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Missionari di sinodalità in Rwanda

Una cinquantina di delegati (vescovi, presbiteri, religiosi e religiose, laici e laiche) provenienti da tutte le diocesi del Ruanda si sono incontrati dal 2 al 6 marzo a Mbare per riflettere insieme sul tema ‘come possiamo divenire sempre più Chiesa sinodale in missione in Ruanda a partire dagli orientamenti proposti dal percorso sinodale?’

Accogliendo l’invito di papa Francesco, mons. Edouard Sinayobye, vescovo di Cyangugu e membro dell’Assemblea, ha organizzato questa “scuola di sinodalità” affinché i partecipanti potessero approfondire, a partire dal Documento finale, alcuni temi chiave emersi nel processo sinodale e sperimentare lo stile sinodale dell’ascolto e del discernimento anche attraverso ampi spazi dedicati alla Lectio Divina:

“Il processo sinodale nelle nostre diocesi è stato accolto e vissuto come un kairos, un tempo di grazia e di rinnovamento. La Chiesa di Cristo che è in Rwanda ha sete di comunione e unità, e desidera davvero camminare insieme, prendendosi cura di tutti. Insieme ai miei fratelli vescovi abbiamo convocato questa assemblea per formare veri e propri ‘missionari della sinodalità’ nelle nostre comunità cristiane, e perché questo cammino condiviso diventi uno stile di vita ecclesiale.

Questa sessione è già stata essa stessa un’autentica esperienza sinodale: un tempo di ascolto reciproco e di discernimento comunitario per comprendere, alla luce degli orientamenti del Documento finale del Sinodo, dove lo Spirito Santo sta conducendo la Chiesa in Rwanda”.

L’incontro, promosso dalla Conferenza episcopale rwandese, ha visto la partecipazione di p. Giacomo Costa, SJ, Consultore della Segreteria Generale del Sinodo, che ha facilitato i lavori e offerto alcuni interventi volti a formare i partecipanti a uno stile sinodale:

“Consapevoli che la fase dell’attuazione del Sinodo deve fondarsi su quanto è già stato vissuto, valorizzando i frutti emersi, i lavori sono iniziati ripercorrendo il cammino sinodale svolto fino a oggi. Ho potuto così apprezzare l’enorme lavoro svolto nella fase di ascolto dalle équipe sinodali diocesane del Ruanda, che si sono impegnate a coinvolgere tutti, anche le persone più lontane dalle comunità. Il loro ruolo è stato fondamentale e continuerà a esserlo anche in questa fase del cammino sinodale.

Molti hanno condiviso le numerose attese da parte dei fedeli che hanno partecipato attivamente alla fase dell’ascolto e che attendono risposte. In questo senso, nel corso dei lavori è emerso chiaramente come il cuore del processo di attuazione non si limiti semplicemente alla trasmissione dei contenuti di un documento o nel fornire soluzioni da applicare, ma piuttosto nell’entrare in un’esperienza viva, capace di far percepire la bellezza del camminare insieme e la forza trasformante dell’ascolto reciproco. Si tratta innanzitutto di renderci consapevoli che ogni battezzato è responsabile della missione della Chiesa”.

In un messaggio indirizzato ai partecipanti, il cardinale Mario Grech ha ricordato come “il Sinodo sulla sinodalità non è concluso, anzi per molti aspetti è proprio adesso che sta prendendo avvio la sua fase principale”. Il Documento finale “è stato consegnato – o, in un certo senso, restituito – a tutte le Chiese locali, proprio per poter orientare la terza fase, quella dell’implementazione o della recezione”.

Infatti, per il Segretario Generale della Segreteria Generale del Sinodo, “nessun documento e nessuna riforma, in realtà, possono essere veramente incisivi se non entrano nel vivo del cammino delle Chiese, tra loro così diverse per storia, cultura, tradizioni, potenzialità e sfide. Il cammino della recezione è così, inevitabilmente, un cammino di inculturazione, tema sul quale le Chiese d’Africa sono da sempre all’avanguardia”.

Infine, plaudendo il carattere ‘autenticamente ecclesiale’ dell’iniziativa dei vescovi ruandesi, il cardinale Grech ha ricordato come “la sinodalità, prima che dottrina, è stile, mentalità, cultura: uno stile di Chiesa in cui lo stesso ministero episcopale, pur nella sua centralità insostituibile, si comprende e si esercita ‘insieme’ agli innumerevoli ministeri e carismi che Dio elargisce alla sua Chiesa per l’evangelizzazione del mondo”.

Quella della Conferenza episcopale ruandese è una delle numerose iniziative messe in campo a vari livelli da Chiese locali o organismi ecclesiali. Alcune di queste sono presentate sul sito: synodresources.org.

(Foto: Risorse Sinodo)  

Una giornata di studio per i coordinatori e segretari dei gruppi del Sinodo

Si è svolto nei giorni scorsi l’incontro dei Coordinatori e dei Segretari dei 10 Gruppi di Studio su questioni emerse nel corso della Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Ad informare dell’incontro è un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede che aggiunge anche quanto accaduto durante la riunione. L’incontro è iniziato con un momento di preghiera in cui i partecipanti hanno ricordato il Santo Padre, pregando per la sua pronta guarigione.

Successivamente, a turno, ciascun coordinatore ha presentato i lavori del proprio gruppo soffermandosi in particolare sul metodo utilizzato e i soggetti (persone/organizzazioni) coinvolte, la tempistica prevista per la consegna del resoconto del gruppo, le difficoltà riscontrate e le domande aperte.

Dopo questo ricco tempo di condivisione, utile in particolare per quei gruppi di Studio che affrontano questioni ‘trasversali’, p. Giacomo Costa S.I., Consultore della Segreteria Generale, ha fornito alcuni elementi utili per una certa uniformità nella stesura dei resoconti e per la loro consegna.

I coordinatori dei gruppi sono stati informati della disponibilità della Commissione Canonica di accompagnare i loro rispettivi lavori, in particolare per quelle questioni che dovessero toccare anche la dimensione canonica.

Il Cardinale Mario Grech ha ricordato ai partecipanti la necessità di tener conto di quei contributi esterni che possono ancora giungere tramite email (synodus@synod.va), entro e non oltre il 31 marzo 2025, alla Segreteria Generale, così come aveva annunciato in apertura della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Come finora fatto, i nuovi contributi saranno inoltrati tempestivamente ai segretari dei gruppi interessati.

Quinta domenica del Tempo Ordinario: la Parola di Dio ci parla di chiamata, di vocazione!

Il brano del vangelo ci porta sul mare di Cafarnao, dove Gesù ammaestra la folla, seduto sulla barca di Pietro ed addita la via della salvezza. La nostra vita è bella, armoniosa se si vive conforme alla vocazione di ciascuno. Vivere la vita significa attuare quel progetto mirabile che Dio ha avuto al momento della nostra creazione conferendo a ciascuno talenti e carismi diversi per il bene del singolo e della società.

Dalla grazia siamo stati elevati a figli di Dio; come tali il nostro ruolo è sociale ed ecclesiale, oltre che individuale; in tale chiave  risponderemo a Dio e alla propria coscienza. Il brano del Vangelo, riguardante la pesca miracolosa, è significativo: Gesù sale sulla barca di Pietro per parlare alla gente che si accalca e, terminato il discorso, invita Pietro a gettare le reti per la pesca. Questi si sbigottisce ed osserva: Signore, abbiamo lavorato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; Pietro, uomo di fede, obbedisce a Gesù, butta le reti per la pesca  ed ecco una quantità enorme di pescato.

Davanti   ad un fatto così eclatante, Pietro esclama: ‘Signore, allontanati da me, sono un uomo peccatore’; Gesù lo incoraggia: Pietro, non temere; d’oggi innanzi sarai pescatore di uomini. Pietro lascia tutto: la barca, le reti, il padre e segue Gesù: diverrà l’apostolo prediletto, il capo della Chiesa nascente; a lui Gesù dirà: ‘Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa’.

Il miracolo più eclatante non è stata la pesca miracolosa quanto la risposta generosa di Pietro: quando Dio chiama, bisogna sempre rispondere con generosità e tempestività. Così fecero Pietro e gli Apostoli; così fece Paolo quando da persecutore della fede cristiana, folgorato dalla grazia divina, divenne l’apostolo prediletto, di cui disse Gesù: ‘ne farò un vaso di elezione’.

Pietro è l’immagine del vero credente e diventa destinatario di una missione sublime: vicario di Cristo Gesù in una Chiesa che, come una barca posta in un mare tempestoso non affonderà mai: ‘Le porte degli inferi non prevarranno’. Nella Chiesa, come nella società civile, tutti insieme costituiamo una famiglia; dotati da talenti diversi per numero e qualità, siamo chiamati ad un ruolo di solidarietà e complementarietà; l’uno completa l’altro come le cellule dello stesso corpo o gli organi dello stesso organismo: tutti diversi ma con un compito di vera partecipazione.

Spesso si parla di crisi nella Chiesa, ma è solo crisi di crescenza, che deve servire solo a rinnovare la Chiesa di Cristo Gesù. Il sinodo popolare indetto da Papa Francesco mira a far prendere coscienza che comandare è servire, una Chiesa dove tutti: clero e popolo di Dio, pastori e fedeli sono chiamati ad un ruolo di servizio, ciascuno a seconda dei carismi ricevuti dallo Spirito che nel Battesimo ci ha innestati a Cristo. Nella Chiesa non ci sono ‘padroni’ ma ‘collaboratori’, tutti fratelli, tutte pecorelle dell’ovile di Cristo, tutti in comunione con tutti: gerarchia che deve essere diaconia.

Diceva Gesù: ‘Mi chiamate Signore e maestro ed io vi ha lavati i piedi, così è necessario tra di voi che l’uno lavi i piedi all’altro’. Il sinodo popolare, voluto da papa Francesco, mira a sentire quello che lo Spirito Santo oggi ispira, suggerisce alla Chiesa di Dio; questo ‘camminare insieme’ deve attuare e manifestare la natura vera della Chiesa come popolo di Dio, pellegrino e missionario. E’ necessario allora avventurarsi nel profondo del nostro io, dove parla lo Spirito Santo. Amico, che leggi o ascolti, è necessario oggi più che mai agire: sognare, cantare, aprire le braccia, espandere il cuore, allargare lo sguardo. La pesca è già iniziata, c’è posto anche per te.

Papa Francesco invita i vescovi a raccontare la speranza

Papa Francesco

Nei giorni scorsi papa Francesco ha inviato due messaggi ai vescovi latino americani, che hanno partecipato alla VI Conferenza internazionale ‘Per l’equilibrio nel mondo’, ed ai vescovi indiani in occasione dell’apertura della 36^ Assemblea plenaria della Conferenza dei vescovi cattolici, che si confrontano sul tema sinodale, ‘Aiutare le chiese locali a implementare i frutti del cammino sinodale’; infatti ai vescovi cubani ha sottolineato ancora una volta il valore del Giubileo, come anno di grazia:

“Come molti di voi probabilmente sapranno, il 2025 è un Anno Giubilare, un anno di grazia secondo l’antica tradizione del popolo d’Israele, che era presentato come un’opportunità per ristabilire la pace e la fratellanza sociale, attraverso il perdono e la riconciliazione. In modo significativo ho voluto dedicare questo Giubileo al tema della speranza, come appello a tutti gli uomini di buona volontà…

In questo modo, la speranza si rivela un valore molto appropriato per questo forum che si tiene all’Avana, perché, grazie alla sua aspirazione ad essere aperto, plurale e multidisciplinare, ha la capacità di indagare le ragioni che muovono il cuore dell’uomo”.

Nel messaggio il papa riafferma che la speranza cristiana si fonda sull’amore, come ha scritto nella Bolla giubilare: “La nostra ‘speranza nasce dall’amore ed è fondata sull’amore’. Un amore che ci chiama a costruire, sulle rovine che lasciamo in questo mondo con il nostro peccato, una nuova civiltà dell’amore, perché in mezzo al disastro che il male ha lasciato, tutti collaboriamo alla ricostruzione del bene e della bellezza”.

Quindi il richiamo alla speranza, che è una certezza nella costruzione della pace: “Questa certezza ci spinga a lavorare con determinazione affinché questa speranza ‘si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si ritrova sommerso nel dramma della guerra’, abbandonando la logica della violenza e assumendo una l’impegno al dialogo e l’opera della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di negoziazione volti a una pace duratura. Uno sforzo che non avrà successo se non riuscirà a far sì che ogni uomo, impedito ad aprirsi alla vita con entusiasmo, ‘a causa dei ritmi frenetici dell’esistenza, dei timori per il futuro, della mancanza di sicurezza lavorativa e di adeguate protezioni sociali, di modelli sociali la cui agenda è dettata dalla ricerca del profitto piuttosto che dalla cura delle relazioni’, può guardare al futuro con speranza”.

E’ una sfida ad intraprendere percorsi capaci di restituire fiducia, insieme alle istituzioni ed alla società civile: “Come credenti in Gesù Cristo, questa sfida ci invita a riconoscere in ogni uomo e in ogni donna l’immagine di Dio, chiamati ad essere fratelli e sorelle e a far parte della famiglia umana e della famiglia dei figli di Dio. Anche fuori dall’ambito della fede, questa affermazione mantiene intatta la sua forza, perché tutti siamo chiamati a vivere nella gratuità fraterna e tutto ciò che facciamo per gli altri ci riguarda come singoli e come società”.

In questo modo la speranza può essere condivisa: “Impariamo questa lezione dall’amore, costruendo la speranza in quell’equilibrio che cerca di garantire a tutti ciò di cui hanno bisogno, insegnandoci a condividere con i poveri e ad aprirci con generosa accoglienza agli altri, così da sapere contribuire con ciò che siamo e abbiamo per il bene comune. Che questi auspici vi aiutino nel lavoro che intraprendete per promuovere una società più giusta e fraterna”.

Anche nel messaggio ai vescovi indiani papa Francesco ha riflettuto sul Giubileo e le sfide della vita cristiana nel Paese: “Prego affinché le vostre decisioni possano aiutare le Chiese locali a discernere come meglio implementare i frutti del cammino sinodale e ispirare molti altri fedeli nella loro vocazione a essere discepoli missionari”. La Chiesa in India “continuerà a essere un segno di speranza per l’intera nazione, cercando sempre di spalancare le sue porte per accogliere i poveri e i più vulnerabili, affinché tutti possano avere la speranza di un futuro migliore”.

Mons. Enrique Angelelli ricordato a Montegiorgio, paese di suo padre

Nelle scorse settimane il vescovo argentino della diocesi di La Rioja, mons. Dante Braida, accogliendo la richiesta di una reliquia da intronizzare nella parrocchia della città, si è recato a Montegiorgio, in provincia di Fermo, città di 7000 abitanti, che diede i natali al padre, mentre la madre era originaria di Cingoli: Enrique, insieme ai fratelli Juanito ed Elena nati tutti in Argentina, sono figli di Giovanni Angelelli originario di Montegiorgio che è partito dall’Italia a soli 15 anni per cercare fortuna in Argentina; proprio lì conobbe Celina Carletti, originaria di Cingoli con cui si sposò. Mons. Angelelli fu trucidato dalla dittatura militare il 4 agosto 1976 ed il 27 aprile 2019 papa Francesco lo ha dichiarato beato. 

Mons. Dante Braida ha sottolineato in quale modo è avvenuto l’invito: “Sono stato invitato dal parroco della Chiesa fermana, don Pierluigi Ciccarè, tramite don Mario Moriconi, sacerdote italiano che ha prestato servizio in Argentina dal 1973 al 1984, nella diocesi di Morón. In questa visita mi accompagna mons. Marcos Pirán, vescovo ausiliare di Holguín a Cuba, originario dell’Argentina (diocesi di San Isidro)”.

All’incontro ha partecipato anche il vescovo di Fermo, mons. Rocco Pennacchio,sottolineando che la testimonianza di mons. Angelelli è un messaggio attuale per la Chiesa. Durante l’omelia della celebrazione eucaristia mons. Dante Braida ha ringraziato la comunità montegiorgese per l’invito: “Ringrazio Dio per questa opportunità di testimoniare non solo la vita del beato martire Enrique Angelelli e dei suoi compagni, ma anche la sua eredità che oggi alimenta la nostra vita e le nostre azioni pastorali”.

Ed ha raccontato l’azione pastorale del beato argentino: “Nella sua azione pastorale, mons. Angelelli confidava in quella presenza di Dio che abita in tutti gli uomini; per questo invitava tutti a partecipare attivamente alla vita sociale, con la certezza che ciascuno ha qualcosa da offrire al bene comune, alla bene degli altri. E quella presenza include soprattutto i più piccoli, i più poveri e i più vulnerabili, tutti coloro che, agli ‘occhi dell’efficienza’ del mondo, possono essere insignificanti”.

Mentre nell’incontro cittadino mons. Braida ha valorizzato le esortazioni di mons. Angelelli ai laici: “Per questo mons. Angelelli nel suo primo messaggio ai laici ha detto: ‘Pensate, riflettete, dialogate, date la vostra opinione, partecipate, ascoltate, imparate, obbedite, intervenite, preoccupatevi, preoccupatevi per gli altri, siate partecipi solidarietà… sentirci corresponsabili insieme al vescovo, ai sacerdoti e alle suore della missione della Chiesa’. Allo stesso tempo, il nostro vescovo ci ha esortato a riconoscere che lo Spirito Santo opera in ogni persona che lavora per la giustizia e la pace, per il bene degli altri, con i quali dobbiamo camminare insieme, siano essi credenti o non credenti, membri delle organizzazioni più diverse anche se non siamo d’accordo su tutto”.

Chi era mons. Enrique Angelelli?

“Mons. Enrique Angelelli era un pastore, che ha cercato in tutti i modi di prendersi cura delle sue pecore, testimoniando il Vangelo, ed ha portato il messaggio del Concilio Vaticano II a tutte le persone della sua diocesi”.

Quale era il suo amore per la Chiesa?

“Ha veramente dato la vita per una Chiesa sinodale e per questo, quando è stato beatificato, il card. Angelo Becciu ha detto che era un martire dei decreti conciliari. Cercava questo, una persona che amava molto la Chiesa, e sebbene non fosse ben compreso ai suoi tempi da alcuni ambienti ecclesiastici, andò comunque avanti, unito alla Chiesa e fedele alla missione che gli era stata affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di rivolgerci di più alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per noi che vogliamo vivere la sinodalità”.

In quale modo si fece interprete del Concilio Vaticano II nell’Argentina?

“Cercò di rendere tutti i fedeli partecipi della vita della Chiesa, affinché la fede li aiutasse a crescere in tutte le dimensioni della loro vita familiare, lavorativa, sociale e culturale, perché ogni persona fosse in grado di scoprire la propria vocazione”.

‘Un orecchio al Vangelo, un orecchio al popolo’: in quale modo applicò questa sua ‘regola’?

“Mons. Angelelli ha applicato questo suo lemma prima nell’ascolto del Vangelo, poi nell’ascolto delle persone nella convinzione di renderle più consapevoli nel vivere il cristianesimo”.

Lei è vescovo di La Rioja, diocesi di mons. Angelelli: cosa rimane di questa eredità in quella particolare chiesa?

“E’ molto bello bere dall’eredità che ci ha dato, perché ha vissuto proprio il Concilio Vaticano II, e nel 1968 quando ha assunto la diocesi ha cercato di applicarlo, e in modo concreto incoraggiando i laici nella propria missione, soprattutto nel mondo, ed anche aiutando ad affrontare le situazioni di povertà, in cui vivono tante persone. Anche nei consigli pastorali, organizzando la diocesi per decanati per renderla più partecipativa. Era una persona che amava molto la Chiesa, e anche se non era molto compreso nel suo tempo da alcuni settori ecclesiali, tuttavia, è andato avanti, fedele alla missione a lui affidata. Oggi cerchiamo di leggere di più le sue omelie, di andare oltre alla sua testimonianza, perché è una luce enorme per quelli di noi che vogliono vivere la sinodalità”.

E come si pone il Sinodo nell’ascolto delle persone?

“Il Sinodo sta cercando un modo per ascoltare tutte le persone e renderle partecipe alla vita della Chiesa. Nella Chiesa ogni battezzato ha un ‘valore’ ed ha un’importanza unica: se quella persona ha una necessità o è povera deve essere al centro della comunità cristiana”.  

(Tratto da Aci Stampa)

A cento anni dal Primum Concilium Sinense quali prospettive per la Chiesa cattolica in Cina?

“Il Concilio di Shanghai è il primo Sinodo del genere che si tiene in quelle che allora erano chiamate terre o Paesi di missione. Un Paese dove nonostante il grande impegno delle congregazioni missionarie i battezzati sono ancora una minoranza, e non esiste ancora una Chiesa locale strutturata. In quegli anni arrivano proprio dal Papato e dalla Santa sede le spinte a promuovere Concili generali, nazionali o regionali, nelle terre di missione. Per cogliere la rilevanza del Concilium Sinense occorre tener conto proprio del passaggio chiave in atto in quei decenni riguardo all’opera missionaria della Chiesa”: così è iniziato l’intervento del direttore dell’Agenzia Fides, dott.  Gianni Valente, al convegno di studi internazionali, ‘Appunti di viaggio: Marco Polo ed i Francescani in Oriente’, svoltosi a Tolentino, sul ‘Primum Concilium Sinense’, svoltosi a Shanghai nel 1924.

Inizialmente il relatore ha messo in evidenza la situazione storica in cui la fede cattolica era vista dai cinesi come un’invasione degli Stati europei: “In Cina, dopo il tramonto dell’avventura iniziata dal Gesuita Matteo Ricci di Macerata nel Seicento, a partire dal XVIII Secolo le attività missionarie si sono fatalmente intrecciate con gli interessi e le strategie delle potenze occidentali in territorio cinese. I missionari a volte arrivano in Cina con le navi da guerra: i cosiddetti Trattati ineguali con cui le potenze occidentali avevano imposto alla Cina la loro supremazia coloniale includevano anche privilegi protezioni e garanzie per l’attività missionaria.

Era successo che chiese e centri missionari fossero costruiti coi soldi estorti al Celeste Impero come bottini di guerra. In quella fase storica si era creato un intreccio perverso tra l’opera apostolica e le strategie imperialistiche occidentali, e i primi a pagarne le conseguenze erano i missionari stessi. L’endemico risentimento popolare contro gli stranieri si rivolgeva facilmente contro le persone inermi dei missionari o dei cinesi convertiti al cattolicesimo. Si pensi ai massacri xenofobi compiuti all’inizio del XX Secolo dalla setta dei Boxer, dove in pochi mesi morirono 30.000 missionari cristiani coi loro fedeli”.

Al termine dell’incontro gli abbiamo chiesto di raccontarci l’importanza dei viaggi dei francescani in terra d’Oriente?

“In terra d’Oriente i viaggi dei francescani sono stati le prime esperienze di incontro del cristianesimo con le popolazioni della Cina e della Mongolia. Sono andati nelle terre d’Oriente con il desiderio di annunciare il Vangelo. Erano i primi tentativi del cristianesimo ‘europeo’ di uscire dai confini per raggiungere terre inesplorate in un momento in cui si iniziavano ad  attraversare questi enormi spazi. In precedenza c’erano state alcune esperienze, come quella dell’antica Chiesa di Oriente, che era arrivata in Persia ed in India. Esiste un filo conduttore che unisce questi approcci di incontri positivi tra cristianesimo e le grandi nazioni dell’Oriente. Per i francescani il viaggio diventa anche un’esperienza di incontro tra culture e popoli diversi”.

Ritornando alla storia contemporanea, quale era la ‘posizione’ della Santa Sede ad inizio dello scorso secolo?

“LA Santa Sede aveva da tempo avvertito quanto era pericoloso l’intreccio tra apostolato e colonialismo occidentale. A Roma hanno trovato ascolto gli allarmi lanciati da alcuni missionari lungimiranti come Vincent Lebbe e Antonio Cotta, che denunciavano gli effetti negativi del soffocante protettorato imposto dalle potenze occidentali all’opera della Chiesa.

A Roma vedevano bene che l’opera missionaria doveva assolutamente emanciparsi dal connubio con il colonialismo, se non voleva rimanere sepolta dal crollo delle politiche colonialiste che cominciavano a scricchiolare. E non era solo questione di opportunismo storico: cresceva la percezione che fare affidamento  su protezioni di potenze geopolitiche o militari non era la strada giusta, e tradiva le dinamiche gratuite con cui si diffonde il Vangelo.

Nel 1919, questa sollecitudine della Sede Apostolica è stata espressa come magistero pontificio. Papa Benedetto XV pubblicava la lettera apostolica ‘Maximum Illud’ sulle attività dei missionari nel mondo, in cui definiva come un ‘tremendo flagello’ lo ‘zelo indiscreto per lo sviluppo della potenza del proprio Paese’ che sembra animare molti missionari occidentali, ripetendo che i missionari «devono curare gli interessi di Cristo’, e non gli interessi del proprio Paese”.

Una storia che trovò una prima manifestazione nel 1924 con il Primum Concilium Sinensem: quali furono gli sviluppi?

“Dopo il periodo del colonialismo europeo, in cui i fu un grande impegno missionario delle congregazioni cattoliche in Cina, che a volte in maniera negativa si era intrecciato con le dinamiche del colonialismo, iniziò una nuova percezione da parte della Santa Sede e dei missionari più avveduti, accorgendosi che la strada dell’impegno missionario in commistione con il colonialismo è sbagliata, per cui il cristianesimo non diventa mai ‘cinese’; è sempre qualcosa di esterno, che rischia di essere identificato con l’imperialismo occidentale. Quindi da parte della Chiesa è percepita l’urgenza di mettere in atto processi che favoriscano il fiorire di una Chiesa autoctona cinese.

Il Concilium Sinense è voluto dalla Santa Sede ed è affidato al card. Celso Costantini con la prospettiva di porre le condizioni per far fiorire la nascita di una Chiesa cattolica cinese, in modo da liberare la presenza dei cristiani dal sospetto di essere un correlato religioso degli Stati europei con un intento di espansione neocoloniale.

A mio giudizio, quel cammino che è partito dal concilio di Shangai, attraverso vie impreviste e persecuzioni, è in piena continuità con la presenza e la realtà della Chiesa cattolica in Cina attualmente. Essa ha attraversato momenti difficili, ma ora, pur essendo una piccola realtà rispetto alla moltitudine del popolo cinese, è una Chiesa totalmente immersa in quella realtà. Nello stesso tempo è una Chiesa in piena comunione con il vescovo di Roma, riuscendo a vivere tutta l’ampiezza della vita cristiana dentro l’attuale situazione cinese.

Secondo me, ciò è un elemento positivo, perché in una struttura politica come quella della Repubblica popolare cinese c’è una realtà, che sottostando alle regole del vivere civile e politico di quello Stato, riesce a vivere l’essenzialità della presenza cattolica in quel contesto. Quindi testimonia l’errore di prospettiva, che coincide con lo schema ideologico prevalente. A partire dal Concilio di Shangai è avvenuto un cammino, pur faticoso e lento, che ha portato ad una Chiesa, che è pienamente cattolica e pienamente cinese”.

Quindi i rinnovati accordi sino-vaticani vanno in questa direzione?

“Gli accordi sino vaticani non sono certo una risoluzione a tutti i problemi in maniera immediata, ma indicano una prospettiva di lavoro con una progressione di risoluzione dei problemi che hanno accompagnato la cattolicità cinese per decenni e si situano in piena continuità con quell’intuizione profetica che è iniziata con il Concilio del 1924.

Certamente sono accordi che riguardano la Santa Sede ed il governo cinese, ma la loro sorgente profonda attinge a questa percezione reale della vita della cattolicità in Cina. Il criterio con cui si è mossa la Santa Sede, nella totale continuità degli ultimi pontefici, in quanto la prospettiva di un accordo della nomina dei vescovi era già presente nel papato di san Giovanni Paolo II ed anche in papa Benedetto XVI, realizzata con papa Francesco. La linea è questa e il punto di partenza che si vuole tutelare è il bene della comunità cattolica cinese nelle condizioni date”.              

(Tratto da Aci Stampa)

Padre Nardelli: ripartire dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’

“Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”.

Questo è l’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, ‘Lumen Gentium’, emanata il 21 novembre 1964, che costituisce la ‘chiave di volta’ di tutto il magistero conciliare, come affermò papa san Giovanni Paolo II prima della recita dell’Angelus di domenica 22 ottobre 1995: “Grande merito della ‘Lumen Gentium’ è di averci ricordato con forza che, se si vuol cogliere adeguatamente l’identità della Chiesa, pur senza trascurare gli aspetti istituzionali, occorre partire dal suo mistero. La Chiesa è mistero, perché innestata in Cristo e radicata nella vita trinitaria. Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo, è la ‘luce’ che risplende sul volto della Chiesa”.

A 60 anni dalla pubblicazione con p. Fabio Nardelli, docente di Ecclesiologia all’Istituto Teologico di Assisi ed alla Pontificia Università Antonianum di Roma, nonché assistente alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense di Roma, abbiamo cercato di sottolineare i punti di forza di questa Costituzione dogmatica e soprattutto il motivo, per cui papa Francesco ha chiesto un approfondimento sulla ‘Lumen gentium’ in vista del Giubileo:

“In preparazione all’anno giubilare, papa Francesco ha chiesto di dedicare una particolare attenzione alle quattro Costituzioni del Concilio Vaticano II, quale occasione per crescere nella fede. In realtà, come è noto, tale evento è stato realmente un faro per il pensare e l’agire ecclesiale, e quindi non è inopportuno riprendere in mano quegli insegnamenti per applicarli in un contesto che, dopo circa 60 anni, è chiaramente mutato. La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ è stata definita la ‘magna charta’ conciliare e la sua ricchezza teologica è ancora una guida attuale nel contesto ecclesiale sinodale che la Chiesa attraversa, in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno”.

In cosa consiste la ‘luce della Chiesa’?

“Nella Costituzione forte è il riferimento cristologico, in quanto il Cristo è definito la ‘luce delle genti’ che risplende sul volto della Chiesa. In realtà è noto che, secondo l’interpretazione di alcuni, il Concilio Vaticano II intendeva correlare il discorso sulla Chiesa a quello sul Figlio, ma nello stesso tempo non poteva parlare di Cristo senza parlare del Padre, mettendosi in ascolto dello Spirito. Per questa ragione l’ecclesiologia cristologica del Concilio si è necessariamente allargata alla dimensione trinitaria ( LG 2-4). Si può pertanto dire che ogni discorso sulla Chiesa è necessariamente ‘subordinato’ al discorso su Dio e quindi non deve stupire che anche i testi del Concilio, e in particolare la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, propongano una ecclesiologia propriamente teologica”.

Dalla Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ al recente Sinodo dei vescovi: perché la vocazione della Chiesa è profezia?

“La Costituzione ‘Lumen gentium afferma che ‘il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo, quando gli rende una viva testimonianza, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità’ (LG 12). La missione profetica di Cristo è estesa, quindi, a tutti i battezzati secondo le indicazioni della Scrittura (Gl 3,1-5; At 2,17-18). Pertanto la funzione profetica non è più riservata solo ad alcuni, come ‘ufficio di pochi’, ma è un attributo di tutta la comunità dei credenti che, in forza del Battesimo, diventa ‘popolo di profeti’ che annuncia e testimonia il Vangelo”.

Quanto è importante la Chiesa domestica nel tramandare la fede?

“La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ utilizza l’espressione ‘Chiesa domestica’ per esplicitare il modo di esercizio del sacerdozio comune di ogni battezzato e, in particolare, dei coniugi cristiani (cfr. LG 11). L’immagine individua e sottolinea in modo specifico il compito essenziale della famiglia nella Chiesa che è, sempre, quello di ‘custodire’ e ‘trasmettere’ la fede. In questo modo, nell’attuale contesto ecclesiale, infatti, viene ribadita la chiamata per ogni battezzato ad annunciare il Vangelo. La dimensione relazionale, e quindi familiare, chiaramente messa in luce dal Documento finale del Sinodo, è già presente nella Costituzione ecclesiologica e rimanda alla realtà della primitiva comunità cristiana descritta nel libro degli Atti (cfr. At 2,42-47)”.

Per quale motivo la Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’ sottolinea il carattere missionario della Chiesa?

“L’ecclesiologia della Costituzione dogmatica può essere definita missionaria nelle sue più intime fibre, in quanto le principali categorie che il testo considera in chiave missionaria sono quelle di Popolo di Dio (sacerdotale, profetico e regale), sacramento, popolo messianico e, certamente, di ‘popolo missionario’ (cfr. LG 17). La Costituzione dogmatica ‘Lumen gentium’, quindi, ha presentato l’indole essenzialmente missionaria della Chiesa a partire, proprio, dal fondamento teologico della sua natura, di cui indica la finalità specifica. Se volessimo sintetizzare la visione missionaria della Costituzione dogmatica, si potrebbe affermare che il documento intende enunciare il fondamento trinitario della missione, la sua manifestazione nelle ‘realtà locali’ attraverso la prassi dell’inculturazione, la destinazione universale del suo messaggio di salvezza e la corresponsabilità di tutto il Popolo di Dio all’azione di evangelizzazione”.

Dopo 60 anni quale è l’attualità di questa Costituzione dogmatica?

“Il testo risulta particolarmente attuale perché richiama alla dimensione comunionale e missionaria che il recente Sinodo ha messo in evidenza, domandandosi ‘come essere Chiesa sinodale-missionaria’. Il valore della Costituzione ecclesiologica è perennemente vivo, in quanto il documento nasceva in un contesto in cui la Chiesa aveva bisogno di riflettere sulla sua identità e, oggi, dopo 60 anni riafferma tale identità missionaria in quanto ‘Popolo di Dio’ in cammino verso il Regno. Riscoprire i contenuti dottrinali e pastorali di questo documento conciliare è particolarmente urgente nell’epoca attuale”.

(Tratto da Aci Stampa)

Papa Francesco: la carità è strumento di evangelizzazione

Oggi papa Francesco, ricevendo i membri della Caritas della diocesi di Toledo in occasione del 60° anniversario dell’organismo caritativo, istituito il 2 giugno 1964, ha richiamato i principi di carità e giustizia per risvegliare ‘una coscienza più fraterna’ nella società: “Ricevendovi in ​​questa casa dell’Apostolo, ho voluto unirmi al vostro ringraziamento per i sessanta anni di servizio caritativo nella Chiesa di Toledo. Un impegno che, come ho potuto constatare, va oltre il bene concreto che si può fare alla persona, assumendo la sfida di essere motore del cambiamento all’interno della società diffondendo lo spirito di carità e giustizia, per risvegliare in tutti coloro che hanno buona volontà una coscienza più fraterna”.

Nel saluto il papa ha sottolineato che le opere di carità sono ‘strumenti’ per l’evangelizzazione: “In questo modo non siete solo esempio di civiltà o di filantropia, ma divenite strumenti di evangelizzazione, attraverso il linguaggio universale delle opere di carità. E’ curioso, le opere di carità non hanno bisogno di traduttore, non c’è un dizionario per tradurre, è una lingua universale, la lingua universale delle opere di carità, tutti lo capiscono, è una lingua comprensibile a tutti, scritta con la testimonianza e l’impegno di tutti gli operatori della Caritas, impegnati in Gesù Cristo e nel suo Vangelo”.

E tali opere si realizzano attraverso la sinodalità: “Un traguardo, sicuramente alto, che si realizza attraverso l’abilità artigianale di ciascuno dei responsabili dell’azione socio-caritativa, fondata su una formazione umana e spirituale che consenta di affrontare con fermezza i problemi sociali, in continua evoluzione, alla luce della Dottrina Sociale. della Chiesa. Senza mai dimenticare lo spirito di collaborazione e sinodalità con tante realtà pastorali che compongono l’intera Chiesa diocesana”.

E’ un incoraggiamento ad essere ‘maestri artigianali’ attraverso la preghiera: “Sorelle, fratelli, vi incoraggio a proseguire in questo sforzo, imparando sempre dal Signore, nel libro vivo della preghiera, e nella lettura della sua Parola, nel libro vivo del vivere i sacramenti, e nell’ascolto attento della voce dei loro Pastori. e la loro presenza nell’Eucaristia ed in coloro che servono. Una cosa che vi chiedo è che siate maestri di questa saggezza, di quella saggezza di cui il mondo ha tanto bisogno. La stupidità è impressionante, la stupidità si vende e si compra, e i prezzi non sono occasioni, prezzi di liquidazione, sono prezzi stagionali, prezzi cari”.

Inoltre alle suore canonichesse dello Spirito Santo in Sassia ed alle altre comunità legate al carisma di Guido di Montepellier, beatificato nello scorso maggio, il papa ha evidenziato l’impegno del religioso francese verso poveri e malati e si sofferma sulla vita rigorosamente sobria e distaccata’ dei consacrati dell’ordine ospedaliero da lui fondato:

“La Regola del Beato Guido inizia nel nome della Santissima e Individuale Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, per proporre a tutti i fratelli e sorelle presenti e futuri, dell’Ordine, un appassionante progetto di vita. E qual è il progetto?: dedicarci principalmente alla cura e al servizio dei poveri”.

La cura dei poveri è stato il suo progetto all’interno della Chiesa: “Si tratta di un progetto che si allinea con la riforma che Innocenzo III promosse nella vita religiosa e che si sarebbe poi cristallizzata nei nuovi Ordini mendicanti. Un interesse del Pontefice che lo Spirito Santo ha saputo guidare nell’ascolto di alcuni santi come il Beato Guido e San Juan de Mata, con i quali ha coinciso agli albori del suo pontificato, essendo promotori di questo progetto”.

E’ un progetto con il sapore della cucina: “E’ interessante come il disegno di Dio marci nella cucina del cuore (e le suore e le suore lo sanno bene) e le note di sapore e di colore permeano le regole della vita, per poi diffondere il loro profumo su tutta la Chiesa. E tra queste note vorrei evidenziarne tre: comunione, sine proprio e servizio”.

E’ la regola dell’Ordine, basandosi sull’esempio della Chiesa di Gerusalemme: “Nella vostra Regola il voto di povertà è espresso in modo particolare: vivere senza nulla di proprio. Questa espressione non significa semplicemente una vita vigorosamente sobria e distaccata, come oggi viene definito il voto, ma piuttosto comprendere che siamo ospiti nella Casa di Dio, Casa della Trinità che ci accoglie, condividendola con i poveri che siamo chiamato a servire”.

Ciò significa privilegiare la fraternità: “In questo modo la vita fraterna va oltre la condivisione di spazi, compiti, servizi, la vita fraterna è fare una donazione di noi stessi a Dio nel fratello, una donazione senza riserve. Senza più nulla di suo nella camera delle sicurezze mondane, nascosto nella cella, in tasca o, peggio ancora, nel cuore. Senza niente di nostro, lasciato nella camera delle sicurezze mondane, o niente di nostro nascosto lì nella cella, o in tasca o, peggio ancora, nel cuore, perché solo da quella libertà, senza niente di nostro, possiamo iniziare un progetto in quello che portiamo avanti insieme e di cui siamo segno escatologico, il cammino verso dove il Signore ci chiama, il cammino verso il Cielo”.

Tale fraternità è un cammino che conduce alla santità: “Che è un cammino verso Dio, che è guidato dallo Spirito Santo, che ci rende seguaci di Gesù. E quando parliamo di Gesù non dimentichiamo che Lui non è venuto per essere servito, ma per servire. Questo è il nostro modello. La nostra santità sarà nella misura in cui sapremo diventare piccoli e servitori di tutti”.

(Foto: Santa Sede)

Marocco: una Chiesa in cammino

Lo spirito del Sinodo ci mette tutti in cammino. La coscienza sempre più viva di far parte di un unico mondo, in particolare nella regione Mediterranea, ancora di più. Siamo ormai vicini di casa, sull’altra sponda. Per questo la Chiesa del Marocco vi invita. Venite in pellegrinaggio da noi!

Da soli, in famiglia o in gruppo, lasciatevi condurre dallo Spirito e dal suo carisma: l’incontro con l’altro. Differente da noi per storia, cultura e religione. È il nostro cammino più difficile, evangelico e sorprendente… La sfida dell’incontro. Della fraternità.

Il monastero sull’altopiano a Midlt dei monaci di Tibhirine e la loro testimonianza – unica al mondo di preghiera, di fraternità e di martirio in terra d’Islam – vi attendono! Il nostro Centro pastorale diocesano “Notre Dame de la Paix” – una vera oasi nel cuore di Rabat – e le tre suore del Mali più che volentieri vi accolgono. Le varie comunità cristiane – per davvero cattoliche, perché di quasi cento nazionalità differenti – vi offriranno la loro testimonianza di servizio fraterno e di universalità.

‘Almowafaqa’, l’Istituto Teologico ecumenico e interreligioso di Rabat, con un corpo docente universitario misto, cioè cattolico, protestante e musulmano – una vera perla, un’autentica originalità di qui –, ha sempre per voi le porte aperte per una visita. La comunità italiana a Casablanca vi vedrà con gioia.

Città antiche e splendide come Fes, Marrakech, Essaouira, El Jadida… e suggestivi villaggi tradizionali, che si mettono in preghiera cinque volte al giorno, vi accoglieranno con entusiasmo: l’ospite qui è sacro.

Il deserto del Sahara vi incanterà per il silenzio, la solitudine, l’assoluto di Dio: vi darà la pace. E vi metterà sui passi di Charles de Foucauld: l’abbandono fiducioso all’Altro e la fraternità verso tutti. In fondo, vi sorprenderà incontrare una Chiesa viva, minoritaria, coraggiosa, a servizio di una società tanto differente in terra d’Islam. Testimone della forza del Vangelo. Ma, soprattutto, dell’amore di Dio per l’umanità che qui vive.

Imparerete il nostro atteggiamento interiore, quasi una regola d’oro: «parlare meno dei migranti, parlare di più con i migranti; parlare meno dei musulmani, parlare di più con i musulmani; parlare meno di Dio, parlare di più con Dio».

Conoscere e incontrare una tradizione, una storia, una fede differenti aiuta a crescere in apertura di mente e di cuore. Indispensabile, oggi, per affrontare le sfide del domani. Conoscere la nostra Chiesa, «sacramento dell’incontro» con l’altro e i suoi valori come la preghiera, la fraternità e l’umiltà, vi trasmetterà un grande dono di Dio: la gioia. Sì, venite e vedete! Vi attendiamo a braccia aperte.

Enzo Romeo: sinodalità e vita camminano insieme

“La sinodalità è come la bicicletta. Solo se si pedala si resta in equilibrio e si fa strada. Se invece si resta fermi, si cade per terra”: è la metafora che Enzo Romeo, vaticanista del Tg2, adotta come filo conduttore del suo libro, ‘Camminare insieme, sinodalità e vita’, in cui cerca di spiegare che cos’è, dal suo punto di vista di giornalista credente, questa modalità di essere Chiesa. Nell’introduzione Enzo Romeo sottolinea che il camminare insieme ‘non è un esercizio facile’: “Soprattutto se ci è richiesto di condividere la strada con coloro che sentiamo estranei, o magari col me stesso che non accetto… Fare sinodo non è stare in un cerchio chiuso, ma esporsi al cambiamento della vita, uscire, andare incontro, accettando che le cose si modifichino per fare spazio all’altro. Sperando alla fine di riscoprire Dio, il grande desaparecido del nostro tempo”.

Ma ciò che più interessa ad Enzo Romeo è mettere in evidenza che la vita di fede, il cammino verso il Regno che la sinodalità richiama, si compie nella vita quotidiana, scegliendo una citazione, tratta dagli scritti di Madeleine Delbrél: “Questa donna, innamorata del Vangelo, assistente sociale che scelse di vivere in un sobborgo operaio di Parigi, affermava che la nostra vita, se ci affidiamo alla forza divina ‘la vedremo splendere mentre camminiamo per la strada, mentre accudiamo al nostro lavoro, sbucciamo i legumi, attendiamo una telefonata, spazziamo i pavimenti; la vedremo splendere tra  due frasi del nostro prossimo, tra due lettere da scrivere, quando ci svegliamo e quando ci addormentiamo’… L’importante è non restare fermi”.

Allora, perché è necessario camminare insieme?

“Perché nessun uomo è un’isola, come diceva John Donne. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, che piaccia o no. Tanto più nell’era della globalizzazione e delle interconnessioni. Il cristianesimo e la Chiesa danno, inoltre, un valore morale a questa dinamica: la presenza di Dio passa attraverso i miei fratelli e le mie sorelle, quindi non si può che procedere insieme sul cammino della Salvezza”.

Quale rapporto esiste tra vita e sinodalità?

“Se sinodalità significa camminare insieme, la declinazione di questo verbo (camminare) è innanzi tutto esistenziale. Va bene la riflessione teorica, gli ‘instrumenta laboris’, il confronto sinodale e via dicendo. Ma poi tutto va sperimentato. Il credente deve provare nel concreto ciò che significa sinodalità, per gustarne la bellezza oltre che la complessità”.

In quale modo fare sinodo nella vita quotidiana?

“Per cominciare bisogna, secondo me, cominciare dal proprio io interiore. Spesso facciamo fatica a camminare con noi stessi perché non ci accettiamo o perché non abbiamo messo bene a fuoco chi siamo, cosa vogliamo, quale è il nostro ruolo e quale senso dare alla nostra vita. Poi il cerchio si allarga: la famiglia, la comunità dei credenti (parrocchia, gruppi, associazioni…). Anche in questo ambito siamo chiamati a uno sforzo di accettazione, perché è facile camminare insieme a chi ci sta simpatico o a chi stimiamo, ma la sinodalità non la si realizza con i circoli chiusi o con le lobbies.

Ciò che ci viene chiesto è di camminare con tutti, con coloro che la Provvidenza ci pone a fianco e che magari sono le persone che non ci stanno a genio, quelle con le quali abbiamo avuto uno screzio, che sentiamo lontane o perfino nemiche. Se facciamo questi passi, allora potremo arrivare al pieno senso universale e quindi “cattolico” della sinodalità”.

Quale sfida attende i cattolici?

“Quella di ridare cittadinanza a Dio, che provocatoriamente nel libro chiamo ‘il grande desaparecido del nostro tempo’. Ovviamente Dio, che è l’Eterno, non sparisce mai e mai si stanca di aspettarci, come dice papa Francesco. Siamo noi che abbiamo provato a eliminarlo come facevano le dittature latinoamericane coi dissidenti, caricandoli su un aereo e lanciandoli nell’oceano. Ma Dio non può morire. Più siamo schiacciati dalla materialità delle cose, in questa società edonistica del mordi e fuggi e dell’usa e getta, più cresce dentro di noi la nostalgia dell’Assoluto, invisibile ma potente. La sfida è dunque questa: il ritorno della rilevanza divina nella vita delle donne e degli uomini di oggi”.

Quindi anche Dio è sinodale?

“Sì, possiamo dire così. Siamo monoteisti, ma il nostro è un Dio trinitario, non solitario. Dio ha un Figlio, Gesù, che si fa uomo e che comunica ininterrottamente col Padre per mezzo di una terza persona, lo Spirito Santo, capace di soffiare dove vuole. Per me non c’è esempio più grande di sinodalità”.

Quali antenne sono necessarie per comprendere il mondo?

“Nell’era del progresso scientifico e dell’intelligenza artificiale siamo portati a ritenere che tutto dipenda dai mezzi tecnici a nostra disposizione. Ma non è così. Se emettiamo note stonate non basteranno i più moderni strumenti a rimediare alla nostra cacofonia. Se invece abbiamo una buona novella da annunciare, allora basteranno le antenne del cuore per metterci in perfetta sintonia con gli altri. Come scrivo, se apriamo lo sguardo al cielo diverremo noi stessi delle antenne paraboliche e il nostro segnale sarà captato su qualunque frequenza d’onda”.

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