opporci ad una concezione dell’uomo in cui Dio o è negato o espulso al di fuori delle vicende storiche del nostro oggi che ci interpella come discepoli e discepole del Signore. Una fede disincarnata non è la fede del Vangelo. Cornelio, alla fine, si fida e si affida alla parola di Pietro; non sa ancora di doversi battezzare ma accetta la Parola di Dio ed entrerà, così, nella comunità del Risorto”.
Mentre, introducendo i lavori della giornata di apertura, il presidente di Caritas Italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia, ha sottolineato che i confini sono anche occasioni di ‘grazia’: “Domani pomeriggio passeremo un confine, ormai superato dalla storia e che non c’è mai stato fino al Novecento, che divide le due città Gorizia e Nova Gorica, due realtà che l’anno prossimo saranno insieme capitale europea della cultura. Un evento che per il solo fatto di essere stato pensato come possibile è già per noi una grazia. Comprendete quindi che parlare di confini come zone di contatto e non di separazione per noi che abitiamo e viviamo qui non è una questione di principio o di studio, ma è qualcosa che tocca la nostra carne, il nostro cuore e la nostra mente. E’ per noi un tema necessario”.
Prendendo spunto dal saluto in tre lingue mons. Redaelli ha spiegato che i confini sono stati spesso separazioni dolorose: “Le tre lingue ci fanno entrare immediatamente nel tema del nostro convegno, perché indicano comunque dei confini linguistico-culturali ben precisi.
Confini che nella storia del secolo scorso, intrecciandosi con i confini voluti e approfonditi dai nazionalismi e dalle ideologie totalitarie, hanno ferito gravemente questa terra e soprattutto hanno scavato nei cuori e nelle menti dei confini ancora più difficili da valicare rispetto a quelli fisici”.
(Foto: Caritas Italiana)
Papa Francesco a Lisbona: l’Europa sia ponte di speranza

Oggi è iniziato il 42^ viaggio internazionale di papa Francesco, che è atterrato a Lisbona, dove lo attenderanno molti giovani per la Giornata Mondiale della Gioventù ed alla partenza a Roma ha salutato a Casa Santa Marta un gruppo di persone accompagnate dal card. Konrad Krajewski, prefetto del Dicastero della Carità. E lungo la strada che congiunge l’aeroporto dal Palazzo presidenziale, molti giovani con gli abitanti di Lisbona hanno salutato il papa.
Patriarca Moraglia: è necessario educare alla libertà e responsabilità

Nella scorsa settimana a Venezia è stata celebrata la festa del Santissimo Redentore con l’apertura del ponte votivo dedicato a questa importantissima festa per la città nel ricordo della liberazione dalla peste del 1575-77, come ha sottolineato nel discorso alla città il patriarca Francesco Moraglia:
Da Budapest papa Francesco invita ad essere porte aperte

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Al termine della recita del Regina Caeli del viaggio apostolico a Budapest papa Francesco ha ringraziato per l’accoglienza, sottolineando che i confini sono ‘zone di contatto’, accomunate dal Vangelo, come aveva sottolineato il card. Péter Erdő. Metropolita di Esztergom-Budapest: