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Papa Francesco: l’autorità è servizio

“Penso con dolore ai fratelli e alle sorelle che soffrono per la guerra: pensiamo a tutte le popolazioni ferite o minacciate dai combattimenti, che Dio le liberi e le sostenga nella lotta per la pace. E rendo grazie a Dio per la liberazione dei due sacerdoti greco-cattolici. Possano tutti i prigionieri di questa guerra tornare presto a casa! Preghiamo insieme: tutti i prigionieri tornino a casa”: ancora una volta papa Francesco, al termine dell’Angelus per la festa dei santi Pietro e Paolo, ha rivolto un appello per la pace in Ucraina e la liberazione dei prigionieri, ribadendo che l’autorità è un servizio:

“Per questo vediamo spesso San Pietro raffigurato con due grandi chiavi in mano, come nella statua che si trova qui, in questa Piazza. Quelle chiavi rappresentano il ministero di autorità che Gesù gli ha affidato a servizio di tutta la Chiesa. Perché l’autorità è un servizio, e un’autorità che non è servizio è dittatura”.

Ed ha spiegato il valore dell’autorità: “Stiamo attenti, però, a intendere bene il senso di questo. Le chiavi di Pietro, infatti, sono le chiavi di un Regno, che Gesù non descrive come una cassaforte o una camera blindata, ma con altre immagini: un piccolo seme, una perla preziosa, un tesoro nascosto, una manciata di lievito, cioè come qualcosa di prezioso e di ricco, sì, ma al tempo stesso di piccolo e di non appariscente. Per raggiungerlo, perciò, non serve azionare meccanismi e serrature di sicurezza, ma coltivare virtù come la pazienza, l’attenzione, la costanza, l’umiltà, il servizio”.

La missione affidata da Gesù è quella di permettere l’entrata a tutti: “Dunque, la missione che Gesù affida a Pietro non è quella di sbarrare le porte di casa, permettendo l’accesso solo a pochi ospiti selezionati, ma di aiutare tutti a trovare la via per entrare, nella fedeltà al Vangelo di Gesù. Tutti, tutti, tutti possono entrare. E Pietro lo farà per tutta la vita, fedelmente, fino al martirio, dopo aver sperimentato per primo su di sé, non senza fatica e con tante cadute, la gioia e la libertà che nascono dall’incontro con il Signore. Lui per primo, per aprire la porta a Gesù, ha dovuto convertirsi, e capire che l’autorità è un servizio”.

Precedentemente nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, papa Francesco ha benedetto i palli, presi dalla confessione dell’apostolo Pietro e destinati agli arcivescovi metropoliti nominati nell’anno, alla presenta di una delegazione del Patriarcato di Costantinopoli:

“E voglio dare, con fraterno affetto, il mio saluto alla Delegazione del Patriarcato Ecumenico: grazie di essere venuti a manifestare il comune desiderio della piena comunione tra le nostre Chiese. Invio un sentito saluto cordiale al mio fratello, al mio caro fratello Bartolomeo”.

All’inizio dell’omelia papa Francesco ha invitato a guardare ai patroni di Roma: “Guardiamo ai due Apostoli Pietro e Paolo: il pescatore di Galilea che Gesù fece pescatore di uomini; il fariseo persecutore della Chiesa trasformato dalla Grazia in evangelizzatore delle genti. Alla luce della Parola di Dio lasciamoci ispirare dalla loro storia, dallo zelo apostolico che ha segnato il cammino della loro vita. Incontrando il Signore, essi hanno vissuto una vera e propria esperienza pasquale: sono stati liberati e, davanti a loro, si sono aperte le porte di una nuova vita”.

Nell’omelia si è soffermato sul significato della Porta santa: “Guardiamo ai due Apostoli Pietro e Paolo: il pescatore di Galilea che Gesù fece pescatore di uomini; il fariseo persecutore della Chiesa trasformato dalla Grazia in evangelizzatore delle genti. Alla luce della Parola di Dio lasciamoci ispirare dalla loro storia, dallo zelo apostolico che ha segnato il cammino della loro vita. Incontrando il Signore, essi hanno vissuto una vera e propria esperienza pasquale: sono stati liberati e, davanti a loro, si sono aperte le porte di una nuova vita”.

La Porta apre al Giubileo: “Il Giubileo, infatti, sarà un tempo di grazia nel quale apriremo la Porta Santa, perché tutti possano varcare la soglia di quel santuario vivente che è Gesù e, in Lui, vivere l’esperienza dell’amore di Dio che rinvigorisce la speranza e rinnova la gioia. Ed anche nella storia di Pietro e di Paolo ci sono delle porte che si aprono”.

Quindi la Porta apre alla Grazia: “Fratelli e sorelle, i due Apostoli Pietro e Paolo hanno fatto questa esperienza di grazia. Hanno toccato con mano l’opera di Dio, che ha aperto le porte del loro carcere interiore e anche delle prigioni reali dove sono stati rinchiusi a causa del Vangelo. E, inoltre, ha aperto davanti a loro le porte dell’evangelizzazione, perché sperimentassero la gioia dell’incontro con i fratelli e le sorelle delle comunità nascenti e potessero portare a tutti la speranza del Vangelo. Ed anche noi quest’anno ci prepariamo ad aprire la Porta Santa”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco: l’Intelligenza Artificiale è il futuro della civiltà?

Questa mattina papa Francesco ha ricevuto i partecipanti alla Conferenza Internazionale promossa dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, sul tema ‘L’Intelligenza Artificiale e il paradigma tecnocratico: come promuovere il benessere dell’umanità, la cura per la natura e un mondo di pace’, richiamando il proprio discorso pronunciato al G7 nella scorsa settimana nella valorizzazione del tema intorno all’Intelligenza Artificiale:

“E’ un tema che merita particolare attenzione, perché l’IA influenza in modo dirompente l’economia e la società e può avere impatti negativi sulla qualità della vita, sulle relazioni tra persone e tra Paesi, sulla stabilità internazionale e sulla casa comune…

Apprezzo che la Centesimus Annus abbia dato ampio spazio a questa materia, coinvolgendo studiosi ed esperti di diversi Paesi e discipline, analizzando le opportunità e i rischi connessi allo sviluppo e all’utilizzo dell’IA, con un approccio trasversale e soprattutto con uno sguardo antropocentrico, e avendo ben presente il pericolo di un rafforzamento del paradigma tecnocratico”.

Ed ha richiamato alcuni temi fondamentali emersi in quell’incontro: “Come altri utensili-chiave nel corso dei millenni, anche questo attesta la capacità dell’essere umano di andare oltre sé stesso, la sua ‘ulteriorità’, e può apportare grandi trasformazioni, positive o negative. In questo secondo senso, l’IA potrebbe rafforzare il paradigma tecnocratico e la cultura dello scarto, la disparità tra le nazioni avanzate e quelle in via di sviluppo, la delega alle macchine di decisioni essenziali per la vita degli esseri umani. Ho dunque affermato l’assoluta necessità di uno sviluppo e di un utilizzo etico dell’IA, invitando la politica ad adottare azioni concrete per governare il processo tecnologico in corso nella direzione della fraternità universale e della pace”.

Ma la domanda fondamentale è quella che aiuta a comprendere a cosa serve l’Intelligenza Artificiale: “Serve a soddisfare i bisogni dell’umanità, a migliorare il benessere e lo sviluppo integrale delle persone, oppure serve ad arricchire e aumentare il già elevato potere dei pochi giganti tecnologici nonostante i pericoli per l’umanità? E questa è la domanda di base. La risposta dipende da tanti fattori e diversi sono gli aspetti da esplorare”.

E’ ha proposto alcune sollecitazioni, che possono essere utili ad ulteriori approfondimenti: “Va approfondito il delicato e strategico tema della responsabilità delle decisioni prese utilizzando l’IA; questo aspetto interpella vari rami della filosofia e del diritto, oltre a discipline più specifiche. Vanno individuati gli opportuni incentivi e una efficace regolamentazione, da un lato per stimolare l’innovazione etica utile al progresso dell’umanità, dall’altro per vietare o limitare gli effetti indesiderati.

Tutto il mondo dell’educazione, della formazione e della comunicazione dovrebbe avviare un processo coordinato, per accrescere la conoscenza e la consapevolezza di come usare correttamente l’IA e per trasmettere alle nuove generazioni, sin dall’infanzia, la capacità critica nei confronti di tale strumento.

Vanno valutati gli effetti dell’IA sul mondo del lavoro. Invito i membri della Fondazione ‘Centesimus Annus’ e quanti partecipano alle sue iniziative a farsi parte attiva, nei rispettivi ambiti, per sollecitare un processo di riqualificazione professionale e l’adozione di forme atte a facilitare il ricollocamento delle persone in esubero presso altre attività.

Vanno esaminati attentamente gli effetti positivi e negativi dell’IA nel campo della sicurezza e della riservatezza. Vanno considerati e approfonditi gli effetti sulla capacità relazionale e cognitiva delle persone, e sui loro comportamenti. Non possiamo accettare che queste capacità vengano ridotte o condizionate da uno strumento tecnologico, cioè da chi ne detiene il possesso e l’uso. Infine (ma questo elenco non vuol essere esaustivo) occorre ricordare gli enormi consumi di energia richiesti per sviluppare l’IA, mentre l’umanità sta affrontando una delicata transizione energetica”.

Quindi per il papa il futuro dell’economia si ‘gioca’ sull’innovazione tecnologica: “Non dobbiamo perdere l’occasione di pensare e agire in un modo nuovo, con la mente, con il cuore e con le mani, per indirizzare l’innovazione verso una configurazione centrata sul primato della dignità umana. Questo non va discusso. Un’innovazione che favorisca sviluppo, benessere e convivenza pacifica e che protegga i più svantaggiati. E ciò richiede un ambiente normativo, economico e finanziario che limiti il potere monopolistico di pochi e consenta allo sviluppo di andare a beneficio di tutta l’umanità”.

Quella del papa, perciò, è una ‘sana’ provocazione’: “Mi congratulo per l’avvio della seconda ricerca comune tra la Fondazione e l’Alleanza Strategica di Università Cattoliche di Ricerca (SACRU) sul tema ‘Intelligenza Artificiale e cura della casa comune: un focus su imprese, finanza e comunicazione’, coordinata dalla signora Tarantola. Per favore, tenetemi al corrente di questo!

E concludo con una provocazione: siamo sicuri di voler continuare a chiamare ‘intelligenza’ ciò che intelligenza non è? E’ una provocazione. Pensiamoci, e chiediamoci se l’usare impropriamente questa parola così importante, così umana, non è già un cedimento al potere tecnocratico”.

(Foto:Santa Sede)

Percorso a tappe sul libro ‘L’arte di rovinare i matrimoni’. Parte 2: servire

Ho scritto un romanzo sulle tentazioni nel matrimonio (“L’arte di rovinare i matrimoni. La missione di un giovane apprendista diavolo”, Mimep Docete, 2023) con l’idea di aiutare le coppie a comprendere la loro missione nel mondo: amarsi tra loro come Cristo ama e mettere le proprie energie a servizio del prossimo.

La prima vocazione di ogni donna e di ogni uomo è amare. Non è avere, possedere, accumulare, fare viaggi, divertirsi, accumulare, essere apprezzati. La cosa che più ci rende felici (e chi lo ha sperimentato lo sa!) è donarsi, portare frutto, cambiare in meglio la vita altrui.

Dare la vita non significa gettarla via, svenderla, ma mettere a disposizione tempo ed energie in qualcosa che edifichi l’altro e al contempo se stessi. Chi sa quanto vale ogni singola persona, ogni singola storia, ogni giornata che si ha a disposizione, sa che solo l’amore appaga davvero, riempie, resuscita.

Spesso siamo tentati di credere che, quando ci si innamora, ci si fidanza, ci si sposa sia sufficiente rivolgersi alla coppia per appagare il proprio desiderio di amore (Della serie, “Due cuori, una capanna”).

Quante relazioni chiuse in sé stesse, quante coppie incapaci di aprirsi, insieme, agi altri. Relazioni tossiche, che creano dipendenza, ma che del vero dono di sé non hanno nulla. E quante, invece, trovano la pienezza mettendo insieme risorse e capacità per trasformare in meglio un pezzetto di mondo loro affidato.

Il matrimonio cristiano è un ministero e l’amore che gli sposi sperimentano è fecondo (o è fecondo o è tossico: non esistono mezze misure!), nel senso che genera vita all’interno del matrimonio, con i figli (se arrivano o vengono adottati) ma anche all’esterno, nella comunità dove la famiglia vive.  

Se una famiglia si apre, sperimenta l’accoglienza, la fraternità, la solidarietà è molto più robusta. Se un coniuge è propenso, come persona, a donare la sua vita nel mondo è molto più probabile che sia capace di donare la vita all’interno del matrimonio.

Luca e Chiara, protagonisti del libro “L’arte di rovinare i matrimoni. La missione di un giovane apprendista diavolo” (Mimep Docete, 2023) si sono conosciuti facendo volontariato insieme e hanno vissuto un’esperienza di servizio arricchente per loro e per altri in Africa.

Questi due sposi non si sono innamorati solo di “come l’altro era con loro”, ma ancor prima di “come l’altro agiva nel mondo”. Questo amore, concreto, solido, riconosciuto nella persona di Cristo è stato il pilastro, l’anello di congiunzione, il principio e la meta anche della loro vita a due.

Come vedremo, non è sufficiente mettere alla base di un rapporto l’apertura verso il mondo, nel loro caso la missione evangelica, perché anche le coppie salde e radicate possono essere tentate e cadere, quando sopraggiunge la fatica e la crisi.

Però, alla base dell’amore sponsale, in una coppia cristiana, non può mancare la tensione al servizio. È Gesù che lo dice, risultando non particolarmente politicamente corretto: “Chi vuol essere il più grande, sia servo di tutti”.

Luca e Chiara, proprio nel momento della prova, della fatica, della tentazione più grande scopriranno che le relazioni seminate e coltivate nel tempo sono il mezzo con cui Dio ci dona la sua salvezza quando siamo noi a cadere.

Nel momento in cui rischiano di perdere sé stessi, sono gli altri, coloro a cui hanno donato tanto, ad aiutarli a ritrovarsi, come singole persone e come coppia. Ama e troverai amore. Questo è il messaggio del libro, ma continueremo a parlarne nei prossimi articoli…

Autonomia differenziata: anche i vescovi calabresi nutrono preoccupazione

“Noi Vescovi Calabresi, dopo aver approfondito, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa e dei precedenti pronunciamenti della Conferenza Episcopale Italiana, il disegno di legge sull’autonomia differenziata, ci sentiamo in dovere di offrire alcuni spunti di riflessione sull’importanza della solidarietà e della sussidiarietà nazionali. I temi riguardanti lo sviluppo e le disuguaglianze territoriali hanno sollecitato l’attenzione della Chiesa in Italia anche in passato, già a partire dall’immediato secondo Dopoguerra”:

con un documento, ‘La disunità nazionale e le preoccupazioni delle Chiese di Calabria: Spunti di riflessione’, la Conferenza episcopale calabrese, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, ha richiamato le regioni alla sussidiarietà con l’invito alle comunità ecclesiali a non restare indifferenti, ribadendo con argomentazioni puntuali la contrarietà al disegno di legge sull’autonomia ‘differenziata’ che dopo l’ok del Senato è passato alla discussione della Camera dei deputati.

Richiamando tre documenti, prodotti dal dopoguerra in poi, i vescovi calabresi hanno sottolineato gli elementi comuni ed attuali dei testi: “In tutti e tre i testi, ad esempio, traspare la convinzione che il Vangelo spinga continuamente a misurarsi con la vita concreta delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate.

Si afferma perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il Paese. Un altro elemento ricorrente è la denuncia del mancato sviluppo del Sud e dei mali che colpiscono le Regioni meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata”.

I documenti, che spaziano dal 1948 al 2009, hanno sempre proposto uno sviluppo, che non sia solo economico, per la Calabria: “Nei tre testi si propone un’idea di sviluppo che non consideri solo gli indicatori economici, ma che metta al centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. A questo riguardo, anticipando alcuni temi che ritroviamo oggi nel magistero di papa Francesco, il documento del 1989 evidenzia la necessità di ripensare il modello economico, in particolare il mercato, e il modello antropologico di fondo, allontanandosi dall’individualismo, dal soggettivismo e dalla ricerca del godimento immediato”.

Per questo è necessario affiancare anche uno ‘sviluppo’ educativo: “Nei tre testi si evidenzia anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano richieda, come essenziale presupposto, un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i livelli. Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del Vangelo, in una condizione di povertà e di non-potere”.

Per tale motivo i vescovi calabresi scrivono che è in atto una possibile ‘secessione dei ricchi’: “Il disegno di legge oggetto di valutazione ha un presupposto che, già in partenza, rivela una criticità di fondo. Le Regioni che oggi chiedono l’autonomia rispetto a settori importanti delle politiche pubbliche, si aspettano che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato nelle stesse Regioni che lo producono.

In questo modo, quelle più sviluppate economicamente si ritroverebbero a poter gestire più risorse di quelle che lo Stato attualmente impiega nei rispettivi territori, con riferimento alle stesse materie. Questo è il motivo per cui il progetto di autonomia differenziata è stato efficacemente definito dall’economista Gianfranco Viesti come la ‘secessione dei ricchi’. Non è un caso che l’iniziativa sia stata presa dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna, a partire dal 2017”.

Ed hanno elencato alcune perplessità riguardanti il disegno di legge: “La realizzazione di questo progetto potrebbe avere esiti disastrosi sul piano della coesione sociale. Le disuguaglianze nel nostro Paese hanno una natura anche territoriale. Esse si determinano principalmente lungo l’asse Nord-Sud, dando luogo al fenomeno del divario civile, per cui il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi. Pensiamo alla sanità, ma anche all’istruzione, ai servizi sociali, alla questione ambientale, ai trasporti. Non si tratta solo di questioni economiche, ma dell’accesso ai diritti di cittadinanza”.

Ed i diritti devono essere garantiti ugualmente per tutti: “In uno Stato unitario essi vanno assicurati a tutti a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. Senza questi diritti si indebolisce il senso di appartenenza a un’unica comunità nazionale. Il progetto di autonomia differenziata rende, perciò, ancora più opache le prospettive del Paese perché proprio negli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico le Regioni vogliono fare da sole, chiedendo più poteri e risorse”.

Nelle conclusioni del documento i vescovi calabresi sottolineano il rischio, che comporta l’autonomia differenziata: “La ‘secessione dei ricchi’ non è solo in contraddizione con lo spirito della nostra Costituzione, in particolare con il principio di uguaglianza sostanziale espresso nell’articolo 3, ma è anche in contrasto con il sentimento di appartenenza a un’unica comunità, e con le prospettive di uno sviluppo autenticamente umano del Paese. Il progetto, se realizzato, darà forma istituzionale agli egoismi territoriali della parte più ricca del Paese, amplificando e cristallizzando i divari territoriali già esistenti, con gravissimo danno per le persone più vulnerabili e indifese”.

Quindi i vescovi calabresi non condividono tale orientamento del governo, ma ne prospettano un altro in grado di aiutare i territori ‘più deboli’: “Come Vescovi Calabresi affermiamo che questa prospettiva non può essere condivisa. La strada da percorrere è invece quella che passa dal riconoscimento delle differenze e dalla valorizzazione di ogni realtà particolare, soprattutto delle aree più periferiche e/o interne.

I contesti che non ce la fanno vanno accompagnati, riconoscendo nella solidarietà tra territori un valore costituzionale da difendere e un impegno pastorale che il popolo di Dio che è in Italia va incoraggiato a perseguire perché progredisca nella sua ricerca di fedeltà al Vangelo.

Nella prospettiva di uno sviluppo umano autentico, le difficoltà dei territori con infrastrutture più deboli, con rendimento istituzionale insufficiente, non vanno interpretate come un freno per chi è più veloce, ma come un problema comune, da cui venire fuori insieme”.

Il documento dei vescovi calabresi è un invito alle comunità ecclesiali a non restare indifferenti con l’invito a creare occasioni di approfondimento e discussione: “Per questo non possiamo restare indifferenti. Bisogna trovare vie perché si maturi la consapevolezza che il Paese avrà un futuro solo se tutti insieme sapremo tessere e ritessere intenzionalmente legami di solidarietà, a tutti i livelli.

A questo riguardo, si propone che in tutte le comunità diocesane e in tutti i territori si organizzino occasioni di approfondimento e di pubblica discussione su questo tema e si promuovano adeguate forme di mobilitazione democratica, legando solidarietà e giustizia”.

(Foto: Conferenza episcopale calabrese)

Papa Francesco invita ad avere compassione per chi soffre

Oggi papa Francesco ha ricevuto in udienza i membri della fondazione ‘Sant’Angela Merici’ di Siracusa, in occasione dei 50 anni di fondazione, che continua l’impegno di mons. Gozzo a servizio delle persone più fragili: “La vostra storia, e tutto ciò che nei diversi Centri operativi portate avanti con tanta generosità, si radica in quell’evento che ha segnato la città di Siracusa quando, nel 1953, un quadretto raffigurante la Madonna iniziò a lacrimare nella casa dei coniugi Iannuso”.

Ed ha ricordato la storia di tale miracolo: “Sono le lacrime di Maria, la nostra Madre celeste, per le sofferenze e le pene dei suoi figli. Maria piange per i suoi figli che soffrono. Sono lacrime che ci parlano della compassione di Dio per tutti noi. Dobbiamo pensare a questo: la compassione di Dio. Egli, infatti, ha donato a tutti noi la sua Madre, che piange le nostre stesse lacrime per non farci sentire soli nei momenti difficili. Allo stesso tempo, attraverso le lacrime della Vergine Santa, il Signore vuole sciogliere i nostri cuori che a volte si sono inariditi nell’indifferenza e induriti nell’egoismo; vuole rendere sensibile la nostra coscienza, perché ci lasciamo toccare dal dolore dei fratelli e ci muoviamo a compassione per loro, impegnandoci a sollevarli, rialzarli, accompagnarli”.

Questa è la ‘ricchezza’ che deriva dal Vangelo: “Questa è la ricchezza della vostra storia, queste sono le radici che non dovete smarrire e, soprattutto, questo è il significato della vostra opera. La Fondazione, infatti, portando avanti un lavoro quotidiano dove si mescolano professionalità e spirito di sacrificio, esiste per esprimere in gesti concreti le lacrime versate dalla Vergine Maria e nello stesso tempo il suo desiderio materno di asciugare il pianto dei suoi figli”.

E’ stato un invito ad ‘asciugare’ le lacrime di chi soffre: “E voi, fratelli e sorelle, cercate di fare proprio questo: asciugare le lacrime di chi soffre, accompagnare chi è nel dolore, affiancare i più deboli della società, prendersi cura dei più vulnerabili, accogliere e ospitare chi vive particolari situazioni di fragilità. Fratelli e sorelle, il servizio che rendete è prezioso, e vorrei dirvi questo: la fonte della vostra opera è il Vangelo, rimanete attaccati a questa fonte!”

Inoltre ha indicato il Vangelo come fonte di compassione: “Allo stesso tempo, voi siete testimonianza viva di questo Vangelo, della compassione di Gesù, quando vi adoperate per accompagnare chi è nel dolore, proprio come il Signore ha comandato ai suoi discepoli di fare dinanzi alle folle affamate, sfinite e oppresse. Gesù infatti ci chiede di non separare mai l’amore per Dio da quello per il prossimo, in particolare per i più poveri”.

Questo è un incoraggiamento a proseguire il cammino con un invito alla commozione: “E chiedo per voi una grazia, che è la più importante di tutte: la grazia di sapersi commuovere, la capacità di piangere con chi piange. L’indifferenza, l’individualismo che ci chiude alle sorti di chi ci sta accanto, e quella anestesia del cuore che non ci fa più commuovere davanti ai drammi della vita quotidiana, queste tre cose sono i mali peggiori della nostra società. Per favore, non vergognatevi di piangere, di provare commozione per chi soffre; non risparmiatevi nell’esercitare compassione con chi è fragile, perché in queste persone è presente Gesù”.

Infine un invito a rendere grazie per questo gesto di volontariato, che fa germogliare la vita: “Andate avanti! E non scoraggiatevi, anzi, ringraziate se il vostro lavoro rimane nascosto ed esige un sacrificio silenzioso e quotidiano: il bene fatto a chi non può ricambiare si espande in modo sorprendente e inatteso, come un piccolo seme nascosto nel terreno che prima o poi fa germogliare una vita nuova”.

In seguito ha incontrato i volontari della Croce Rossa in occasione del 160^ anniversario della fondazione: “Il vostro impegno, ispirato ai principi di umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontariato, unità e universalità, è anche segno visibile che la fraternità è possibile. Se si mette al centro la persona, si può dialogare, lavorare insieme per il bene comune, andando oltre le divisioni, abbattendo i muri dell’inimicizia, superando le logiche dell’interesse e del potere che accecano e rendono l’altro un nemico. Per il credente ogni persona è sacra”.

E’ stato un ringraziamento per la difesa dei soggetti vulnerabili: “Ogni creatura umana è amata da Dio e, per questo, portatrice di diritti inalienabili. Animate da questa convinzione, tante persone di buona volontà si incontrano, riconoscendo il valore supremo della vita e, quindi, la necessità di difendere soprattutto i più vulnerabili. Su questa realtà dei più vulnerabili vorrei dirvi una cosa: sono i bambini. Qui in Italia sono arrivati tanti bambini a causa della guerra in Ucraina. Sapete una cosa? Che questi bambini non sorridono, hanno dimenticato la capacità di sorridere. E’ brutto questo per un bambino”.

Inoltre ha ricordato l’importanza del loro slogan: “Nel ringraziarvi per il vostro servizio insostituibile nelle aree di conflitto e nelle zone colpite da disastri ambientali, nell’ambito della formazione e della salute, così come per quello che fate a favore dei migranti, degli ultimi e dei più vulnerabili, voglio incoraggiarvi a proseguire in questa grande opera di carità che abbraccia l’Italia e il mondo.

Possa la Croce Rossa restare sempre simbolo eloquente di un amore per i fratelli che non ha confini, né geografici, né culturali, sociali, economici o religiosi. Non a caso, lo slogan che avete scelto per celebrare il 160° anniversario è ‘Ovunque per chiunque’. E’ una cosa universale. Si tratta di un’espressione che, mentre racconta un impegno, descrive anche uno stile, un modo di essere e di esserci”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco: Dio non si stanca mai a perdonare

Nel pomeriggio il reparto femminile della Casa Circondariale di Rebibbia ha accolto papa Francesco per la Messa in Coena Domini, che ha salutato le donne presenti, lavando i piedi a 12 detenute. Nella cerimonia sobria ha spiegato i due episodi essenziali del Vangelo:

“La lavanda dei piedi di Gesù: Gesù si umilia, e con questo gesto ci fa capire quello che aveva detto: ‘Io non sono venuto per essere servito, ma per servire’. Ci insegna il cammino del servizio.

L’altro episodio, triste, è il tradimento di Giuda che non è capace di portare avanti l’amore, e poi i soldi, l’egoismo lo portano a questa cosa brutta. Ma Gesù perdona tutto. Gesù perdona sempre. Soltanto chiede che noi chiediamo il perdono”.

Nella breve omelia ha raccontato un episodio avvenuto a Buenos Aires: “Una volta, ho sentito una vecchietta, saggia, una vecchietta nonna, del popolo … Ha detto così: ‘Gesù non si stanca mai di perdonare: siamo noi a stancarci di chiedere perdono’. Chiediamo oggi al Signore la grazia di non stancarci”.

Però Dio non si stanca di attendere: “Sempre, tutti noi abbiamo piccoli fallimenti, grandi fallimenti: ognuno ha la propria storia. Ma il Signore ci aspetta sempre, con le braccia aperte, e non si stanca mai di perdonare. Adesso faremo lo stesso gesto che ha fatto Gesù: lavare i piedi. E’ un gesto che attira l’attenzione sulla vocazione del servizio. Chiediamo al Signore che ci faccia crescere, tutti noi, nella vocazione del servizio”.

Questa non è la prima volta che papa Francesco celebra in un carcere: la prima Lavanda dei piedi papa Francesco la celebrò il 28 marzo 2013 nell’Istituto penale per minori di Casal del Marmo, dove è tornato per il Giovedì Santo del 2023, il 6 aprile. Nel 2015 papa Francesco era già stato a Rebibbia, nel Nuovo Complesso.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco: la RAI è un servizio pubblico

Questa mattina papa Francesco ha ricevuto in udienza i dirigenti ed il personale della RAI-Radiotelevisione Italiana nell’Aula Paolo VI, consegnando due parole su cui riflettere: servizio e pubblico, per cui 70 anni fa nacque:

“Settant’anni di televisione, cento di radio: un doppio compleanno, che da un lato vi invita a guardare indietro, alla vostra storia, tanto intrecciata con quella italiana; e dall’altro vi sfida a guardare avanti, al futuro, al ruolo che avrete in un tempo tutto da costruire, dove ogni vita è sempre più connessa con le altre, a livello globale. Inoltre, siamo in Vaticano, e molti di voi conoscono bene questi luoghi, perché la RAI fin dalla sua nascita ha sempre seguito da vicino i passi dei Successori di Pietro”.

Queste due parole costituiscono la missione del servizio pubblico: “Essa, però, in tutti questi anni, non è stata solo testimone dei processi di cambiamento della nostra società: in parte, li ha anche costruiti, e da protagonista. I media, infatti, influiscono sulle nostre identità, nel bene e nel male. E qui è il senso del servizio pubblico che svolgete. Perciò vorrei riflettere con voi proprio su queste due parole (servizio e pubblico), perché esse descrivono molto bene il fondamento della vostra missione: la comunicazione come dono alla comunità”.

Per il papa il servizio non è solamente una parola strumentale: “E’ una parola che spesso riduciamo al suo significato strumentale, finendo per confondere il servire con il servirsi, la dedizione con l’uso. Il vostro lavoro, invece, vuole essere soprattutto una risposta ai bisogni dei cittadini, in spirito di apertura universale, con un’azione capace di articolarsi sul territorio senza diventare localista, nel rispetto e nella promozione della dignità di ogni persona. Un contributo alla verità e al bene comune che assume risvolti precisi nell’informazione, nell’intrattenimento, nella cultura e nella tecnologia”.

Il servizio è la promozione della verità: “Nel campo dell’informazione, servire significa essenzialmente cercare e promuovere la verità, tutta la verità, ad esempio contrastando il diffondersi delle fake news e il subdolo disegno di chi cerca di influenzare l’opinione pubblica in modo ideologico, mentendo e disgregando il tessuto sociale. La verità è una, è armonica, non si può dividere con gli interessi personali”.

Per  questo papa Francesco ha sottolineato che la verità è sinfonica: “Significa evitare ogni riduzione ingannevole, ricordando che la verità è ‘sinfonica’ e che la si coglie meglio imparando ad ascoltare la varietà delle voci, come in un coro, piuttosto che gridando sempre e soltanto la propria idea. Ho voluto sottolineare questo”.

Verità è dare un’informazione non inquinata: “Significa, ancora, servire il diritto dei cittadini a una corretta informazione, trasmessa senza pregiudizi, non traendo conclusioni affrettate ma prendendo il tempo necessario per capire e per riflettere e combattendo l’inquinamento cognitivo,perché anche l’informazione deve essere ecologica”.

Inoltre, l’informazione deve garantire il pluralismo delle idee, come affermava san Giovanni Paolo II: “Per questo vi esorto a coltivare il dialogo, tessendo trame di unità. E per coltivare il dialogo bisogna ascoltare. Tante volte vediamo che l’ascolto serve a prepararmi per dare la risposta, ma non è vero ascolto pensare alla mia posizione senza ricevere quella degli altri”.

Richiamando il prossimo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali papa Francesco ha ribadito che il pluralismo è molto ampio: “Penso al cinema, alla fiction, alle serie tv, ai programmi culturali e di intrattenimento, al racconto dello sport, ai programmi per bambini. In proposito, nella nostra epoca ricca di tecnica ma a volte povera di umanità, è importante promuovere la ricerca della bellezza, avviare dinamiche di solidarietà, custodire la libertà, lavorare perché ogni espressione artistica aiuti tutti e ciascuno ad elevarsi, a riflettere, a emozionarsi, a sorridere e anche a piangere di commozione, per trovare nella vita un senso, una prospettiva di bene, un significato che non sia quello di arrendersi al peggio. Quanto alla tecnica e alla tecnologia, poi, sono tante le domande che ci interpellano”.

Inoltre il servizio radiotelevisivo è pubblico: “Ess(o) sottolinea prima di tutto che il vostro lavoro è connesso al bene comune di tutti e non solo di qualcuno. Ciò comporta in primo luogo l’impegno a considerare e a dar voce specialmente agli ultimi, ai più poveri, a chi non ha voce, a chi è scartato”.

Il servizio pubblico è uno strumento importante per ‘sognare’: “Implica inoltre la vocazione ad essere strumento di crescita nella conoscenza, a far riflettere e non ad alienare, ad aprire nuovi sguardi sulla realtà e non ad alimentare bolle di indifferenza autosufficiente, a educare i giovani a sognare in grande, con la mente e gli occhi aperti. Questa parola può spaventarci: sognare. Non perdere mai le capacità di sognare, ma sognare alla grande!”

Un servizio pubblico non ha bisogno di confrontarsi con gli indici di ascolto: “Non bisogna inseguire gli ascolti a scapito dei contenuti: si tratta piuttosto di costruire, attraverso la vostra offerta, una domanda diffusa di qualità. Del resto la comunicazione, proprio in quanto dialogo per il bene di tutti, può svolgere nel nostro tempo un ruolo fondamentale anche nel ritessere valori socialmente vitali come la cittadinanza e la partecipazione”.

E’ stato un incoraggiamento ad offrire un servizio per gli ascoltatori: “Cari fratelli e sorelle, la RAI entra ogni giorno in tante case italiane, praticamente in tutte, ed è bello pensare alla sua presenza non come a una ‘cattedra di tuttologi’, ma a un gruppo di amici che bussano alla porta per fare una sorpresa (non dimenticare questo: la vera comunicazione è sempre una sorpresa, ti sorprende: tu aspetti una cosa e ti sorprende), per offrire compagnia, per condividere gioie e dolori, per promuovere in famiglia e nella società unità e riconciliazione, ascolto e dialogo, per informare e anche per mettersi in ascolto, con rispetto e umiltà. Vi incoraggio a camminare su questa strada, è bella!”

(Foto: Santa Sede)

L’Italia ricorda don Peppe Diana

“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere ‘segno di contraddizione’. Coscienti come chiesa che dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

Così inizia il documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana da don Peppe Diana e dai parroci della forania di Casal di Principe, per spingere a prendere coscienza del problema camorristico, affermando che essa è una forma di terrorismo: “I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario;

traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”.

Era un appello ai cristiani ad essere sentinelle nel denunciare l’illegalità: “Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti… Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa; alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili”.

Don Giuseppe Diana è stato parroco di Casal di Principe (nei pressi di Aversa) che si è battuto contro la camorra, denunciando i traffici illeciti di sostanze stupefacenti, le tangenti sui lavori edili, gli scontri violenti tra le fazioni della criminalità organizzata del suo paese. Egli ha pagato con la vita la propria coraggiosa attività: è stato assassinato a soli trentacinque anni nella sacrestia della sua Chiesa, mente si accinge a celebrare la messa.

Don Giuseppe nasce il 4 luglio del 1958 a Casal di Principe, vicino ad Aversa, da una famiglia che vive lavorando la terra. Dopo aver compiuti studi teologici ed essersi laureato in filosofia, entra nell’Agesci (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) ed è consacrato sacerdote.

Si batte contro la criminalità organizzata della sua città, nel periodo in cui imperversano in Campania i casalesi, camorristi legati al boss Francesco Schiavone (detto ‘Sandokan’), infiltrati negli enti locali, nell’imprenditoria. Contro questo stato di cose, don Diana scrive una lettera, intitolata ‘Per amore del mio popolo’, diffusa nel giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese, pagando il coraggioso gesto con la vita: la mattina del 19 marzo 1994 un assassino lo raggiunge, mentre si prepara a dir messa, nella sagrestia della sua chiesa, e gli spara quattro colpi di pistola, mettendo segno una vera e propria esecuzione camorristica.

Ed a 30 anni dall’uccisione papa Francesco ha inviato una lettera al vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo, in cui ha invitato a ravvivare la ‘evangelica’ inquietudine dei cristiani: “Ancora oggi si ripete la triste vicenda narrata dalla Sacra Scrittura del primo fratricidio di Caino contro il fratello Abele… Pertanto, la commemorazione del sacrificio di don Giuseppe ci sprona a ravvivare in noi quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà”.

Il messaggio del papa è stato un incoraggiamento ai giovani per costruire una società fraterna: “Prima di concludere, mosso da sentimenti di fiducia, esorto Voi giovani, volto bello e limpido di codesta terra: non lasciatevi rubare la speranza, coltivate ideali alti e costruite un futuro diverso con mani non sporche di sangue ma di lavoro onesto, senza cedere a compromessi facili ma illusori, raccogliendo l’eredità spirituale di Don Peppe per divenire, a vostra volta, artigiani di pace”.

Anche il presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, ha invitato a non dimenticare la testimonianza di don Diana: “Ricordare Don Peppino ci aiuta a capire che non si può servire Dio e mammona. E di questo ringrazio voi che avete conservato la sua memoria. Don Peppino è una luce di speranza. Il suo sacrificio è il seme caduto a terra per la viltà di un assassino e del sistema di morte che si portava dentro e lo accecava. Il seme continua a dare frutto: l’amore per i poveri, l’attenzione ai fragili, la giustizia nei comportamenti, l’onesta che non accetta opportunismi, rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato, come ricorda la legge scout che ha amato”.

Mentre il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha sottolineato che è difficile far tacere una ‘voce scomoda’: “La testimonianza di don Diana è divenuta un simbolo potente di liberazione, una spinta al riscatto sociale. Don Giuseppe ai ragazzi insegnava che la via della libertà passa dal non piegare la testa al ricatto mafioso e che è possibile costruire un mondo migliore. Pagò con la vita il coraggio e la coerenza personale e la sua vita è diventata lezione, patrimonio per il Paese”.

San Camillo de Lellis: il santo degli infermi

San Camillo de Lellis (Bucchianico (Chieti), 25 maggio 1550 – Roma il 14 luglio 1614), ottiene da papa Sisto V di portare cucita sul suo abito religioso una croce rossa che egli ottenne di portare cucita sull’abito religioso, il 20 giugno 1586. Viene detto dai biografi che“per tre ragioni piacque al padre nostro che portassimo la Croce ne’ vestimenti, tenendola per nostra impresa e insegna.

Dom Matteo Ferrari è il nuovo Priore Generale dei camaldolesi

Martedì 14 novembre, nel capitolo generale, cioè l’assemblea periodica di tutte le comunità camaldolesi presenti nel mondo che si sta svolgendo a Camaldoli in queste settimane, dom Matteo Ferrari è stato eletto Priore di Camaldoli e Priore Generale della Congregazione Camaldolese dell’ordine di San Benedetto. Succede a dom Alessandro Barban che ha retto quella congregazione monastica per dodici anni.

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