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Don Ponticelli: il sacramento della penitenza per scoprire che la speranza non delude

“Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma”.

A poche settimane dall’apertura della Porta Santa, prendiamo spunto dall’incipit della Bolla di indizione del Giubileo, ‘Spes non confundit’ per colloquiare con don Raffaele (Lello) Ponticelli, docente di psicologia nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, psicologo e psicoterapeuta per farci raccontare il motivo per cui ‘la speranza non delude’:

“La speranza non delude   perché ha le sue radici ‘in alto’, nella Risurrezione di Cristo dai morti. Già papa Benedetto XVI  lo aveva ricordato parlando della ‘Grande speranza’ nell’enciclica ‘Spe Salvi’, distinta  da quelle piccole, molto belle e importanti, che sostengono dinanzi alle difficoltà e alle prove, ma non reggono dinanzi all’enigma della morte. Insomma,  la fede nella Risurrezione di Cristo, cuore dell’annuncio cristiano,  fa la differenza”.

In quale modo la Chiesa riesce a dare una parola di speranza?

“Annunciando con umile fierezza  il Vangelo di Gesù, la sua morte in Croce per amore e la sua Risurrezione. Questo annuncio, però, è credibile se accompagnato (anzi, talvolta preceduto) dalla testimonianza di donne e di uomini che sono essi stessi segni  di speranza come operatori di pace e giustizia, amanti della vita dal suo sbocciare fino al suo naturale tramonto; donne e uomini  che esprimono agli ammalati, ai detenuti, ai migranti, agli esuli e ai profughi, ai poveri e agli indigenti,  vicinanza, tenerezza e compassione, secondo lo stile stesso di Dio. La Chiesa, poi,  dona  speranza quando accompagna con discrezione i giovani, li incoraggia, ne valorizza e ne custodisce i sogni, favorendo la conoscenza e l’incontro con Cristo”. 

Davanti al dolore quale speranza?

“Quella innanzitutto di trovare sollievo,  di  non essere  lasciati soli,  di ricevere , per esempio,  le cure mediche necessarie, fino a sempre più  efficaci  terapie  del dolore e ad un  accompagnamento affettivo, psicologico e spirituale pure nell’ora del morire. E’ importante donare una speranza che non nasconda la drammaticità del dolore e neanche la sfida che, soprattutto quello innocente,  pone alla fede.

C’è bisogno di una speranza che educhi ad accostarsi al dolore altrui con discrezione e verità, senza favorire il vittimismo, ma, anzi, sapendone sdoganare, assumere e rispettare  i momenti di rabbia e protesta, sconcerto e delusione, silenzio e disperazione, offrendo vie per trovare un senso e non per favorire forme di fuga. A nessuno è consentito discettare con supponenza o con parole di circostanza su questo; ma ai cristiani è chiesto soprattutto di seguire l’esempio di Cristo che passò  facendo del bene, ma soprattutto condividendo  il dolore  e trasformandolo in occasione di salvezza con il dono di sé”.

In quale modo i cristiani possono essere pellegrini di speranza?

“A quanto detto aggiungerei che è importante pregare come poveri e mendicanti per chiedere a Dio  il dono della speranza per sé e per gli altri. Si diventa pellegrini di speranza imparando dai quei cristiani che sono in condizioni di minoranza od, addirittura, sono  perseguitati, emarginati, lasciati soli eppure continuano a  sorridere ed a ‘vedere la spiga dove gli occhi di carne vedono solo un seme che marcisce’, come diceva don Primo Mazzolari. Ma c’è tanto da imparare anche da donne e uomini  di altre culture e fedi religiose che spesso custodiscono e vivono l’essenziale della speranza, animati segretamente dallo Spirito Santo”.  

Nella Bolla di indizione del Giubileo papa Francesco ha sottolineato l’importanza del sacramento della penitenza: come riscoprire la bellezza di questo sacramento?

“Chiedendo a Dio di poter cercare e incontrare confessori buoni e saggi, ‘ladroni graziati’ anche essi, ma felici della misericordia di cui fanno esperienza e di cui diventano servi, non padroni; dispensatori e non censori o doganieri. Si riscopre il Sacramento della penitenza, guardando al Crocifisso e sperimentando si sentirsi amati e perdonati da Lui a prescindere, con la certezza che  ci perdona sempre, sempre, sempre.

Ho visto persone che hanno scoperto la bellezza di questo Sacramento abbandonando un’immagine distorta di Dio e di se stessi a partire dal Vangelo  e si sono accostate alla Confessione anche dopo tanti anni, accettandone con coraggio il rischio. Sperimentare l’abbraccio di Dio che è pronto a far festa per ogni figlia e figlio che torna: c’è qualcosa di più bello?”  

(Tratto da Aci Stampa)

Da Venezia mons. Moraglia invita a vivere la Chiesa

“Una festa liturgica deve aiutare la comunità ecclesiale ad essere se stessa, a valorizzare le molteplici vocazioni che la costituiscono e il rapporto con Dio nell’atto dell’adorazione e della carità vissuta. Sono ancora presenti, in noi, le parole e la testimonianza di papa Francesco che abbiamo accolto il 28 aprile scorso in visita a Venezia”: così il patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia ha iniziato l’omelia per la festa del Redentore, in cui si ricorda la fine dell’epidemia di peste che colpì la città lagunare tra il 1575 e il 1577.

Ed a distanza di quasi 450 anni il patriarca ha invitato a ‘ripensare il nostro modo d’essere cristiani’: “La festa del Redentore ci conduce al cuore della fede cristiana: noi siamo dei salvati, dei perdonati, dei riconciliati. Il Redentore indica come Gesù si china su di noi, sulle nostre ferite e quelle delle nostre comunità.

Dobbiamo cogliere tale opportunità. Talvolta guardiamo la Chiesa, la persona di Gesù e i sacramenti (Battesimo ed Eucaristia) considerandoli come realtà giustapposte fra loro, quasi ‘cose’ che ci stanno dinanzi. Invece siamo chiamati a cogliere, in una fede viva, la rivelazione cristiana nella storia, cogliendo il suo punto di riferimento che è Gesù Cristo, verso il quale tutta la storia è protesa”.

Gesù invita a ripensare la Chiesa: “La celebrazione liturgica ci fa vivere la Chiesa come ‘noi’ e non come singoli ‘io’ giustapposti. Questo ‘noi’ ha il suo fondamento nel Signore Gesù che è il centro della nostra salvezza. Noi entriamo nella salvezza tramite i sacramenti della Chiesa, la Chiesa è il sacramento di Cristo e Cristo, nello Spirito Santo, è il sacramento del Padre. Il nostro incontro con Cristo (il Redentore che perdona e chiede alla Chiesa d’esser portatrice di perdono e riconciliazione) avviene nella Parola e nei sacramenti; la Chiesa è proprio tale relazione vivente con Cristo”.

E Gesù scende in ‘noi’ nell’Eucarestia:”Ma come si fa accessibile a noi l’ ‘io’ di Cristo nel quale, finalmente, si risponde positivamente al progetto di Dio? Come possiamo farne parte? Entrando nella Chiesa, la compagnia di Cristo morto e risorto.

L’Eucaristia non è solo celebrazione, non è solo banchetto; è amore totale consegnato alla Chiesa. ‘Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta’: c’è un legame intrinseco con la Chiesa, la comunità che è il corpo di Cristo, un amore sponsale che rimane per sempre. Ecco perché il matrimonio è indissolubile: è dono della persona per sempre, come l’amore di Cristo per la Chiesa”.

Attraverso l’Eucarestia si diventa ‘noi’: “Tale amore, donato nel sacramento dell’Eucaristia, costruisce la Chiesa, ossia l’umanità salvata, e così il titolo ‘Redentore’ non è qualcosa di astratto ma richiama la misericordia, la vicinanza, il dono concreto di Gesù che cambia il nostro modo di pensare, parlare, agire, essere. E’ proprio attraverso l’Eucaristia che diventiamo Chiesa e quindi possiamo celebrare l’Eucaristia…

Sì, Cristo viene prima della Chiesa, viene prima di noi, viene prima della nostra celebrazione che è resa possibile solo da Lui, il solo capace di renderci Chiesa perché è il nostro Redentore”.

E tale festa è manifestazione di una Chiesa in ‘costruzione’: “La festa del Redentore, inoltre, ci ricorda che siamo una Chiesa in costruzione, la comunità del Risorto, da Lui edificata e che cerca di fare sua la redenzione vivendo il sacramento dell’Eucaristia…

Non è possibile imporsi o appropriarsi teologicamente o liturgicamente dell’Eucaristia da parte di una comunità o di una parte d’essa; l’Eucaristia plasma la comunità e non viceversa. Una comunità si lascia plasmare dall’Eucaristia quando, nella grazia, si rende disponibile ad una vera vita eucaristica. Ma la carità cristiana rischia, a sua volta, di ridursi al puro umano o al sociale, trasformando la Chiesa in attività in occasione di Gesù Cristo”.

E’l’Eucarestia che trasforma il cristiano in redento: “Noi siamo e rimaniamo sempre dei redenti. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano; si tratta di riconoscersi peccatori e di non giudicare la parola di Dio. Sì, è l’Eucaristia che ci rende Chiesa e noi entriamo nel sì del Verbo nel momento dell’incarnazione e durante la sua vita pubblica. Le nostre rinunce battesimali inscrivono in noi il sì di Gesù che vince Satana e le sue tentazioni”.

Infine, citando l’omelia di papa Francesco, che ha concluso a Trieste la Settimana Sociale, mons. Moraglia ha invitato a guardare il Redentore: “Guardiamo al Redentore con sguardo di fede, a partire da una più concreta appartenenza alla Chiesa e passando attraverso l’Eucaristia che non è, in primis, rito o celebrazione ma lo stesso Mistero di Cristo, accessibile alle nostre comunità e a ciascuno di noi e che ci trasforma in Lui”.

Mentre alcuni giorni prima della festa il patriarca aveva rivolto una preghiera al Redentore, benedicendo il ponte: “O Santissimo Redentore, abbiamo appena attraversato il ponte votivo per rinnovare la promessa dei nostri padri che, oltre 450 anni fa, dinanzi ad un grave pericolo e consapevoli della loro debolezza di fronte al male (la peste), hanno guardato a Te.

Anche noi oggi sentiamo il bisogno di rivolgerci a Te, nostro Redentore, con la forza della preghiera. Il nostro pellegrinare verso questo Santuario, così caro per noi veneziani, si è fatto carico di pensieri e preoccupazioni che affliggono il nostro cuore e toccano la vita del nostro Paese, dell’Europa, del mondo intero”.

E dal ponte del Redentore ha elevato una preghiera di pace: “A Te, Santissimo Redentore, vogliamo affidare oggi non solo la nostra città (desiderosa di pace e da sempre luogo d’incontro) ma anche la nostra Europa affinché esprima ancora e di nuovo quella cultura e quella spiritualità che le sue radici cristiane le hanno dato e che l’hanno resa un continente capace di creare ponti tra persone e popoli differenti, relazioni buone e vere, in grado (come la storia insegna) di creare legami stabilendo unità e concordia che oggi paiono smarrite…

Tutto questo è opera Tua, nostro Santissimo Redentore, e questa nostra festa sia un guardare tutti insieme e di nuovo a Te per ritornare all’Unico che dona vita e salvezza, all’Unico che è Amore e Verità. Santissimo Redentore, vieni e illumina, vieni e custodisci, vieni e sostieni, vieni e conforta, vieni e infondi coraggio e sapienza, vieni e benedici tutti noi, Tu che sei l’unica speranza e salvezza”.

(Foto: Patriarcato di Venezia)

La Chiesa ribadisce che non tutte le unioni sono matrimoni

“Come nella già citata risposta del Santo Padre ai Dubia di due Cardinali, la presente Dichiarazione resta ferma sulla dottrina tradizionale della Chiesa circa il matrimonio, non ammettendo nessun tipo di rito liturgico o benedizioni simili a un rito liturgico che possano creare confusione.

Preti per una Chiesa in uscita. Ripensare il ministero nel contesto attuale

‘Preti per una Chiesa in uscita’, pubblicato da Edizioni Messaggero Padova (2023), cerca di approfondire il ‘cambiamento d’epoca’ fotografato ormai alcuni anni fa da papa Francesco.

La teologia del matrimonio di Walter Kasper tra luci e ombre

L’Autore, come fa intendere il titolo della sua opera, vuole offrire una prospettiva teologica del matrimonio cristiano. Tuttavia, quella espressa in queste pagine è la prospettiva cattolica. Nel libro si accenna a Lutero e alla tradizione orientale ma, se si entra in un pur timido dialogo – in particolare con la tradizione luterana ‒, è per evidenziare la differenza che intercorre tra il punto di vista cattolico e quella luterano, permettendo così di mettere in luce la concezione di sacramento in merito al matrimonio espressa nel concilio di Trento.

In secondo luogo l’Autore, a più riprese, nella prima parte, sottolinea come il sacramento del matrimonio sia tra i sacramenti quello che congiunge ordine della creazione e ordine della salvezza/redenzione. Tuttavia, questa congiunzione, forse anche a motivo del taglio giuridico-pastorale che caratterizza la seconda parte del libro, appare abbozzata ma non pienamente articolata.

Dalla lettura complessiva dell’opera, infatti, si ha l’impressione che il polo antropologico e il polo teologico del sacramento del matrimonio vengano accostati e non rapportati nella loro unità e differenza. L’evento cristologico, che fonda il sacramento del matrimonio, sembra portare a compimento l’antropologico, quando con l’amore fedele si apre al definitivo e, quindi, al mistero.

Tuttavia così non viene enunciata la specificità, il proprium del polo teologico. Prova ne è il fatto che, a più riprese, venga sottolineato come l’amore fedele e fecondo è già partecipazione dell’amore che c’è tra Dio e gli uomini, pienamente e definitivamente manifestato in Gesù Cristo.

La novità dell’esperienza sacramentale vi pare ultimamente espressa in ciò che Dio aggiunge all’amore terreno, per il fatto che nell’incarnazione del Figlio ha accettato una volta per sempre l’umano e lo ha, quindi, affermato contemporaneamente nella sua propria dignità, rendendolo espressione del suo amore.

Questa formulazione, però, inclina a considerare l’evento salvifico solo come ciò che Dio compie in occasione dell’incarnazione, senza dare rilievo alla effettiva vicenda storica di Gesù di Nazareth e alla complessa trama di rapporti e di vicende entro cui l’amore divino viene a comunicarsi. 

L’uomo sembra così risultare semplicemente destinatario dell’amore di Dio, recettore di benefici che raggiungono la sua libertà, senza che sia messo a tema in che modo questa non solo ne viene investita, ma interpellata[1].

In una simile prospettiva, infatti, c’è da chiedersi cosa è il sacramento del matrimonio rispetto a questo amore, se esso è già segno?

Un simile “difetto” sembra essere riscontrabile, quando, nell’ambito del quarto e ultimo capitolo, si tenta di presentare il rapporto tra matrimonio civile e matrimonio ecclesiastico. La prospettiva storica, qui adottata, se fa comprendere il motivo dell’istituzione del matrimonio civile, non evidenzia, però, la diversità e, dunque, la specificità di questo rispetto al sacramento del matrimonio.

Nel passaggio da un modello oggettivistico ad un modello personalistico, che esprime l’originalità dell’opera dell’Autore, si ravvisano alcuni rilievi critici. Discutibile, infatti, appare la definizione dell’amore, che si trova nella prima parte, in particolare nel primo capitolo, fondata sul bisogno.

Sembra connotare l’amore, nel suo sorgere, come una sorta di penuria che va superata, una mancanza che idealmente non dovrebbe esserci. Il sorgere dell’amore, detto in altri termini, sembra essere rimedium finitudinis. Inoltre, a proposito della sessualità umana intesa come “strumento” della comunicazione intersoggettiva, Kasper sembra dare adito ad una separazione tra esteriore e interiore, libertà e corpo che, nel suo stesso intento, vorrebbe superare.

Infine il fatto che, dapprima, nei primi due capitoli, si parli del matrimonio come “qualcosa che si celebra”, senza che venga indagata la dimensione liturgica del matrimonio, e, successivamente, nel terzo e quarto capitolo, il matrimonio venga definito un contratto, sembra indicare, nella terminologia, una regressione, quasi un cedimento ad un’impostazione pre-conciliare che si vorrebbe superare.

Va sottolineato che questo cedimento è comprensibile dato il fatto si tenta di trovare una soluzione al problema dei divorziati risposati anche sotto il profilo canonico-pastorale. Infatti, come ho avuto modo di rilevare sopra, il Codice di diritto canonico allora vigente era quello del 1917 e non quello del 1983 che, da questo punto di vista, ha codificato l’insegnamento conciliare.

In conclusione l’opera di Kasper, sia con i suo elementi positivi sia con i suoi elementi critici di cui si è cercato di dar conto, tenta di comprendere la sacramentalità del matrimonio secondo un modello che potremmo definire antropologico-dogmatico[2]: la realtà naturale, quindi il contratto matrimoniale, è il sacramento.

Sulla scia della speculazione teologica di Schillebeekx il matrimonio è presentato da Kasper come un’istituzione umana attraverso cui Dio si rivela dalle origini fino ad ora. In questa prospettiva ciò che sta in primo piano sono i rapporti interpersonali tra i coniugi e la stessa sacramentalità è vista in relazione ad essi. 

Il matrimonio diventa un’immagine vivente delle relazione d’amore di Dio con il suo popolo ed ogni singolo matrimonio agisce unicamente come rivelazione di questo patto[3]


[1] A. BOZZOLO, Il rito di Gesù. Temi di teologia sacramentaria, LAS, Roma 2013, p. 254.

[2] Cf. i tre modelli proposti da Aliotta in M. ALIOTTA, Il matrimonio, Querianiana, Brescia 2002, p. 97.

[3] Ibidem, p. 100.

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