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In Toscana approvata la legge per il suicidio medicalmente assistito

Nei giorni scorsi la Regione Toscana ha approvato una legge di iniziativa popolare che regolamenta procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 242/2019, prevedendo di individuare i requisiti di accesso alla pratica, la verifica delle condizioni e delle modalità di accesso alla morte medicalmente assistita, affinché l’aiuto al suicidio non costituisca reato.
La legge stabilisce anche che possono accedere al suicidio medicalmente assistito le persone affette da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputano intollerabili; tenute in vita da trattamento di sostegno vitale; pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli; che esprimono un proposito di suicidio formatosi in modo libero e autonomo, chiaro e univoco.
A seguito di tale approvazione il card. Paolo Augusto Lojudice, presidente della Conferenza Episcopale Toscana, ha sostenuto che una legge non può sostenere un diritto al suicidio: “Prendiamo atto della scelta fatta dal Consiglio Regionale della Toscana, ma questo non limiterà la nostra azione a favore della vita, sempre e comunque. Ai cappellani negli ospedali, alle religiose, ai religiosi e ai volontari che operano negli hospice e in tutti quei luoghi dove ogni giorno ci si confronta con la malattia, il dolore e la morte dico a tutti di non arrendersi e di continuare ad essere portatori di speranza, di vita nonostante tutto. Sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo, ma una sconfitta”.
A supporto di questa posizione si è aggiunto anche l’intervento della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro con il suo vescovo Andrea Migliavacca e il responsabile diocesano per la pastorale della salute, insieme alla consulta diocesana di pastorale sanitaria, all’associazione Medici cattolici di Arezzo e all’opera Casa Betlemme, sostenendo che la vita deve essere tutelata: “La vita è un dono che va difeso e tutelato in tutte le sue condizioni. Siamo contrari ad alimentare una cultura dello scarto dove si stabilisce chi ha la dignità per vivere”.
Una società non può creare ulteriori solitudini: “La risposta di una comunità che accoglie non può essere quella di creare la solitudine del suicidio ma di rendersi capace di farsi prossimo in maniera concreta a chi vive il dolore nel corpo e nella mente. Dobbiamo tornare ad umanizzare la morte e al giusto accompagnamento attraverso la terapia palliativa oltre ad ‘una buona dose di amore’.
A tutti coloro che credono nel valore della vita e della centralità della persona chiediamo di non perdere coraggio: continuino, invece, ad essere testimoni di speranza con rinnovata passione ed entusiasmo. Nessuno si deve sentire abbandonato, perché solo così e senza altri artifizi, saremo in grado di dare dignità alle persone anche nel loro percorso finale di vita”.
Nelle settimane precedenti i vescovi toscani erano già intervenuti sul tema con una nota diffusa in attesa della discussione in aula della proposta di legge regionale, chiedendo prudenza e saggezza: “Siamo consapevoli che questa proposta di legge assume per molti un valore simbolico, nel senso che si chiede alla Regione Toscana di ‘forzare’ la lentezza della macchina politica statale chiamata a dare riferimenti legislativi al tema (importantissimo) del fine vita. Vorremmo in primo luogo invitare i consiglieri regionali ed i dirigenti dei loro partiti a non fare di questo tema una questione di ‘schieramento’ ma di farne un’occasione per una riflessione profonda sulle basi della propria concezione del progresso e della dignità della persona umana”.
Per questo avevano invitato i consiglieri regionali a leggere il documento ‘Dignitas Infinita’ e la storia di questa regione: “Nella cura delle persone in condizione di fragilità la Toscana è stata esempio per tutti: la nascita dei primi ospedali, dei primi orfanotrofi, delle associazioni dedicate alla cura dei malati e dei moribondi, come le Misericordie, e poi tutto il movimento del volontariato, sono un’eredità che continua viva. Ci sembra che in un momento di crisi del sistema sanitario regionale, più che alla redazione di ‘leggi simbolo’, i legislatori debbano dare la precedenza al progresso possibile anche nel presente quadro legislativo, in un rinnovato impegno riguardo alle cure palliative, alla valorizzazione di ogni sforzo di accompagnamento e di sostegno alla fragilità”.
Ed infine avevano rivolto un invito a non stravolgere la Costituzione italiana: “La vita umana è un valore assoluto, tutelato anche dalla Costituzione: non c’è un ‘diritto di morire’ ma il diritto di essere curati e il Sistema sanitario esiste per migliorare le condizioni della vita e non per dare la morte. Anche da parte nostra vogliamo affermare la necessità di leggi nazionali aggiornate e siamo disponibili al dialogo e all’approfondimento sul grande tema del fine vita, pronti ad ascoltare e ad apportare, per la passione per ogni persona umana che impariamo da Gesù Cristo e che viene offerta a tutti come contributo libero alla nostra società”.
Don Maurizio Chiodi: la vita riguarda tutti

Nel mese di agosto il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mons. Vincenzo Paglia, ha consegnato a papa Francesco il ‘Piccolo lessico del fine-vita’, in cui si conferma la contrarietà al suicidio assistito ed all’eutanasia, ribadendo la difesa del diritto alla vita, soprattutto per i più deboli per una necessaria valutazione dei trattamenti non proporzionati; maggior cura dei malati; collaborazione tra Chiesa e politica sui temi del fine vita, chiarendo alcuni punti sulle tematiche etiche relative al dibattito sul fine vita: dall’eutanasia e il suicidio assistito, alle cure palliative e la cremazione.
Nell’introduzione al volume mons. Paglia ha scritto che questi temi riguardano tutti: “Quando sono in gioco la vita, la sofferenza e la morte non possono essere solo i singoli individui che se la debbono sbrigare privatamente, per conto proprio. E’ perciò un fatto positivo che tutta la comunità si senta coinvolta e chiamata a elaborare in modo condiviso il senso degli eventi più delicati dell’esistenza.
Non deve esserci dubbio che essi hanno profonda rilevanza per la comunità intera. Ma proprio per questa diffusione non è raro che i termini del dibattito risultino equivoci. Le stesse parole talora vengono utilizzate con significati diversi, anche perché non sono facili da maneggiare, con il risultato di rendere difficile intendersi non solo per la differenza delle posizioni ma anche per la complessità dei termini”.
Ed ha ribadito l’importanza della presenza testimoniale dei cattolici nella società: “Proprio nella cultura si apre il tema della presenza e della testimonianza dei credenti, in quanto anch’essi partecipano al dibattito pubblico, intellettuale, politico e giuridico. Il contributo dei cristiani si realizza all’interno delle differenti culture: non sopra (come se essi possedessero una verità data a priori) né sotto (come se fossero portatori di un’opinione senza impegno di testimonianza della giustizia condivisibile): soggettivamente rispettabile, ma pregiudizialmente parziale e dogmatica, dunque oggettivamente inaccettabile. Tra credenti e non credenti si stabilisce così una relazione di apprendimento reciproco”.
Al teologo morale, don Maurizio Chiodi, accademico della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), chiediamo di spiegare l’importanza di questo libro: “La sua importanza, mi pare, risiede anzitutto nel contesto: pur non essendo un testo magisteriale, è promosso dalla PAV e fa parte di una collana dell’editrice Vaticana; in quest’ottica va letta la densa introduzione di mons. Paglia, presidente della PAV. La ragione maggiore della sua importanza, però, è quella per la quale si raccomanda ogni libro: è un’opera pregevole per la qualità della riflessione, per le parole che dice e che non dice, per la lettura istruttiva anche per gli addetti ai lavori e accessibile a tutti”.
Per quale motivo le decisioni sulla vita riguardano tutti?
“La domanda dice bene il motivo per cui è stato scritto il ‘Piccolo lessico del fine-vita’. Il dibattito in Italia e talvolta anche nella Chiesa rischia di ridursi a polarizzazioni semplificatrici. Quanto più si grida e si attacca, tanto più si pretende di aver ragione. Così, però, ignoriamo le ragioni del dialogo e il dialogo delle ragioni. Il dialogo appartiene all’umano e va nel profondo, per accedere alla verità, nelle sue diverse articolazioni. In tal senso esso fa parte del cammino della Chiesa, che per la sua struttura è sinodale, secondo lo specifico di ciascuna componente, dal ministero dei pastori con il magistero corrispondente, al ‘sensus fidei fidelium’, al servizio della teologia. Dialogare non è rinunciare alle proprie idee e scelte, ma testimoniarle, parlando in modo che l’altro possa comprenderle e continuando ad ascoltare le sue ragioni”.
Perché la Chiesa ribadisce il proprio no ad eutanasia, suicidio assistito ed accanimento terapeutico?
“Il ‘Piccolo Lessico’ ha selezionato 22 voci, con 19 commenti effettivi. Pur essendo un ‘Lessico’, necessariamente frammentato, ogni articolo rimanda agli altri, componendo un mosaico di concetti e formulazioni legate tra loro, in un profilo unitario. Ad esempio, la voce eutanasia non si comprende senza riferirsi all’accanimento terapeutico (o ostinazione irragionevole), la medicina intensiva, la proporzionalità, l’autonomia, l’accompagnamento, la morte. Quest’ultimo tema è il cuore di tutto: gli è dedicata una voce che, con approccio multidisciplinare (comune a tutto il ‘Piccolo Lessico), non si limita al suo accertamento, ma suggerisce questioni teologiche, filosofiche, etiche e antropologiche di ampio respiro.
Su di essa, che è l’esperienza radicale di ‘essere sottratti a se stessi’, si innestano l’accanimento e il suicidio assistito. Il rifiuto dell’accanimento, insieme al no all’eutanasia (ed al suicidio assistito), sono la chiave per porsi dinanzi alla morte, con quella saggezza che per il cristiano è forma della fede e per chi non lo è rappresenta la virtù della vita buona. Il fare della tecnica appartiene all’agire responsabile che nella medicina diventa forma della cura della vita ‘fragile e mortale’, propria e altrui. Sotto tale profilo ritorna il tema della proporzionalità, che il ‘Piccolo Lessico’ mette bene in rilievo, come anche la proposta di DAT, che lo conclude”.
Quanto è importante sviluppare le cure palliative?
“Accompagnare, comunicare, custodire le relazioni, prendersi cura anche quando non si può guarire, senza provocare la morte e senza allontanarla indefinitamente: le cure palliative sono una forma esemplare della medicina scientifica e tecnologica che, guardandosi dal tecnicismo, custodisce il senso fondamentale della pratica medica”.
Con questo vademecum cambia qualcosa nella dottrina della Chiesa nei confronti della vita e della morte?
“La dottrina della Chiesa, nel suo insieme, non è un monolite fuori della storia. La verità della fede e la pratica che la custodisce esigono un ritorno continuo al vangelo e agli interlocutori ai quali si rivolge. Si tratta dunque di una verità storica, com’è evidente anche in etica. A volte sottolineature o sfumature possono aiutare a reinterpretare, prospettando vie nuove. A tal proposito, vorrei ricordare due temi del Piccolo Lessico, che han fatto molto discutere. Come rileva la voce ‘nutrizione ed idratazione artificiale’ (NIA), i testi del magistero, mentre considerano tali cure ‘dovute’ in senso generale, prevedono condizioni in cui ne sia possibile la sospensione.
Il Piccolo Lessico trae le conseguenze di tale valutazione, riconducendo la NIA al decisivo criterio della proporzionalità. L’altra questione riguarda il ‘suicidio assistito’. Già la Dichiarazione ‘Iura et bona’ (1980), condannando l’eutanasia come omicidio, prevedeva situazioni in cui potesse non darsi responsabilità morale. Rimanendo in tale quadro etico, il Piccolo Lessico dice che si può pensare ad una mediazione giuridica che tenga conto del pluralismo della società democratica, certo riferendosi al dibattito italiano, locale, ma rilanciando la possibilità di ‘tradurlo’ in altri contesti culturali. A tal riguardo, l’Introduzione, senza sottodeterminare la legge giuridica, mette in guardia dalla sua sovradeterminazione e rilancia la questione radicale della cultura, umanistica e relazionale”.
Su questi temi quale contributo possono fornire i cattolici?
I credenti non stanno né fuori né sotto né sopra, ma dentro la società e la cultura, chiamati a entrare nell’arena pubblica, anche nei suoi aspetti etici e antropologici, spesso dimenticati nei dibattiti giuridici e politici. Accogliendo pienamente la (buona) ‘laicità’ dello Stato, il ‘particolare’ dei credenti testimonia un bene che è di tutti e a tutti è destinato, sia offrendo ‘risorse di senso’ specifiche sia entrando nella logica dell’ ‘apprendimento reciproco’ che ci chiede di praticare l’ascolto ed il confronto con tutto ‘ciò che è virtù e merita lode’, come scrive san Paolo ai Filippesi”.
La Corte Costituzionale: non esiste un diritto alla morte

La decisione della Corte Costituzionale n. 135 della scorsa settimana in tema di suicidio assistito ribadisce quanto già affermato nel 2019 con la sentenza n. 242 e, in questo senso, per quanto la sentenza n. 242 fosse per certi aspetti discutibile, ribadisce che i più fragili vanno comunque tutelati anche rispetto ai possibili abusi e strumentalizzazioni, primo tra i quali la spinta sociale a sentirsi un peso per gli altri con la conseguenza di indurre a optare per la richiesta di morire, come ha sottolineato la presidente del Movimento per la Vita, prof.ssa Marina Casini:
“Fondamentale dunque l’importanza delle cure palliative da assicurare a tutti senza eccezioni. Sono questi i due aspetti, protezione dei fragili e cure palliative, su cui bisogna lavorare molto a livello culturale, operativo e legislativo”.
Al legislatore spetta, quindi, il compito di mettere mano alla materia in maniera assolutamente coerente con i quattro paletti indicati dalla Corte Costituzionale, senza allentamenti, allargamenti, smagliature, scappatoie, inganni semantici, ambiguità, ha specificato Marina Casini: “Deve restare chiaro che le persone colpite dalla malattia e dalla disabilità sono persone da proteggere, che l’ordinamento giuridico non si piega a logiche di morte, che l’assistenza al suicidio deve restare una eccezione circoscritta in presenza dei cinque requisiti, i quattro più il quinto che riguarda le cure palliative, rigorosamente circoscritti, interpretati e intesi”.
Per la presidente del Movimento per la Vita occorre evitare la situazione creatasi con la legge sull’aborto: “Bisogna evitare di ripetere quanto accaduto con la legge sull’aborto, anch’essa preceduta da una sentenza costituzionale, la n. 25 del 1975: la Legge 194 nella disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza nei primi tre mesi di gravidanza è andata ben oltre i criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale. “Al di là dell’aspetto legislativo va assolutamente dato spazio e promozione a un’autentica cultura della vita affinché ogni persona si senta, e sappia di esserlo davvero, accolta e amata”.
Sulla decisione della Corte Costituzionale è intervenuti anche il prof. Alberto Gambino, presidente Centro studi ‘Scienza&Vita’, componente Comitato nazionale per la bioetica:“Per la Corte costituzionale non c’è un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza. Si tratta di un’affermazione importante. Il suicidio assistito resta un’eccezione e, dunque, non si realizza alcuna disparità di trattamento tra pazienti che dipendono da trattamenti di sostegno vitale e pazienti che non vi dipendano”.
Ed ha affermato la ‘oggettività’ della sentenza: “Anzi la Corte ritiene, giustamente, che il requisito ‘oggettivo’ dell’essere sottoposti ad un presidio sanitario eviti che si finisca per creare una ‘pressione sociale indiretta’ su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali (sono parole della Corte) ‘potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte’.
La via italiana, secondo la Corte, è dunque legittima e corrisponde a quanto già recentemente ha ritenuto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte sembra però sposare una posizione per la quale il sostegno vitale non coincide necessariamente con una completa sostituzione di funzioni vitali ma possa esserlo anche il trattamento che si riveli in concreto necessario ‘ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Infatti, intervenendo sui confini di non punibilità dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale ha ribadito un punto fermo della sua giurisprudenza recente in materia: non esiste né è invocabile un ‘diritto di morire’ nel nostro ordinamento, al centro del quale c’è invece la ‘tutela della vita umana’, un bene che ‘si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona’, come ricorda l’articolo 2 della Costituzione Italiana.
Anche il prof. Marco Ronco, presidente del Centro Studi Livatino, docente universitario emerito di Diritto penale e vicepresidente del Comitato nazionale per la Bioetica, ha ritenuto fondamentale la sentenza della Corte Costituzionale: “La Corte Costituzionale, con sentenza n. 135/2024, impone un chiaro stop alle istanze di estensione dei casi di non punibilità dell’aiuto al suicidio…
La sentenza ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che punisce chi aiuta un’altra persona a togliersi la vita. Di conseguenza non ha creato nessuna nuova estensione, rispetto a quelle riconosciute con le pronunce del 2018 e 2019, del diritto di accedere al suicidio assistito. Per questo, sono piuttosto soddisfatto”.
Ed ha sottolineato che non esiste nella legislazione il ‘diritto’ a morire: “Appare di assoluto rilievo che la Corte abbia evidenziato, con tanta chiarezza, il rischio della ‘pressione sociale indiretta’ che una legislazione sul suicidio assistito si presta a generare, rischio già più volte posto in evidenza dal Centro Studi Livatino.
Sotto altro profilo la Corte, nel ribadire che non esiste un ‘diritto a morire’, ha richiamato (par. 7.3.) l’attenzione sul fatto che, ‘dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga’. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae (fra cui il Centro Studi Livatino), certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, ‘non degna’ di essere vissuta”.
Tale sentenza non contrasta la giurisprudenza fin qui espressa: “La sentenza si pone, dunque, in continuità con la giurisprudenza precedente, nulla concedendo alle istanze di (ulteriori) balzi perorate dall’ordinanza di rimessione e, anzi, per alcuni profili mostrando sviluppi argomentativi di particolare pregio. Ciò non significa, naturalmente, che la stessa giurisprudenza precedente, cui la Corte si conforma, andasse esente da critiche.
Come ricordato anche di recente dalla CEDU, infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non impone di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio neppure nei casi in cui la Corte Costituzionale Italiana aveva ritenuto, invece, nel 2019, che la punizione dell’aiuto al suicidio fosse da considerarsi contraria a Costituzione”.
Anche in Emilia-Romagna braccio di ferro sul suicidio medicalmente assistito

“Nascere, vivere, morire: tre verbi che disegnano la traiettoria dell’esistenza. La persona li attraversa, forte della sua dignità che l’accompagna per tutta la vita: quando nasce, cresce, come quando invecchia e si ammala. Sperimenta forza e vulnerabilità, intimità e vita sociale, libertà e condizionamenti. Gli sviluppi della medicina e del benessere consentono oggi cure nuove e un significativo prolungamento dell’esistenza. Si profila così la necessità di modalità di accompagnamento e di assistenza permanente verso le persone anziane e ammalate, anche quando non c’è più la possibilità di guarigione, continuando e incrementando l’ampio orizzonte delle “cure”, cioè di forme di prossimità relazionale e mediche”.
Così inizia il giudizio della Conferenza episcopale dell’Emilia- Romagna sulle ‘Istruzioni tecnico-operative’ con le quali la giunta regionale aveva tracciato lo scorso 9 febbraio il percorso per ottenere il suicidio medicalmente assistito. Nella nota i vescovi hanno sottolineato che procurare la morte contrasta con il valore della vita:
“Alla base di questa esigenza ci sono il valore della vita umana, condizione per usufruire di ogni altro valore, che costruisce la storia e si apre al mistero che la abita, e la dignità della persona, in intrinseca relazione con gli altri e con il mondo che la circonda”.
Per questo il valore della vita impone la difesa delle persone fragili: “Il valore della vita umana si impone da sé in ogni sua fase, specialmente nella fragilità della vecchiaia e della malattia. Proprio lì la società è chiamata ad esprimersi al meglio, nel curare, nel sostenere le famiglie e chi è prossimo ai malati, nell’operare scelte di politiche sanitarie che salvaguardino le persone fragili e indifese, e attuando quanto già è normato circa le cure palliative. Impegno, questo, che qualifica come giusta e democratica la società. Procurare la morte, in forma diretta o tramite il suicidio medicalmente assistito, contrasta radicalmente con il valore della persona, con le finalità dello Stato e con la stessa professione medica”,
Per i vescovi dell’Emilia-Romagna la proposta del ‘suicidio medicalmente assistito’ è sconcertante, proponendo un loro contributo: “Esprimiamo con chiarezza la nostra preoccupazione e il nostro netto rifiuto verso questa scelta di eutanasia, ben consapevoli delle dolorose condizioni delle persone ammalate e sofferenti e di quanti sono loro legati da sincero affetto.
Ma la soluzione non è l’eutanasia, quanto la premurosa vicinanza, la continuazione delle cure ordinarie e proporzionate, la palliazione, e ogni altra cosa che non procuri abbandono, senso di inutilità o di peso a quanti soffrono”.
Tali ragioni possono trovarsi nell’umanità del cristianesimo, che si fonda sulla vita: “Tale prossimità e le ragioni che la generano hanno radici nell’umanità condivisa, nel valore unico della vita, nella dignità della persona, e trovano sorgente, luce e forza ulteriore in Gesù di Nazareth che, proprio sulla Croce, nella fase terminale della esistenza, ci ha redenti e ci ha donato sua madre, scambiando con Lei, con il discepolo amato e con chi condivideva la pena, parole e un testamento di vita unico, irrinunciabile, non dissimili a quelle confidenze che tanti cari ci hanno lasciato sul letto di morte”.
A tale giudizio il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, è disponibile ad ogni approfondimento, affermando che “le sentenze della Corte Costituzionale si applicano, come prescrive la Costituzione italiana. Possono certamente essere discusse e non condivise, ma non disattese, in ossequio al principio di legalità.
Come noto, la Corte Costituzionale si è pronunciata per colmare un vuoto sulla materia prodotto dall’inerzia prolungata del Parlamento. E lo ha fatto, ancora una volta, chiedendo alle Camere di legiferare, di discutere e approvare una legge nazionale. E questo è anche il mio auspicio”.
Nel frattempo la regione ha disposto le modalità di accesso all’istituto del suicidio medicalmente assistito: “E lo ha fatto perché ciò è dovuto in uno Stato di diritto, scongiurando viceversa quanto altrove già accaduto e ancora rischia di accadere: che un paziente, peraltro in condizioni drammatiche, debba ricorrere al giudice ordinario per vedersi riconosciuto quello che, va ribadito, è un diritto ora sancito dalla Corte costituzionale. Sono certo che sul principio di legalità anche la Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna non possa che convenire”.
Sotto la punta dell’iceberg
L’anima è per Dio, non per lo spiritismo: la testimonianza di una ragazza finita sull’orlo del suicidio

Mio padre è morto quando ero piccola, avevo solo sei anni. È morto perché gli hanno sparato, mentre faceva un blitz. Era poliziotto e aveva un grande senso del dovere. Quel senso del dovere che mio fratello, allora undicenne, ha presto fatto suo, mentre io mi sono sempre arrabbiata con papà: la sua voglia di combattere il male lo aveva portato via da me. Non era anche questo un male?
Lo hanno chiamato ‘eroe’, hanno detto che aveva dato la vita per la comunità. L’uomo che lo ha ucciso è finito in carcere anche per merito suo. Ma a me importava poco, a sette anni: non me ne facevo nulla di un padre acclamato dalla gente rinchiuso in una tomba o della stella data a mia madre in suo onore, nel primo anniversario dalla sua scomparsa. Sono cresciuta con un vuoto. Un vuoto che mamma non ha saputo gestire.
Ben presto sono diventata la pecora nera della famiglia, la piccola ribelle e indomabile che faceva di tutto pur di attirare le attenzioni e far capire quanto soffriva. Mentre mio fratello cresceva identico a nostro padre (bravo a scuola, impegnato nel volontariato, pieno di buoni progetti e di ‘valori’), io cercavo l’amore e la sicurezza in mia madre, che però non mi capiva.
Facevo il diavolo a quattro, lo ammetto. Era il mio modo di dirle: ‘Guardami, ho bisogno di te’, ma lei vedeva solo le mie urla, i miei capelli viola, le mie unghie nere e si vergognava di me. Sì, la metteva in imbarazzo che la ‘figlia dell’eroe’ fumasse canne e si vestisse sempre di nero. Questa, forse, era la cosa che mi pesava di più. Non essere amata in modo incondizionato da lei.
Ogni tanto, quando sbattevo la porta dietro di me, mi diceva: ‘Se ci fosse stato qui tuo padre non saresti mai diventata così! Ti approfitti di me perché sono sola… Non ce la faccio più!’ Mentre io chiedevo aiuto (in modo sbagliato, sì, ma non conoscevo un’altra lingua a sedici anni), lei mi faceva capire che ero un peso. E così vivevo io: sentendomi un peso. Prima di tutto ero un peso per me stessa.
Una sera, ad una mostra d’arte (quella era la mia grande passione, tanto che frequentavo il liceo artistico), ho conosciuto una pittrice che dipingeva cose molto particolari: animali con la testa da donna, donne con la testa di uccelli, uomini con gli zoccoli di cavallo ai piedi.
Abbiamo iniziato a parlare. Le ho detto che amavo gli animali (trovavo più conforto in loro e nella natura che non nelle persone) e che volevo capire il significato dei suoi quadri. Mi ha detto che il regno degli uomini e il regno degli animali è più connesso di quanto crediamo e che nei suoi quadri vuole ricordarci che siamo chiamati a convivere e rispettarci. Mi ha detto di non tollerare la presunta superiorità dell’uomo sul creato.
Non so come dire, ma era ammaliante mentre parlava, attraente. Aveva quel fascino da artista, quel carisma. Era una signora (20 anni più di me) ma un aspetto così giovanile… La vedevo simile a me.
Abbiamo deciso di rivederci. Paola, si chiamava. Frequentandoci ha iniziato a farmi capire che scorgeva il mio ‘grande potenziale’: secondo lei, avrei dovuto sprigionare la mia creatività e mostrare al mondo tutto il mio splendore.
(Prima Parte)